Tempo di lettura: 3 minutiL’emergenza pandemica da Covid-19 ha attraversato la quotidianità del nostro Paese, trasformandola in tempi ristretti, costringendo ad una modifica radicale delle abitudini e delle possibilità con cui ognuno di noi è solito pensare alla propria vita. Nella necessità di una reazione comunitaria per la sopravvivenza, la dimensione diretta del nostro spazio sociale si è contratta, accorciando le distanze dei nuclei familiari (riportati in una prossimità a cui forse non erano più abituati) e allo stesso tempo tagliando fuori quella catena di eventi, incontri e relazioni che costituiscono il più fluido tessuto interpersonale di ciascun individuo. Dalle finestre, aperte nel tentativo di mantenere un passaggio con il mondo, si guarda ad una minaccia che per molti “forse sarà, forse non sarà, nel frattempo non è” ma che, tuttavia, nel suo impatto concreto con una parte importante dei nostri bisogni di animali sociali, parla alla “pancia” di ognuno di noi.
I sistemi psicofisiologici degli esseri umani sono predisposti a rispondere ad un livello precosciente alle interazioni con l’ambiente circostante che possono minacciare e/o interessare la sopravvivenza dell’individuo. Semplificando, possiamo ricondurre queste risposte a due “sistemi” che caratterizzano il nostro funzionamento di base: il sistema di difesa e quello di ingaggio sociale. Le attivazioni del primo ci permettono di essere “pronti” ad affrontare un pericolo prima ancora di esserne pienamente consapevoli mentre, al contrario, l’attivazione del sistema di ingaggio sociale porta ad essere maggiormente ricettivi nei confronti dei messaggi provenienti da soggetti portatori di bisogni relazionali e/o di accudimento (dai figli al partner), che consentono la costruzione dei sistemi umani significativi necessari alla sopravvivenza della specie. Semplificando ancora, questi due sistemi funzionano in modo complementare: quando uno dei due è attivo l’altro tende ad avere un funzionamento ridotto.
Il Sars-CoV-2, nella contingenza attuale, ci ha messo nella (seppur momentanea) situazione paradossale di un potenziale funzionamento di “emergenza” all’interno di quello che dovrebbe essere il contesto di sicurezza per definizione: la nostra casa. In questo paradosso, nella prossimità di una minaccia invisibile, potremmo ritrovarci di fronte a un sistema di difesa sovra stimolato dalle notizie sull’emergenza in una dimensione di riferimento coattivamente ravvicinata, con una maggiore facilità di incomprensioni e/o difficoltà nella convivenza.
Come sottolineato dai diversi vademecum diffusi in questi giorni dalle Istituzioni ed Associazioni psicologiche italiane, anche in queste circostanze, la prevenzione e il benessere psicologico sono possibili e si costruiscono sulla base di comportamenti concreti, come ad esempio:
-darsi dei tempi stabiliti per la ricerca di informazioni, evitando di stimolare continuamente un’attenzione selettiva già iperattiva;
-direzionare la ricerca di informazioni a poche fonti affidabili, contrastando quella che potrebbe essere una tendenza protettiva naturale a massimizzare sia la quantità di informazioni raccolte che le fonti;
-in presenza di uno stato di maggiore allerta, con manifestazioni di irritabilità e una minore capacità di utilizzare il dialogo come meccanismo di gestione dei rapporti, cercare di essere consapevoli della minore predisposizione all’interazione con l’altro e tradurre il proprio linguaggio relazionale esplicitando i “non detti”, rallentando i ritmi della comunicazione con maggiori chiarimenti, andando a prevenire quella che potrebbe trasformarsi in una comunicazione di “contrapposizione”;
-cercare di mantenere dei riferimenti basici “sicuri” nella propria giornata, quali una routine di allenamento, l’orario dei pasti, alcuni piccoli rituali di benessere;
-laddove non si possano integrare le giornate con le previste forme di “smart – working”, mantenere comunque, al di là delle attività di svago, dei comportamenti produttivi finalizzati (ad esempio acquisire nuove abilità, imparare una nuova lingua, iniziare un piano di allenamento, fare dei corsi on-line);
-in caso di difficoltà ad adattarsi alla situazione, con risvolti significativi sul proprio funzionamento quotidiano e/o in caso di risvolti traumatici, non vergognarsi a chiedere aiuto a professionisti specializzati, anche attraverso le possibilità che gli attuali strumenti di comunicazione multimediale offrono.
