Tempo di lettura: 2 minutiI fibromi uterini sono la neoplasia benigna più diffusa al mondo. L’incidenza è al 70% nelle donne tra i 30 e i 50 anni, ma secondo gli esperti è un numero sottostimato. In totale, a livello europeo sono circa 24 milioni le donne interessate da fibroma e di queste più di 3 milioni solo in Italia.
Pur essendo formazioni benigne, si tratta di una patologia ginecologica che spesso compromette la qualità della vita della paziente. Una volta diagnosticato un fibroma va monitorato seguendo le prescrizioni del proprio ginecologo e facendo attenzione a quei campanelli d’allarme che possono indicare la necessità di un intervento tempestivo. Ad approfondire l’argomento è la dottoressa Annamaria Baggiani, Responsabile del Servizio di Infertilità Femminile e Procreazione Medicalmente Assistita di Humanitas Fertility Center.
I sintomi dei fibromi uterini
Queste formazioni interessano il tessuto muscolare dell’utero in particolare nelle donne in età fertile. Presentano caratteristiche variabili, per dimensioni, forma, collocazione ed evoluzione. “Possono manifestarsi in maniera silente o asintomatica – sottolinea la specialista – motivo per cui possono venire individuati casualmente durante una visita ginecologica di controllo, ma anche essere associati a sintomatologia specifica.
I sintomi correlati ai fibromi uterini sono svariati e vanno da un sanguinamento abbondante durante le mestruazioni, a dolori mestruali e addominali accentuati, a dolore durante i rapporti sessuali, a minzioni più frequenti o a una sensazione di “peso” addominale causate da una compressione della vescica. Anche l’anemia può essere una condizione associata al fibroma uterino”. Per quanto riguarda la cura “il ginecologo,– continua la specialista – in base alla sintomatologia riportata dalla paziente e ad altri elementi tra cui l’età e la storia clinica e riproduttiva, saprà indicare il percorso di cura più adatto, che può essere sia farmacologico, sia chirurgico, sia di attesa”.
I rischi di una diagnosi tardiva
“Fibromi diagnosticati in ritardo – continua l’esperta – se associati a sintomatologia importante, o la presenza di fibromi multipli e voluminosi, può comportare un intervento d’urgenza e l’impossibilità di salvaguardare l’utero della paziente. Quando si presenta una situazione clinica del genere, in particolar modo se la paziente è in età riproduttiva, la prima opzione è quella di considerare un trattamento medico o chirurgico conservativo, cercando dunque di evitare l’asportazione dell’utero. Ad oggi sono infatti disponibili trattamenti farmacologici grazie ai quali si possono evitare i trattamenti demolitivi, preferibili in donne che hanno superato la menopausa”.
Per quanto riguarda la gravidanza: “i fibromi possono presentarsi in maniera asintomatica anche in questo caso – sottolinea – e alcune tipologie di fibromi possono comprometterla o condizionarla significativamente. I fibromi sottomucosi, infatti, possono ostacolare impianto e sviluppo dell’embrione, arrivando anche al rischio di aborto. I fibromi intramurali possono invece indurre un parto prematuro, per un possibile aumento dell’attività contrattile uterina. Inoltre, in gravidanza alcuni fibromi aumentano di volume, soprattutto nel primo periodo della gestazione, e talvolta provocano dolori e, se molto voluminosi, malposizionamenti fetali”.
Regole e segreti per iniziare l’anno in salute
Alimentazione, Stili di vitaPrevenzione e stili di vita sani. Parte da qui il 2022 per gli esperti della Società italiana di Medicina Interna (Simi) che hanno stilato un vero e proprio decalogo per la salute, con consigli utili ad iniziare il nuovo anno nel modo giusto. Il primo punto riguarda la tavola, e non potrebbe essere altrimenti, visto che la maggior parte della patologie dipende in misura maggiore o minore da una scorretta alimentazione. E allora occhio alle porzioni: si può mangiare di tutto ma con moderazione. Per non perdere di vista l’obiettivo gli esperti consigliano di “prendere le misure” pesandosi almeno una volta a settimana e misurando la circonferenza vita con un metro da sarto, la glicemia a digiuno e controllare la pressione con regolarità. Se è alta (superiore a 140/90 mmHg), meno calorie e poco sale a tavola, più attività fisica e un controllo dal medico, per iniziare una terapia se necessario. Altro tassello fondamentale è svolgere un’attività fisica moderata per almeno due ore e mezza a settimana. Basta fare delle passeggiate a passo spedito o magari un po’ di corsa, bicicletta o nuoto. Inoltre, attenzione a non essere vittime delle fake news. Si possono avere dei dubbi sui vaccini, compreso quello contro il Covid, ma meglio non cercare risposte su Internet, ma parlane col medico.
