Tempo di lettura: 2 minutiEpilessia, un supercalcolatore e la cosiddetta analisi quantitativa delle ricorrenze ora può diagnosticarla nelle fasi inziali. La sensazionale scoperta arriva dai ricercatori dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri ed è basata sull’analisi di dati precedentemente ottenuti da un team di ricercatori italiani ed israeliani in un modello sperimentale che riproduce nei topi ciò che accade nel cervello dell’uomo in seguito all’esposizione a fattori di rischio, tra cui ictus, traumi cerebrali, infezioni, esposizione ad agenti tossici, che possono portare all’insorgenza dell’epilessia.
L’intermittenza dinamica
Il marcatore individuato dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri è rappresentato da un comportamento dell’attività elettrica cerebrale noto come “intermittenza dinamica”, ossia un comportamento caratterizzato dall’alternanza tra oscillazioni approssimativamente regolari e oscillazioni molto irregolari. Un comportamento che è molto pronunciato durante le fasi in cui si sviluppa l’epilessia ed è riscontrabile negli elettroencefalogrammi già nelle prime 48 – 72 ore successive all’esposizione ai fattori di rischio. Cosa ancor più importante, è stato mostrato come la somministrazione di un farmaco sperimentale in grado di prevenire l’insorgenza dell’epilessia negli animali da laboratorio, sia in grado di ridurre notevolmente questo comportamento dell’attività elettrica del cervello, mostrando la prova di principio che questo marcatore potrebbe essere utilizzato come indicatore del potenziale anti-epilettogeno delle terapie in fase di sviluppo, terapie tuttora mancanti. «Grazie all’identificazione di questo marcatore precoce di epilettogenesi – spiega Massimo Rizzi, del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri – si potrà dare un impulso considerevole alla ricerca per la messa a punto di interventi terapeutici in grado di prevenire efficacemente l’insorgenza dell’epilessia nei soggetti a rischio».
Il progetto europeo
Questi risultati sono stati resi possibili grazie al progetto europeo EPITARGET, che non solo promuove la ricerca sull’epilessia ma, anche, lo scambio di dati tra i ricercatori, e dall’utilizzo dei centri di calcolo dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), che rappresentano i componenti chiave dell’intera struttura di calcolo italiana basata sul Grid Computing.
I dati
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), quasi un milione di persone nel mondo, ogni anno, sviluppano l’epilessia in seguito all’esposizione a noti fattori di rischio come l’ictus, traumi cerebrali, infezioni, esposizione ad agenti tossici, ipossia, solo per citare i più comuni. Per questi individui ancora oggi non è possibile intervenire in alcun modo, dato che non esistono terapie in grado di prevenire l’insorgenza dell’epilessia. Infatti, le terapie (prevalentemente farmacologiche) attualmente disponibili sono sintomatiche, cioè agiscono solo sui sintomi (le convulsioni) allo scopo di prevenirne o, almeno, limitarne la comparsa, cosa purtroppo non sempre possibile da attuare con efficacia.
Invecchiamento cutaneo: chi ha avuto l’acne non avrà le rughe
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneLe cellule dell’acne, tanto odiate in età adolescenziale, fanno da scudo contro l’invecchiamento futuro. Ebbene sì, chi ha sempre pensato che i brufoli fossero un problema si sbagliava. Anche se i segni sul viso possono creare disagio, un nuovo studio ha stabilito che sul lungo tempo potrebbero portare dei vantaggi rispetto a chi non li ha mai avuti.
La scoperta rivelata da uno studio del King’s College London stabilisce che le cellule affette da acne sono dotate di una sorta di “scudo” contro l’invecchiamento.