Dobbiamo tutti essere consapevoli che la crescita “post-traumatica” è sempre, attraverso la sofferenza che ne caratterizza i percorsi, un obiettivo da raggiungere. Quella della nostra Comunità italiana (e di conseguenza del nostro Paese), passerà per la capacità di ogni cittadino di prendersi cura di sé stesso e delle proprie relazioni ma, soprattutto, per la capacità dell’intero sistema di far progressivamente “ripartire” chi in questa emergenza sarà stato più sfortunato di altri.
Alcolismo, così si spegne la dipendenza
Ricerca innovazione, Stili di vitaDire addio all’alcolismo spegnendo i neuroni responsabili della dipendenza. L’incredibile esperimento è stato portato a termine con successo da alcuni ricercatori del The Scripps Research Institute di La Jolla (California). L’equipe diretta da Giordano De Guglielmo ha scoperto che disattivando un piccolo gruppo di neuroni localizzati nell’ amigdala (parte del cervello chiamata così per la forma a mandorla), le cavie alcolizzate perdono la dipendenza. In altre parole le cavie non sentono più la necessità di andare in cerca di alcol, né manifestano alcun sintomo di astinenza. Tutto nasce da una precedente ricerca basata sempre sull’alcolismo. In particolare il risultato raggiunto era stato quello di localizzare, proprio nell’amigdala, i neuroni dell’alcolismo. In questo nuovo studio, pubblicato su The Journal of Neuroscience, gli scienziati hanno trovato il modo di evidenziare questi neuroni, inserendovi una proteina colorata, per poi spegnerli.
I dati
Stando ai dati del Ministero della Salute «l’alcolismo colpisce gli uomini con una frequenza doppia rispetto alle donne. Più precoce è l’avvio al consumo alcolico, maggiore è il rischio e la probabilità di insorgenza di alcolismo in età adulta. I consumatori a maggior rischio, secondo le definizioni dell’Osservatorio Nazionale Alcol CNESPS presso l’Istituto Superiore di Sanità (ONA) sono più frequenti tra: anziani di età pari o superiore a 65 anni (il 43,0% degli uomini e il 10,9% delle donne), giovani di 18-24 anni (il 22,8% dei maschi e l’8,4% delle femmine) e tra gli adolescenti di 11-17 anni (il 14,1% dei maschi e l’8,4% delle femmine). Tra i giovani di 18-24 anni il comportamento a rischio più diffuso è il binge drinking. Secondo dati dell’ONA il consumo a rischio di alcol riguarda oltre 8 milioni di persone in Italia, mentre sono più di 4 milioni i binge drinker e quelli che almeno una volta nel corso dell’ultimo anno hanno consumato più di 6 drink alcolici in un’unica volta.
Un problema di sanità pubblica
Nelle società occidentali l’alcol è un importante problema di sanità pubblica; è responsabile del 9% della spesa sanitaria nei Paesi europei ed è uno dei fattori di rischio più importanti per la salute, rappresentando una delle principali cause di mortalità e morbilità. Il 40-60% di tutte le morti traumatiche in Europa sono attribuibili, secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, all’alcol.
Dalle cavie all’uomo
Incredibilmente, disattivando quei neuroni la dipendenza dagli alcolici cessa all’istante. L’effetto dura a lungo (il tempo di osservazione dedicato nel corso dei test è stato di diverse settimane) e l’esperimento è stato ripetuto per ben tre volte, sempre con gli stessi risultati. L’obiettivo è ora quello di trasferire i risultati ottenuti sulle cavie da laboratorio sugli esseri umani. Un passaggio ambizioso che in futuro potrebbe cambiare la vita di milioni di persone nel mondo.
Insonnia: aumenta con l’uso dello smartphone
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneIn media una persona trascorre un’ora e mezza al giorno a interagire con il proprio smartphone. I giovani invece ne fanno un uso molto maggiore.
Quante più volte, però, un utente controlla il proprio telefonino tanto più la qualità del suo sonno è scarsa. A dirlo è uno studio condotto su PLoS One e diffuso da Reuters Health. Questo, secondo l’autore senior Dr. Gregory M. Marcus della University of California, San Francisco, è il primo studio che misura direttamente il tempo in cui uno schermo è attivo e lo confronta con la qualità del sonno. Per calcolare l’attività dello schermo i ricercatori hanno usato un’App. In particolare hanno analizzato per 30 giorni i dati su un campione di 653 adulti arruolati nell’internet-based Health eHeart Study. Alcuni partecipanti hanno fornito informazioni circa le loro abitudini sonno-veglia, dati demografici e dati di salute.