ALIMENTI SALUTARI
«Vogliamo dare un contributo alla salute per tutte le età», spiega il presidente della Simi, il professor Giorgio Sesti». A leggere il decalogo si scopre che è importante a tavola limitare il consumo di grassi saturi (contenuti nella carne rossa, nelle carni lavorate e nei formaggi), aumentare quello di pesce e fibre vegetali (verdure, legumi, la frutta e cereali integrali) e inserire nella dieta piccole quantità di olio d’oliva, noci e semi. Limitare sale e alimenti salati (insaccati, formaggi, scatolame). Ridurre il consumo di zucchero (anche nelle bevande) e di alcol e bere più acqua. E poi, parlare con il medico per scoprire cosa è possibile fare per smettere di fumare, ricordare se si è in trattamento cronico con dei farmaci (per diabete, ipertensione, colesterolo alto, malattie cardiovascolari o altre malattie croniche), di prenderli come prescritto, senza sospenderli mai. Infine, prendere antibiotici e antidolorifici, solo se li prescrive il medico. Prendere antibiotici non farà sentire meglio se si ha un’infezione virale (raffreddore o influenza), in compenso si darà un contributo all’antibiotico-resistenza. L’uso improprio di Fans può aumentare il rischio di infarto, ictus, scompenso cardiaco, emorragie gastriche e patologie renali.
Sclerosi Multipla: è il virus della “malattia del bacio” a scatenarla
Ricerca innovazioneLa causa della sclerosi multipla è con elevata probabilità il virus di Epstein-Barr, il patogeno responsabile della cosiddetta “malattia del bacio”, la mononucleosi infettiva. Si tratta di un virus erpetico molto diffuso a livello mondiale. Uno studio coordinato dal Prof Alberto Ascherio del Dipartimento di Epidemiologia della Scuola di sanità pubblica e del Dipartimento di medicina della Scuola medica di Harvard a Boston, fornisce ora evidenze scientifiche solide e inconfutabili del ruolo chiave svolto da questo virus nello sviluppo della malattia. La sclerosi multipla è una malattia cronica infiammatoria e neurodegenerativa del sistema nervoso centrale che colpisce soprattutto i giovani e le donne provocando spesso disabilità progressiva. I risultati dello studio sono stati pubblicati il 13 gennaio su Science.
Sclerosi Multipla e virus di Epstein-Barr. Lo studio
Per capire se questo virus causa la sclerosi multipla lo studio ha coinvolto più di 10 milioni di giovani adulti che hanno svolto servizio militare attivo negli Stati Uniti di America, tra i quali circa 1000 hanno ricevuto una diagnosi di sclerosi multipla durante il periodo di arruolamento. Attraverso la rilevazione di anticorpi specifici nel sangue, lo studio dimostra che il rischio di sviluppare la malattia aumenta di circa 30 volte dopo infezione con il virus di Epstein-Barr, ma non con altri virus. Inoltre, lo studio dimostra che nel sangue dei militari con diagnosi di sclerosi multipla la presenza di una molecola rilasciata a seguito di danno cerebrale (un biomarcatore denominato catena leggera dei neurofilamenti) si evidenzia solo dopo la comparsa degli anticorpi diretti contro il virus di Epstein-Barr, ovvero dopo l’infezione. Questi risultati dimostrano che il virus di Epstein-Barr è coinvolto nelle fasi iniziali della sclerosi multipla rappresentando la principale causa della malattia. Si tratta di una scoperta rivoluzionaria che apre nuove prospettive di cura e prevenzione.
Il fatto che il virus di Epstein-Barr infetta circa il 90% della popolazione e che la sclerosi multipla colpisce circa una persona su mille indica che il virus è necessario ma non sufficiente per provocare la malattia e che altri fattori di rischio, tra i quali la predisposizione genetica, entrano in gioco e devono essere studiati per comprendere le eventuali sinergie con l’infezione. Anche i meccanismi attraverso i quali il virus di Epstein-Barr provoca infiammazione e neurodegenerazione nel sistema nervoso centrale vanno ulteriormente indagati. Su questo fronte, le ricerche svolte nel Dipartimento di Neuroscienze dell’Istituto Superiore di Sanità negli ultimi 15 anni hanno fornito un importante contributo indicando come una infezione persistente con il virus di Epstein-Barr nel sistema nervoso centrale delle persone con sclerosi multipla possa rappresentare il principale stimolo attivatore della risposta immunitaria anomala ed estremamente dannosa per le cellule neurali che caratterizza la malattia. Ribadendo il ruolo causale del virus di Epstein-Barr nella sclerosi multipla lo studio coordinato dal Prof. Ascherio apre la strada allo sviluppo di nuove opzioni terapeutiche per questa malattia, quali farmaci antivirali per contrastare l’infezione, e di interventi di prevenzione, come un vaccino contro EBV che potrebbe ridurre sostanzialmente il rischio di sviluppare la sclerosi multipla.