Insomma, chi non ha mai avuto l’acne potrebbe fare i conti con le rughe da grande, mentre chi ne ha sofferto ha più probabilità di mantenere la sua lucentezza giovanile. Per arrivare a queste conclusioni, pubblicate sul Journal of Investigative Dermatology, i ricercatori hanno studiato i telomeri, ovvero quelle piccoli “cappucci” situati alle estremità dei cromosomi che proteggono il Dna da eventuali danni. I telomeri si accorciano con l’avanzare dell’età e alla fine diventano così corti che le cellule muoiono. Precedenti studi hanno trovato che gli uomini e le donne con i telomeri lunghi tendono a essere biologicamente più giovani rispetto ai coetanei con i telomeri più corti. In pratica, i telomeri sono considerati così importanti dalla comunità scientifica che chi li ha scoperti ha vinto il premio Nobel per la Medicina sette anni fa. Nel nuovo studio sono stati misurati i telomeri dei globuli bianchi di oltre 1.200 gemelli, tutti di sesso femminile, un quarto dei quali ha sofferto di acne. Ebbene, i telomeri sono risultati significativamente più lunghi in coloro che hanno avuto l’acne da adolescenti, anche quando sono stati presi in considerazione altri fattori, come l’età.
In un secondo esperimento i ricercatori hanno analizzato i campioni di pelle e hanno scoperto che un gruppo di geni coinvolti nella morte cellulare erano meno attivi in chi soffre di acne. Veronique Bataille, una delle autrici dello studio, ha commentato così:”è bello sapere che c’è un aspetto positivo nell’avere l’acne”.
Tiroide, diagnosi precoci ma troppi gli interventi radicali
News Presa, PrevenzioneNoduli e carcinomi della tiroide sono in costante aumento. Il dato riguarda soprattutto le forme tumorali meno aggressive (istotipo papillare) e i tumori con dimensioni inferiori a 1 centimetro. E’ merito di diagnosi più accurate, insomma, se si riesce a tener testa al diffondersi di questa malattia. Una foto molto interessante in proposito arriva dal primo report dell’Italian Thyroid Cancer Observatory (ITCO), il primo osservatorio italiano sui noduli e sui tumori alla tiroide. Semplificando un po’ quello che ne viene fuori è un quadro traluci e ombre, dove le luci riguardano diagnosi precoce e nuove terapie, mentre le ombre sono legate ad un uso eccessivo di una chirurgia radicale.
Sebastiano Filetti, Preside della Facoltà di Medicina dell’Università La Sapienza di Roma spiega che «del campione analizzato, nel 98% dei casi i pazienti sono stati sottoposti a rimozione totale della tiroide e solo nel 2% dei casi viene fatta la rimozione della sola parte interessata dal tumore». Come tutto questo possa essere di interesse per la popolazione è presto detto: un intervento radicale, ove non necessario, può peggiorare la qualità di vita del paziente. Ma quali sono i campanelli d’allarme? Il sintomo più comune del tumore della tiroide è un nodulo isolato all’interno della ghiandola, che si sente tra le dita se si tocca il collo in corrispondenza della tiroide. Non tutti i noduli tiroidei mutano in forme di cancro, anzi. Spesso sono il segno di quella che si definisce “iperplasia tiroidea”, ovvero una forma benigna di crescita ghiandolare. Si stima che meno del 5% dei noduli tiroidei nasconda effettivamente un tumore. Va etto che disturbi degli ormoni tiroidei come ipo o ipertiroidismo si manifestano solo nelle forme avanzate della malattia, per fortuna molto rare.
Il prossimo studio dell’ITCO sarà centrato sulla valutazione della qualità di vita dei pazienti affetti e trattati per un tumore della tiroide. Sta infatti per prendere il via uno studio multicentrico, italiano, mirato a valutare se cambia, e come cambia, la qualità della vita dei soggetti sottoposti ad asportazione totale della ghiandola tiroidea e in terapia sostitutiva ormonale, con l’obiettivo di comprendere quale intervento terapeutico sia in grado di ripristinare lo stato pre-operatorio del paziente.
Malattia di Fabry, la diagnosi precoce è la vera sfida
News Presa, Ricerca innovazioneTutte le malattie rare costringono chi ne è colpito, e spesso i loro familiari, ad una battaglia quotidiana che va combattuta anche contro la solitudine. La malattia di Fabry non fa eccezione. Si tratta infatti di una malattia genetica metabolica che si trasmette per un difetto del cromosoma X. Ne abbiamo parlato con il professor Federico Pieruzzi, nefrologo dell’Azienda Ospedaliera San Gerardo di Monza.