In 30 giorni in media uno schermo di uno smartphone è attivo 38,4 ore. Il tempo medio di accensione è di 3,7 minuti, equivalenti a un’ora e 29 minuti al giorno.
“A prima vista, che ognuno di noi spenda in media un ora e mezza della propria giornata interagendo con il proprio telefono non sorprende”, ha detto Marcus. “Ma ragionando sul fatto che si tratta di un ora e mezza di tempo ininterrotto, è una parte piuttosto significativa dei nostri giorni.”
Per quanto riguarda i giovani, secondo lo studio tendono ad usare lo smartphone di più: il tempo varia per età e razza, ma risulta simile per le persone con lo stesso background socio-economico.
Con l’aumentare del tempo in cui lo schermo risulta attivo, diminuisce la qualità del sonno. “Sono rimasto sorpreso che le persone utilizzano i loro telefoni per una o due ore al giorno, pensavo che il tempo fosse ancora di più” ha detto Michael Gradisar della Flinders University School of Psychology ad Adelaide, in Australia.
La luce prodotta dagli smartphone potrebbe sopprimere la produzione di melatonina, che è legata alle funzioni del sonno, ha osservato Marcus.
“Tuttavia, è anche possibile che siano le attività stesse del telefono, come i rumori e la richiesta di interazione (diversamente dalla tv), a contrastare il momento della preparazione del sonno”. Ciò non toglie che potrebbero essere le stesse persone con insonnia a passare più tempo con lo smartphone proprio per la loro difficoltà ad addormentarsi, sollevando quindi l’uso dello smartphone da qualsiasi causalità.
“Sappiamo che il sonno disturbato o ridotto porta a molti problemi di salute, e stiamo solo ora cominciando a riconoscere pienamente l’impatto negativo sul sistema cardiovascolare”, ha concluso Marcus.
Depressione, la dieta mediterranea come antidoto
Alimentazione, Psicologia, Stili di vitaCon la Dieta mediterranea si può migliorare la propria qualità di vita e allontanare il rischio di disabilità, dolore cronico e addirittura di depressione. La notizia non è legata al solito “sentito dire” paragonabile al detto “una mela al giorno”, si tratta invece di uno studio scientifico nato dalla collaborazione tra l’Istituto di neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche (In-Cnr) e Nicola Veronese dell’Università di Padova. Un lavoro che ha preso in considerazione 4.470 americani con un’età media di 61 anni.
Un nuovo punto di vista
«È la prima volta che in uno studio di questo genere vengono prese a campione popolazioni con regimi dietetici lontani da quello mediterraneo e con una prevalenza di malattie cardiovascolari e metaboliche più elevata rispetto a quelle del Vecchio Continente», spiega Stefania Maggi della Sezione invecchiamento dell’In-Cnr. «L’aderenza alla Dieta mediterranea è stata valutata attraverso un’inchiesta dietetica sui cibi che erano stati consumati più frequentemente nell’ultimo anno, mentre qualità di vita e aspetti a questa collegati (tono dell’umore, disabilità, dolore) sono stati valutati con scale appropriate disponibili in questo studio».
I dati
I ricercatori hanno constatato che i soggetti che seguivano questo stile alimentare avevano una migliore qualità di vita: «In particolare una minore prevalenza di disabilità e depressione (circa il 30% in meno) – prosegue la ricercatrice dell’In-Cnr – i benefici che abbiamo osservato nei soggetti esaminati sono legati all’abbondante consumo di frutta, verdura, cereali, noci, olio d’oliva, alla moderata assunzione di vino, in particolare rosso, di pesce e pollo e a una bassa assunzione di uova e carni rosse; insomma, a uno stile alimentare riconducibile alla Dieta mediterranea. Un tipo di alimentazione che ha un ruolo anti-ossidante e anti-infiammatorio, con una conseguente ricaduta positiva sulla qualità di vita».
Covid-19: inizia il calo dei contagi
News PresaHanno superato quota 100.000 (101.739 per essere precisi) gli italiani che hanno contratto il temibile virus Covid-19.
Gli ultimi dati del 30 Marzo ci dicono che ci sono 1.648 malati in più, dato in calo e nettamente inferiore ai 3.815 di ieri. I guariti sono 1590, mai cosi tanti in una sola giornata; le persone guarite dal coronavirus ad oggi raggiungono la cifra di 14.620. Il dato purtroppo tristemente in crescita è, invece, quello delle persone decedute, 812 soltanto nella sola giornata odierna per un totale di 11591: un numero drammaticamente enorme. Un dato confortante è la progressiva diminuzione degli accessi ai pronto soccorso e alle rianimazioni ormai in totale sofferenza in Lombardia come nel resto del Paese.