Federico Pieruzzi
«Si definisce “da accumulo lisosomiale” – spiega – ed è una malattia multisistemica, progressiva ed ereditaria. E’ caratterizzata insomma da un quadro clinico particolarmente ampio, colpisce infatti le funzioni neurologiche, renali, cardiovascolari, cerebovascolari e dell’apparato uditivo». Il meccanismo che innesca questa malattia è legato ad un difetto metabolico dei “glicosfingolipidi”. «Semplificando un po’ – aggiunge il professore – questo significa che nell’organismo si produce un accumulo di metaboliti, o altre sostanze, nei lisosomi che portano alla perdita di funzionalità cellulare. Nella malattia di Fabry è la carenza dell’enzima “alfa galattosisadi” a portare danni a livello renale, cardiaco e del sistema nervoso. Per questo motivo i pazienti vengono colpiti con il tempo da complicanze di natura renale, cardiaca, cerebrovascolare o anche da una combinazione di tutti questi problemi. Da qui l’importanza di una diagnosi precoce, che renderebbe possibile interventi volti a preservare la qualità di vita».
Gli uomini i più colpiti
L’incidenza è di circa un caso su 80 mila mentre la prevalenza complessiva (incluse varianti ad esordio tardivo) è ben più elevata. I sintomi sono diversi a seconda dei casi, nelle donne sono più lievi, mentre le forme gravi i hanno generalmente negli uomini. Si hanno n entrambi i casi delle forme precoci di parestesia, si può avere bruciore, prurito e crisi episodiche caratterizzate da dolore acuto. Il professor Pieruzzi spiega poi che possono insorgere anidrosi o ipoidrosi, che causano intolleranza al calore e all’esercizio. Fondamentale, come sempre, una diagnosi precoce. Si procede con analisi di laboratorio e la conferma arriva dal test genetico e molecolare. Il riconoscimento precoce dei segni della malattia è la vera sfida da vincere.
Un rischio che ci tiene in “fibrillazione”
News Presa, PrevenzioneLa fibrillazione atriale è la più diffusa tra le malattie cardiache. I più colpiti sono gli anziani, anche se la fibrillazione atriale può essere associata ad altre malattie del cuore. Può essere acuta o cronica e purtroppo costituisce un importante fattore di rischio per l’ictus. Ma in cosa consiste? Semplificando un po’, quando l’atrio non ha una buona capacità di contrarsi è facile che si formino dei piccoli trombi. Va detto che le caratteristiche della fibrillazione atriale variano da individuo a individuo. In diverso casi i “sintomi rivelatori” non si manifestano per anni, in altri i sintomi cambiano di giorno in giorno, ragione per la quale il trattamento congiunto dei sintomi e della fibrillazione atriale si rivela tutt’altro che semplice. Un dispositivo di monitoraggio continuo può fornire al medico un quadro clinico più completo, mettendolo in condizione di attuare un trattamento più mirato. La gestione della fibrillazione atriale la si fa con farmaci anti aritmici, mentre la gestione delle conseguenze si ottiene con farmaci anticoagulanti ma si tratta di una gestione difficile. Fortunatamente oggi abbiamo a disposizione esami che aiutano il medico a calibrare la terapia più opportuna. Per inciso, è importante che i medici stessi siano sempre aggiornati sulla terapia antitrombotica e anticoagulante. E cruciale che siano ben chiari gli obiettivi che il medico deve prefiggersi nella terapia, per ottenere il massimo beneficio possibile per il paziente, raggiungendo il migliore equilibrio nel rapporto tra rischio ischemico (risultato della terapia) e rischio emorragico (eventuale effetto collaterale)».
Un conto salato
Stando ai dati stimati della Società europea di cardiologia e dall’European heart network, il costo delle malattie cardiovascolari per i paesi dell’Unione Europea è di oltre 190 miliardi di euro l’anno. Le stime riferiscono di una spesa di circa 192 miliardi di euro, dovuti per il 57% (circa 110 miliardi) ai costi sanitari, per il 21% alla produttività persa e per il 22% alle cure informali (82 miliardi). Sono le malattie che hanno i costi economici, oltre che umani, più elevati d’Europa.
Stili di vita
Per prevenire l’insorgere di queste malattie, e tenere il cuore in salute, adottare stili di vita corretti è fondamentale. Va detto che non esiste una dieta ad hoc che possa metterci al riparo dalle patologie cardiache non esiste, ma sicuramente si possono seguire delle regole che aiuteranno a restare in salute. Di molto utili se ne trovano sul portale della Fondazione Veronesi. In caso di sovrappeso o di obesità è bene impostare con il medico una dieta a basso contenuto calorico. Ridurre il consumo di sale, consumare con parsimonia pane e prodotti da forno, evitare alimenti conservati sotto sale o sott’olio, precotti o preconfezionati e salse. E ancora, abolire (o limitare al massimo) le bevande gassate, gli alcolici e superalcolici, prediligere condimenti semplici, come sughi di pomodoro o alle verdure per la pasta, e brodo vegetale per risotti, pasta o riso, non eccedere con l’assunzione quotidiana di vitamina K e preferire cotture al vapore, ai ferri, alla griglia e al cartoccio per carni e pesci; a lesso, al vapore o al forno per le verdure.
Fumo “di terza mano” resta in casa per piu’ di 6 mesi
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneNon solo il fumo passivo, anche il fumo di terza mano provoca danni alla salute ed è duraturo nel tempo.
Tutti sanno che fumare fa male e nuoce a chi sta vicino. Nessuno sa però che fa male anche stare in casa o in un’automobile, dove qualcuno ha fumato il giorno prima, la settimana prima o addirittura 6 mesi prima. Quando si smette di fumare, le sostanze cancerogene del fumo rimangono nei divani, nelle pareti e nei tappeti per molto tempo. E le persone che vivono in quella casa, che siano fumatori o meno, vengono esposti a livelli elevati di sostanze chimiche pericolose. Lo hanno scoperto i ricercatori della San Diego State University in uno studio pubblicato sulla rivista Tobacco Control. Questi risultati, spiegano gli studiosi, sono un avvertimento per i fumatori e la loro cattiva abitudine di esporre i propri familiari a sostanze dannose. Per arrivare a queste conclusioni i ricercatori hanno reclutato 90 fumatori che stavano smettendo di fumare. Gli studiosi hanno visitato le loro abitazioni per sei mesi, eseguendo dei tamponi sulle pareti, sulle porte, sui pavimenti, sulle mani e nell’urina degli abitanti. I tamponi sono stati analizzati per verificare la presenza di eventuali sostanze chimiche legate al fumo, come la nicotina, la cotinina e l’agente cancerogeno conosciuto come NNK. Solo l’8 per cento dei 90 soggetti coinvolti sono riusciti a smettere di fumare con successo. Ebbene, di questo 8 per cento e’ stato registrato un calo significativo di tracce di nicotina sulle superfici della casa e sulle dita dei residenti. Tuttavia, i livelli di nicotina sono risultati piu’ alti rispetto al normale. I livelli di nicotina e di NNK inoltre, sono rimasti invariati nei campioni di polvere del pavimento tra prima e dopo aver smesso di fumare. Non solo. I test condotti sulle persone che condividevano l’abitazione con gli ex fumatori non hanno mostrato alcuna riduzione dei livelli di composti cancerogeni durante tutto il semestre dello studio. “E’ importante sapere quanto tempo il fumo di terza mano indugia in un ambiente domestico e se l’ex fumatore e altri residenti sono esposti a suoi composti tossici”, ha detto Georg Matt, autore principale dello studio.