Quando arriverà il picco? Quando arriverà il fatidico giorno con zero contagi? Queste le domande che tutti gli italiani si pongono.
Come ribadito dal Prof. Franco Locatelli, Presidente del Consiglio Superiore di Sanità, tutti i modelli sui cambiamenti dell’indice di contagiosità (“R “) mostrano una chiara riduzione che si avvicina sempre più verso il valore di 1, cioè di un contagiato per ogni positivo, un dato che incomincia ad essere positivo. Ma l’obbiettivo è scendere sotto questo valore.
Riguardo, invece, a quando ci sarà il picco dei contagi, i pareri non sono tutti concordi. Mentre per il Sottosegretario alla Salute PierPaolo Sileri, da poco guarito dal virus, il picco ci sarà tra 7-10 giorni, diverso il parere del Presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro, invece convinto che il picco ed il successivo calo dei contagi sarà graduale e potrebbe essere diverso da regione a regione.
Il quadro epidemiologico praticamente stabile seppur con una leggera flessione, ci indica che bisogna tenere alta la guardia per almeno altre due settimane. Poi, se proseguiranno gli effetti del contenimento, si potrà pensare a una riapertura ma soltanto per gradi.
L’appello fino ad allora sarà sempre lo stesso #restateacasa.
Bullismo, vittime e carnefici: a ciascuno la sua famiglia complessa
Associazioni pazienti, News Presa, Prevenzione, PsicologiaMarco Matteazzi, Psicologo Psicoterapeuta SIPPR , parla di un preoccupante fenomeno che prende piede tra i giovani: il bullismo. «Il termine bullismo si riferisce a quelle azioni continuate e intenzionali che una persona, apparentemente più forte, compie a scapito di un’altra persona più fragile, allo scopo di offenderla o di recarle danno. L’avverbio “apparentemente” è d’obbligo, perché il soggetto che interpreta il ruolo di “bullo” (ad esempio a scuola) spesso vive il ruolo di “vittima” in un’altra situazione (nel gruppo di amici, in famiglia, ecc.). Il bullo, dunque, mette in scena un copione che impara, suo malgrado, in un altro contesto. Alcune ricerche mostrano che nelle famiglie dei ragazzi/e più inclini a vestire i panni del “bullo” prevalgono un clima di rifiuto e scarsa accettazione del figlio e uno stile educativo autoritario e violento. Nelle famiglie dei ragazzi/e tendenti a giocare il ruolo di “vittime”, invece, sembra prevalere un’eccessiva coesione familiare che rende i figli molto dipendenti dai genitori, con conseguente difficoltà nell’aprirsi agli altri e nel gestire le difficoltà di relazione con i coetanei.
Con l’avvento delle tecnologie social (Facebook, WhatsApp, Instagram, Snapchat, ecc.) il bullismo ha assunto nuove forme (cyber-bullismo). Le prepotenze che nel bullismo “tradizionale” sono praticate nel rapporto dal vivo (o off-line) trovano una formidabile cassa di risonanza nel mondo on-line. Spesso si tratta di insulti inviati tramite siti web o chat, o della diffusione di video che offendono e intimidiscono la vittima. In queste forme di “bullismo tecnologico” è facile raggiungere un grande numero di contatti in breve tempo, ed è molto difficile (a volte impossibile) rimuovere il materiale circolante in rete. Sono sempre più note, purtroppo, le storie di (cyber)bullismo; sono storie in cui si fa spesso riferimento a due soli personaggi (bullo e vittima). In realtà si tratta di vicende dove il numero di personaggi rilevanti non è due, bensì tre. Il terzo personaggio è lo spettatore. Il suo è un ruolo trascurato, come fosse la comparsa di un film dove, a catturare l’attenzione, sono i personaggi principali (protagonista e antagonista). Ma nel (cyber)bullismo il ruolo di chi osserva è molto più importante di quanto si pensi. Si stima che più dell’85% delle situazioni di bullismo, infatti, avvengano in momenti in cui è presente un pubblico, che talvolta mostra al bullo un sostegno attivo (con risate, incitamenti), altre volte mostra un tacito consenso o una timorosa deferenza (per paura di subire trattamenti simili), altre volte (meno male) mostra sostegno alla vittima. Di fatto la presenza degli spettatori crea una situazione simile a quella di un teatro, o di un’arena; quando il pubblico è complice del bullo, rimane viva in lui la sensazione di aver regalato ai compagni un’occasione di ilarità e di divertimento, che contribuisce ad aumentare la sua popolarità e la possibilità che il triste “spettacolo” si ripeta. Il pubblico, vociante o silenzioso, può fare la differenza, nel bene e nel male. Nel caso specifico del cyber-bullismo gli spettatori hanno un peso ancora più importante, perché la vittima è esposta a una platea potenzialmente infinita, per un tempo indefinito. C’è poi un altro personaggio importante e sempre presente nelle storie di (cyber)bullismo: è l’adulto distratto. Può essere il genitore indaffarato con il lavoro, o l’insegnante oberato da impegni didattici, o lo psicologo che non parla con i ragazzi ma si limita a qualche indicazione data ai genitori. Tutto questo rende il (cyber)bullismo un problema sociale.