Epilessia, un marcatore per la diagnosi precoce
News Presa, Ricerca innovazioneEpilessia, un supercalcolatore e la cosiddetta analisi quantitativa delle ricorrenze ora può diagnosticarla nelle fasi inziali. La sensazionale scoperta arriva dai ricercatori dell’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri ed è basata sull’analisi di dati precedentemente ottenuti da un team di ricercatori italiani ed israeliani in un modello sperimentale che riproduce nei topi ciò che accade nel cervello dell’uomo in seguito all’esposizione a fattori di rischio, tra cui ictus, traumi cerebrali, infezioni, esposizione ad agenti tossici, che possono portare all’insorgenza dell’epilessia.
L’intermittenza dinamica
Il marcatore individuato dai ricercatori dell’Istituto Mario Negri è rappresentato da un comportamento dell’attività elettrica cerebrale noto come “intermittenza dinamica”, ossia un comportamento caratterizzato dall’alternanza tra oscillazioni approssimativamente regolari e oscillazioni molto irregolari. Un comportamento che è molto pronunciato durante le fasi in cui si sviluppa l’epilessia ed è riscontrabile negli elettroencefalogrammi già nelle prime 48 – 72 ore successive all’esposizione ai fattori di rischio. Cosa ancor più importante, è stato mostrato come la somministrazione di un farmaco sperimentale in grado di prevenire l’insorgenza dell’epilessia negli animali da laboratorio, sia in grado di ridurre notevolmente questo comportamento dell’attività elettrica del cervello, mostrando la prova di principio che questo marcatore potrebbe essere utilizzato come indicatore del potenziale anti-epilettogeno delle terapie in fase di sviluppo, terapie tuttora mancanti. «Grazie all’identificazione di questo marcatore precoce di epilettogenesi – spiega Massimo Rizzi, del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri – si potrà dare un impulso considerevole alla ricerca per la messa a punto di interventi terapeutici in grado di prevenire efficacemente l’insorgenza dell’epilessia nei soggetti a rischio».
Il progetto europeo
Questi risultati sono stati resi possibili grazie al progetto europeo EPITARGET, che non solo promuove la ricerca sull’epilessia ma, anche, lo scambio di dati tra i ricercatori, e dall’utilizzo dei centri di calcolo dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), che rappresentano i componenti chiave dell’intera struttura di calcolo italiana basata sul Grid Computing.
I dati
Secondo i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), quasi un milione di persone nel mondo, ogni anno, sviluppano l’epilessia in seguito all’esposizione a noti fattori di rischio come l’ictus, traumi cerebrali, infezioni, esposizione ad agenti tossici, ipossia, solo per citare i più comuni. Per questi individui ancora oggi non è possibile intervenire in alcun modo, dato che non esistono terapie in grado di prevenire l’insorgenza dell’epilessia. Infatti, le terapie (prevalentemente farmacologiche) attualmente disponibili sono sintomatiche, cioè agiscono solo sui sintomi (le convulsioni) allo scopo di prevenirne o, almeno, limitarne la comparsa, cosa purtroppo non sempre possibile da attuare con efficacia.
Una super risonanza brucia il cancro, ecco come
News Presa, Ricerca innovazioneUna risonanza magnetica sarà in grado di “bruciale” le cellule del tumore. Non è una promessa fantascientifica, è una realtà che molto presto potrebbe rivoluzionare la pratica clinica tradizionale per alcune forme di cancro. Questa super risonanza magnetica, grazie ad un apposito macchinario che emette ultrasuoni, potrà infatti colpire con precisione la neoplasia. L’apparecchio, innovativo a livello europeo, entra di fatto nella dotazione dell’Istituto scientifico romagnolo per la cura dei tumori (Irst) e darà il via ad uno studio unico nel panorama internazionale che mira alla diagnosi e cura dei tumori
La sperimentazione
Tre sono i progetti i progetti sperimentali che saranno portati avanti per valutare “accuratezza diagnostica”, “sicurezza”, “tollerabilità”, “comfort” e naturalmente anche il rapporto tra costo ed efficacia. I ricercatori cercheranno anche di stabilire la capacità della risonanza nell’individuare i danni procurati al fegato dai farmaci chemioterapici e l’utilizzo degli ultrasuoni focalizzati ad alta intensità nel trattamento dalle metastasi ossee e del dolore.
Doppia potenza
Una delle caratteristiche che rendono unica questa risonanza è quella di avere una potenza doppia rispetto alla risonanza “standard”. Di qui anche il nome “Rm 3Tesla” con sistema Hifu (High-Intensity Focused Ultrasound.) In questo modo l’apparecchio permette di individuare lesioni tumorali di un millimetro, solitamente non si riescono a monitorare lesioni sotto i 5 millimetri. Inoltre è possibile analizzare al meglio tutti i tessuti, compresi quelli molli, e registrare gli aspetti di funzionamento degli organi. Ad esempio studiando il cervello si possono vedere le reazioni delle diverse aree al dolore e se ne può monitorare l’intensità. Il super macchinario entrerà a pieno regime ad aprile e vi potrà avere accesso chiunque abbia i requisiti per la sperimentazione.
Mal di testa: in Italia ne soffrono 7,2 milioni di persone
Farmaceutica, News Presa, Ricerca innovazioneIn Italia 7,2 milioni di persone soffrono di mal di testa, il 12 per cento della popolazione in generale e ben il 18 per cento di quella femminile.
Questo disturbo negli adulti può assumere circa 200 forme diverse, racchiuse in due grandi categorie, cefalee primarie e cefalee secondarie. Tra le primarie la più diffusa è l’emicrania che rappresenta la terza malattia in termini di prevalenza e la sesta causa di disabilità al mondo.
Negli ultimi anni la ricerca scientifica neurologica è andata avanti, l’obiettivo è capire la patogenesi dell’emicrania, individuarne le strategie terapeutiche e anche preventive. La Società Italiana di Neurologia, in occasione della giornata mondiale del mal di testa di quest’anno, ha fatto il punto della situazione sulle terapie per la cura del mal di testa.
“Dal punto di vista patogenetico – ha affermato il prof. Pietro Cortelli, Professore Ordinario di Neurologia e Direttore Scuola di specialità di Neurologia DIBINEM, Alma Mater Studiorum Università di Bologna IRCCS-ISNB – nel corso degli ultimi anni, un numero crescente di studi con neuro-immagini svolte dal gruppo del prof. Gioacchino Tedeschi dell’Università di Napoli, ha permesso una più approfondita conoscenza dei meccanismi di base delle cefalee e in particolare dell’emicrania, identificando le regioni cerebrali coinvolte nel trasmettere l’insorgenza del dolore emicranico e dei sintomi associati”. “Da questi studi – ha rivelato il prof. Cortelli – infatti, è emerso che meccanismi di modulazione cerebrale modifichino l’ipersensibilità visiva, olfattiva e al dolore nei pazienti emicranici. Dal punto di vista terapeutico, uno studio internazionale, a cui partecipa anche l’Italia, ha dato ottimi risultati sulla possibilità di prevenire gli attacchi di emicrania attraverso la somministrazione mensile di una terapia in grado di ridurre il numero di attacchi. Si tratta degli anticorpi contro il CGRP*, il recettore che ha assunto un ruolo chiave nell’insorgenza dell’emicrania”.
Tra i trattamenti non invasivi c’è la neuro stimolazione esterna. Uno studio indicherebbe l’efficacia e l’assenza di eventi avversi gravi e pericolosi per le tre modalità di neuro stimolazione non invasiva: stimolatore transcutaneo sopraorbitario, stimolazione magnetica transcranica e stimolatore esterno del nervo vago. Tra questi, la stimolazione del nervo vago è stata usata non solo nel trattamento acuto e preventivo dell’emicrania ma anche in quello della cefalea a grappolo.
“Farlo in acqua” è meglio
News PresaSono sempre più le donne che scelgono di partorire di in acqua, un modo di affrontare la nascita del piccolo che si è dimostrato particolarmente utile sia per la gestante che per il bambino. Come funziona? Possono sceglierlo quasi tutte le donne, a patto che non si tratti di una gravidanza non a rischio. Ovviamente sta all’ospedale mettere a disposizione della partoriente una vasca realizzata ad hoc, in questo senso i migliori ospedali (e cliniche) sono tutti attrezzati per poter garantire questo tipo di parto.