C’è molto lavoro da fare, in termini culturali ed educativi, con i giovani e con gli adulti; soprattutto con la scuola e con le famiglie, perché il loro rapporto sembra mostrare sempre più fratture e purtroppo, in alcuni casi, si arriva al conflitto aperto. È indispensabile ritrovare sinergia tra educatori; abbiamo bisogno di adulti attenti, alleati e responsabili. I ragazzi non imparano ciò che diciamo, ma ciò che facciamo. Se gli adulti scelgono lo scontro, è lo scontro che i ragazzi impareranno».
Marco Matteazzi del Centro Padovano di Terapia della Famiglia
Difesa e relazioni nella quotidianità della quarantena
News Presa, Prevenzione, Psicologia, Stili di vitaL’emergenza pandemica da Covid-19 ha attraversato la quotidianità del nostro Paese, trasformandola in tempi ristretti, costringendo ad una modifica radicale delle abitudini e delle possibilità con cui ognuno di noi è solito pensare alla propria vita. Nella necessità di una reazione comunitaria per la sopravvivenza, la dimensione diretta del nostro spazio sociale si è contratta, accorciando le distanze dei nuclei familiari (riportati in una prossimità a cui forse non erano più abituati) e allo stesso tempo tagliando fuori quella catena di eventi, incontri e relazioni che costituiscono il più fluido tessuto interpersonale di ciascun individuo. Dalle finestre, aperte nel tentativo di mantenere un passaggio con il mondo, si guarda ad una minaccia che per molti “forse sarà, forse non sarà, nel frattempo non è” ma che, tuttavia, nel suo impatto concreto con una parte importante dei nostri bisogni di animali sociali, parla alla “pancia” di ognuno di noi.
I sistemi psicofisiologici degli esseri umani sono predisposti a rispondere ad un livello precosciente alle interazioni con l’ambiente circostante che possono minacciare e/o interessare la sopravvivenza dell’individuo. Semplificando, possiamo ricondurre queste risposte a due “sistemi” che caratterizzano il nostro funzionamento di base: il sistema di difesa e quello di ingaggio sociale. Le attivazioni del primo ci permettono di essere “pronti” ad affrontare un pericolo prima ancora di esserne pienamente consapevoli mentre, al contrario, l’attivazione del sistema di ingaggio sociale porta ad essere maggiormente ricettivi nei confronti dei messaggi provenienti da soggetti portatori di bisogni relazionali e/o di accudimento (dai figli al partner), che consentono la costruzione dei sistemi umani significativi necessari alla sopravvivenza della specie. Semplificando ancora, questi due sistemi funzionano in modo complementare: quando uno dei due è attivo l’altro tende ad avere un funzionamento ridotto.
Il Sars-CoV-2, nella contingenza attuale, ci ha messo nella (seppur momentanea) situazione paradossale di un potenziale funzionamento di “emergenza” all’interno di quello che dovrebbe essere il contesto di sicurezza per definizione: la nostra casa. In questo paradosso, nella prossimità di una minaccia invisibile, potremmo ritrovarci di fronte a un sistema di difesa sovra stimolato dalle notizie sull’emergenza in una dimensione di riferimento coattivamente ravvicinata, con una maggiore facilità di incomprensioni e/o difficoltà nella convivenza.