Come si procede
Nel parto in acqua, esattamente come in quello tradizionale, con la donna ci sono sempre sia il ginecologo che l’ostetrica. La partoriente viene fatta entrare in acqua quando la dilatazione della cervice è all’incirca a 5 centimetri. Diverse sono le posizioni che si possono assumere per favorire l’uscita del bambino; alcune donne si sentono a proprio agio accovacciate, altre preferiscono stare carponi, altre ancora stese sulla schiena. Va detto che può succedere, se il travaglio è troppo lento, che il ginecologo chieda alla partoriente di uscire dall’acqua, per poi rientrare al momento giusto.
Un timore ingiustificato
Alcune donne non valutano neanche questo tipo di parto per il timore, del tutto ingiustificato, che possa nuocere al nascituro. L’idea che non possa respirare subito dopo l’espulsione, per quanto assurda, è una nemica di questa tecnica che anzi è estremamente naturale. Diciamo anche che il piccolo, sino a quando, non esce dall’ambiente nel quale si è formato è stato per nove mesi, non ha il riflesso della respirazione, quindi non c’è alcun pericolo.
I benefici
Per quel che riguarda la mamma, i benefici di questo ti podi parto sono molti: minor dolore (l’acqua ha un effetto miorilassante e antidolorifico), tempi più brevi, minore possibilità di dover ricorrere al taglio che previene le lacerazioni vaginali o perianali. E poi c’è il vantaggio di un contatto immediato con il bambino, che viene subito appoggiato sulla pancia favorendo in entrambi il processo di accettazione. Anche per il nascituro il parto in acqua ha molti benefici, si riduce infatti lo stress della nascita e poi la temperatura dell’acqua evita che ci siano sbalzi di temperatura al momento della nascita. Infine, e non è cosa da poco, si ha una riduzione del rischio di infezioni polmonari.
Ansia, il male del nuovo millennio
News PresaStando al National Institute of Mental Health, il 20% della popolazione USA soffre d’ansia. In Italia la stessa analisi parla di un buon almeno l’11,8 %. Ma il dato, se si considera che sono in molti ad evitare di rivolgersi ad uno specialista che possa diagnosticare il disturbo, è decisamente sottostimato. Resta quindi una gigantesca fetta di popolazione che vive in un limbo, colpita da disturbi quali attacchi di panico, fobie, stress post-traumatico e ansia generalizzata. Non meraviglia che in molti guardino all’ansia come al “male del nuovo millennio”. Le più colpite sono le donne e la cosa sorprendente è che oltre al tran tran quotidiano fatto dell’esigenza di dover assolvere ad un numero enorme di compiti, succede per un motivo biologico. Anzi, per la precisione ormonale. Ma allora, come la si può affrontare?
I farmaci
L’uso di medicinali in alcuni casi è indispensabile, ma secondo il parere di molti medici non sempre i farmaci sono la strada migliore. Spesso agiscono sul sintomo, ma non risolvono la causa del problema. (Lo spiega bene Joseph Le Doux nel saggio “Ansia: come il cervello ci aiuta a capirla”). Ai farmaci si lega inoltre un abuso da parte di alcuni pazienti che non riuscendo ad uscire dal tunnel dell’ansia arrivano ad un sovradosaggio, ignorando la prescrizione medica.
L’esercizio fisico
In alcuni casi fare sport può aiutare a scaricare le tensioni e ridurre lo stress. Esistono poi specifiche tecniche di rilassamento, si pensi allo yoga, che hanno la capacità di abbassare sensibilmente i livelli di ansia e che ci permettono di tenere sotto controllo la nostra ansia.
Non necessariamente un nemico
Sembra incredibile, ma l’ansia è anche un alleata; naturalmente se si tratta di un sintomo controllato e minore. Si tratta infatti di un meccanismo naturale, fisiologico, una condizione che attiva le nostre risorse e ci consente di affrontare situazioni difficili nel migliore dei modi. L’importante è che si tratti di un livello di ansia gestibile e non di una condizione patologica.