Come sottolineato dai diversi vademecum diffusi in questi giorni dalle Istituzioni ed Associazioni psicologiche italiane, anche in queste circostanze, la prevenzione e il benessere psicologico sono possibili e si costruiscono sulla base di comportamenti concreti, come ad esempio:
-darsi dei tempi stabiliti per la ricerca di informazioni, evitando di stimolare continuamente un’attenzione selettiva già iperattiva;
-direzionare la ricerca di informazioni a poche fonti affidabili, contrastando quella che potrebbe essere una tendenza protettiva naturale a massimizzare sia la quantità di informazioni raccolte che le fonti;
-in presenza di uno stato di maggiore allerta, con manifestazioni di irritabilità e una minore capacità di utilizzare il dialogo come meccanismo di gestione dei rapporti, cercare di essere consapevoli della minore predisposizione all’interazione con l’altro e tradurre il proprio linguaggio relazionale esplicitando i “non detti”, rallentando i ritmi della comunicazione con maggiori chiarimenti, andando a prevenire quella che potrebbe trasformarsi in una comunicazione di “contrapposizione”;
-cercare di mantenere dei riferimenti basici “sicuri” nella propria giornata, quali una routine di allenamento, l’orario dei pasti, alcuni piccoli rituali di benessere;
-laddove non si possano integrare le giornate con le previste forme di “smart – working”, mantenere comunque, al di là delle attività di svago, dei comportamenti produttivi finalizzati (ad esempio acquisire nuove abilità, imparare una nuova lingua, iniziare un piano di allenamento, fare dei corsi on-line);
-in caso di difficoltà ad adattarsi alla situazione, con risvolti significativi sul proprio funzionamento quotidiano e/o in caso di risvolti traumatici, non vergognarsi a chiedere aiuto a professionisti specializzati, anche attraverso le possibilità che gli attuali strumenti di comunicazione multimediale offrono.
Dobbiamo tutti essere consapevoli che la crescita “post-traumatica” è sempre, attraverso la sofferenza che ne caratterizza i percorsi, un obiettivo da raggiungere. Quella della nostra Comunità italiana (e di conseguenza del nostro Paese), passerà per la capacità di ogni cittadino di prendersi cura di sé stesso e delle proprie relazioni ma, soprattutto, per la capacità dell’intero sistema di far progressivamente “ripartire” chi in questa emergenza sarà stato più sfortunato di altri.
Dall’igiene alle visite mediche autodifesa oltre l’emergenza
News Presa, Prevenzione, Stili di vitaTutti gli italiani sono chiamati a fare forza comune, modificando il proprio stile di vita, per frenare la diffusione del Covid-19, un nuovo ceppo di coronavirus. Ci sono però abitudini importanti che andrebbero mantenute anche dopo l’emergenza. Lo spiega Cesare Gridelli, oncologo di fama internazionale in servizio al Moscati di Avellino. «Ancora oggi le persone faticano a cambiare il proprio stile di vita. Quello che mi sento di dire è che dobbiamo fare uno sforzo e capire che siamo in una situazione di grave emergenza. Nel momento in cui usciremo da questa crisi, perché prima o poi ne usciremo, saremo chiamati a sfruttare il ricordo delle difficoltà vissute in questo momento per imparare determinate abitudini e mantenerle anche una volta che ne saremo usciti», spiega. Il riferimento è chiaramente a quei buoni consigli che tutti conosciamo, ma che abbiamo sempre un po’ snobbato. «Uno dei gesti più semplici che protegge dal rischio di infezioni – ricorda Gridelli – è il lavaggio delle mani».
Cautele in più vanno prese se si pensa a persone immunodrepesse. «C’è la cattiva abitudine di accompagnare il paziente oncologico che è la persona più debole in quel momento in più persone. Mi capita, ad esempio, di vedere fino a sei persone a una visita o a una terapia. Questo crea, in un ambiente già difficile, delle problematiche di affollamento e quindi di maggiore rischio. Mi auguro che, dopo l’emergenza, le persone prendano coscienza dell’importanza di questi comportamenti per la salute dei pazienti. Auspico, quindi, che ci sia maggiore sensibilità anche dopo la crisi».
Secondo i dati forniti dallo European Centre for Disease prevention and Control (Ecdc), il fenomeno delle infezioni correlate all’assistenza avrebbe causato nel 2018 in Italia quasi 8 mila decessi, con una probabilità di contrarre infezioni durante un ricovero ospedaliero pari al 6 per cento. «Per quanto riguarda questo momento – conclude Gridelli – siamo tutti chiamati a essere responsabili, partendo dal semplice esempio della spesa. È importante che sia una persona sola per famiglia a recarsi al supermercato, per evitare al minimo i rischi e facendo delle scelte che permettano un approvvigionamento per tutta la settimana, senza dover andare continuamente al supermercato».
«Noi, medici dello Spallanzani dal 21 gennaio già in allerta»
News Presa, PrevenzioneUn gran lavoro per la tutela dei medici costretti a stare a stretto contatto con il virus lo hanno fatto, primi in Italia, allo Spallanzani di Roma. Francesco Lufrano, responsabile del servizio di prevenzione e protezione allo Spallanzani di Roma racconta di come ci si è mossi ai primi segnali, preoccupanti, in arrivo dalla Cina. «Già dal 21 gennaio abbiamo iniziato a innalzare il livello di attenzione e di sicurezza dell’Istituto. Siamo poi arrivati a proteggerci creando una tensostruttura di pre-triage, così da poter effettuare eventuali visite e tamponi orofaringei in maniera del tutto sicura». Anche Lufrano ribadisce l’importanza del rispetto della distanza «di un metro e mezzo circa», la necessità di «lavare le mani più volte al giorno», la precauzione di «coprire il volto quando si starnutisce utilizzando la piega del braccio, non la mano».
Rischioso, sul luogo di lavoro, può essere lo scambio di utensili. In un ufficio anche le penne e le tastiere dei pc possono nascondere insidie. Anche se a oggi sappiamo che il virus dovrebbe avere sopravvivenza bassa sugli oggetti, ma queste sono considerazioni che è bene lasciare a epidemiologi e infettivologi. «Quelli che adesso chiamate eroi – è lo sfogo di Lufrano – sono in realtà sempre gli stessi in trincea contro altre patologie. Noi siamo qui e non indietreggeremo, voi dateci una mano, restate a casa».
Fonte: Il Mattino – Speciale Salute & Prevenzione
Spedizione in Antartide «Così #CeLaFaremo»
News Presa, Prevenzione, Stili di vitaIl mio viaggio in Antartide non sarebbe potuto arrivare in un momento più emblematico. Mi sono trovata in questa terra straordinaria e libera da ogni contaminazione mentre sull’Europa e sul mondo ha iniziato a sporgersi l’ombra della pandemia. Forse anche per questo sento il mio percorso ancor più incisivo. Perché, anche se il virus ci segnerà, sarà nostro dovere trarne degli insegnamenti. Magari ripensando a un mondo più sostenibile. Nel corso di questa spedizione in collaborazione con il National Geographic, ho avuto la possibilità di parlare di clima, oceani, ghiacci e fauna con alcuni dei più grandi esperti. Ora rientro a casa con una visione più consapevole, una sorta di istantanea dello stato di salute della terra. Con la speranza che queste poche righe possano farvi viaggiare, evadere con la mente da una quarantena domestica tanto dura. Immaginare l’Antartide significa visualizzare un mondo senza confini né barriere. Essere tra i ghiacci ci riporta ad una dimensione primordiale. Si deve partire disposti ad accettare ciò che ti verrà offerto, senza pensare che ci sarà un’altra occasione.
Nella stessa giornata siamo passati da 11° sopra lo zero a meno 30 gradi. A volte splendeva il sole, altre la nebbia era talmente fitta da non vedere il proprio naso. Sono risalita di fianco a un ghiacciaio solo per ammirare un panorama della baia assolutamente incredibile. Potrei descrivere per ore il mio viaggio, ma l’unica parola che credo possa riassumere tutte le sensazioni che ho provato è «magia». Sì, l’Antartide è un luogo assolutamente magico. Marion Fourquez, che gira il mondo su navi oceanografiche per studiare la salute dei mari e dei suoi abitanti, mi ha fatto da guida. È stato lui a spiegarmi che il phito plancton è alla base della catena alimentare e che molta della salute degli oceani si misura dal suo stato di salute. Mi ha anche parlato della carenza di ferro che gli scienziati stanno riscontrando nei fondali, spiegandomi però che non è possibile somministrare una cura come invece si può fare in caso di anemia per gli esseri umani. Non si può perché gli oceani sono popolati da una moltitudine di creature diverse e ciò che farebbe bene ad alcune di esse nuocerebbe ad altre.
Tutti noi almeno una volta abbiamo visto ai TG immagini allarmanti di una Antartide rossa. I miei compagni di viaggio, gli scienziati che viaggiano con noi, mi hanno spiegato che è un fenomeno del tutto naturale. Il colore è legato ad un’alga endemica dei territori antartici che sta sotto i ghiacci. A causa delle temperature più alte registrate negli ultimi tempi, però, si è sciolto più ghiaccio di ciò che avviene normalmente. È per questo che l’immagine si rivelata in maniera più netta. Questo ci ricorda anche che i ghiacci si stanno sciogliendo più velocemente, l’analisi dei dati ottenuti dai satelliti tra il 1992 ed il 2017 ha evidenziato un netto assottigliamento nei ghiacci su entrambi i Poli della terra. L’assottigliamento si starebbe verificando a una velocità sei volte superiore a quella di trent’anni fa, questo fenomeno pur riconducibile ai cambiamenti climatici, ha spiegazioni differenti per i due Poli. In quello boreale accade per un riscaldamento della temperatura dell’aria, in quello australe per un riscaldamento delle acque. Vi offro una piccola anteprima in esclusiva. Robert Kunzig, senior editor di National Geographic per l’ambiente, mi ha spiegato che la rivista ad aprile presenterà una veste grafica molto accattivante e si potrà consultare in modo differente: scegliendo di avere una visione positiva o negativa di quello che sarà il pianeta tra trent’anni.
Il lettore potrà scegliere di leggere cosa accadrà sulla terra in base a quelle che saranno le scelte e i comportamenti assunti dalla politica e dei singoli abitanti per salvaguardare l’ambiente. Una sorta di «sliding doors». Dottor Kunzig la sua visione è positiva o negativa?, gli ho chiesto. E lui: «Difficile rispondere. A volte mi dico che stiamo distruggendo il pianeta con emissioni molto alte di anidride carbonica. Altre volte penso che non andrà così male. Guardando come le coscienze, soprattutto quelle giovanili, si stanno risvegliando (Greta Thunberg è solo la più nota), e guardando gli aspetti positivi che abbiamo messo nel numero in uscita della mia rivista, mi dico che siamo riusciti a preservare la terra fino a oggi. Risvegliando le coscienze e facendo più attenzione anche nelle scelte di ogni giorno sono fiducioso che sarà possibile continuare ad abitare sulla terra in modo sostenibile ancora per molto tempo». Forse, il messaggio più importante è questo. Siamo ancora in tempo per salvare il pianeta: farlo significherà anche per noi restare in salute.
Fonte: Il Mattino – Speciale Salute & Prevenzione
«Il governo pronto ad agire e vigilare sulla sicurezza»
News Presa«L’obiettivo del Governo è proteggere la salute dei lavoratori e al tempo stesso sostenere tutto il mondo del lavoro in questo drammatico momento».
Sottosegretario Stanislao Di Piazza, qual è la linea adottata per arginare le conseguenze economiche della pandemia?
«Un passo per nulla banale è il protocollo di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del coronavirus negli ambienti di lavoro. Intesa raggiunta con le parti sociali che consente alle imprese di tutti i settori, attraverso gli ammortizzatori sociali e la riduzione o sospensione dell’attività, la messa in sicurezza dei luoghi di lavoro».
Si punta sullo smart working, se possibile.
«Non solo, l’intesa prevede siano incentivate le ferie e i congedi retribuiti, sospese le attività di reparti aziendali non indispensabili alla produzione. Vanno assunti protocolli anti contagio. Dove non è possibile rispettare la distanza di sicurezza, devono essere fornite le protezioni individuali e deve esserci una sanificazione costante degli ambienti».
Mascherine e guanti sono però una nota dolente.
«La Protezione civile sta facendo un lavoro enorme per risolvere il problema e sta ottenendo risultati importanti. Si sta anche lavorando affinché non siano bloccati all’estero materiali destinati all’Italia. Sono arrivate 2 milioni di mascherine, altre arriveranno presto».
Possibile che in Italia non ci sia chi le produce?
«Con il nuovo decreto, all’articolo 5, il Governo prevede incentivi importanti per quelle aziende, anche piccole, che intendono farlo. Per fornire mascherine ai medici e a tutti i lavoratori che operano al di fuori del comparto sanitario».
Cosa farete per controllare che le prescrizioni a tutela dei lavoratori siano rispettate?
«Sono le prefetture che devono vigilare, noi certamente terremo alta l’attenzione».
Cosa dice a chi non rispetta le prestazioni?
«Che migliorare la qualità di vita dei lavoratori, dare loro sicurezza, significa riuscire ottenere risultati imprenditoriali migliori. Sono certo che le aziende si attrezzeranno, perché c’è tanta buona volontà da parte di tutti». Cosa ci insegnerà questa crisi? «Sicuramente che va ripensata la centralità del welfare. E anche in un Paese come il nostro, con uno dei sistemi sanitari migliori al mondo, si deve guardare sempre più alla sanità come a un investimento e non a un costo».
Fonte: Il Mattino – Speciale Salute & Prevenzione