Quarta dose, gli esperti si dicono scettici
News PresaUn po’ in tutto il mondo, e l’Italia non fa certo eccezione, ci si chiede se servirà una quarta dose per tenere a bada il Covid. Una domanda più che legittima, che fa nascere dubbi e resistenze anche tra i più fiduciosi. A rispondere, o quantomeno a dare una propria linea di pensiero, ci ha pensato il professor Guido Rasi (ex Ema e oggi consigliere del commissario Figliuolo) che in un’intervista a Repubblica ha bocciato, o quasi, l’idea di una quarta dose per affrontare Omicron. La quarta dose, secondo l’esperto, potrebbe non servire ed è anche scettico sulla possibilità di un richiamo permanente dei vaccini: «Non ha senso mantenere il sistema immunitario continuamente attivato. Abbiamo una memoria che ci aiuta anche quando gli anticorpi calano. Forse non sarà in grado di evitare l’infezione, ma la malattia grave sì. E per il futuro sarebbe meglio elaborare una nuova risposta, più strutturata, piuttosto che continuare a organizzare vaccinazioni di massa in regime di emergenza». Per Rasi la quarta dose attualmente «ci pone più domande che risposte. Al momento la consiglierei alle persone immunocompromesse, ai pazienti oncologici, a chi ha una riduzione rapida degli anticorpi perché è in dialisi». Mentre non conosciamo la durata della protezione della terza dose: «Ma ora ci sta chiaramente proteggendo dai sintomi gravi. E non torniamo mai al punto di partenza. Gli anticorpi calano come è naturale che sia. Ma la memoria immunitaria, la risposta cellulare, restano attive ancora oggi. È per questo che ci possiamo contagiare, ma ci ammaliamo meno». Anche se la quarta dose sarà sicura, per Rasi «non è scontato che una stimolazione continua e ripetuta dopo un po’ non crei problemi al sistema immunitario. In ogni caso non possiamo andare avanti con campagne vaccinali di massa ogni pochi mesi. Non è sostenibile. Bisognerebbe pensare a una risposta più strutturata». Ovvero: «creando vaccini spray che producano un’immunità nelle mucose dell’apparato respiratorio, per esempio. O che siano facili da prendere, ad esempio per via orale come avviene con la polio. Oppure vaccini che riconoscano altre proteine del virus, più stabili della spike che muta rapidamente».
OMICRON 2
Intanto, in Nord Europa è stata ormai individuata una nuova variante, chiamata Omicron 2. Per Massimo Ciccozzi, direttore dell’Unità di Statistica medica ed epidemiologia molecolare del Campus Bio-medico di Roma, si potrebbe trattare di una sottovariante di Omicron che ha però, probabilmente, le sue stesse caratteristiche, e quindi non deve allarmare perché il vaccino la copre. «La vaccinazione rende inoltre la stessa Omicron sintomatologicamente più leggera, ma va ribadito che per i non vaccinati può comunque portare alla necessità del ricovero in terapia intensiva», ha avvertito. In generale, sottolinea «non credo che vedremo una variante più contagiosa di Omicron, ma è importante che la vaccinazione sia globale e omogenea in tutti Paesi per impedire l’insorgenza di ulteriori varianti». Anche Ciccozzi sposa l’idea che evitare un’eccessiva stimolazione del sistema immunitario sia meglio. «Scientificamente – dice – non è consigliabile una somministrazione del vaccino ogni pochi mesi perché si stresserebbe troppo il sistema immunitario ottenendo infine l’effetto contrario, nel senso che il sistema immunitario finirebbe per non innescare più una risposta di protezione».
Covid, scoperto un gene che protegge dalle forme gravi
Ricerca innovazioneNella lotta al Covid la genetica ha giovato, e sta giocando, un ruolo decisivo. Dai vaccini ai tamponi, passando per il sequenziamento delle varianti, ogni nostra arma passa per questa branca della medicina, che oggi ci regala una scoperta in più: esiste un gene che ci può difendere dal rischio di contrarre il Covid in forma grave. Il gene in questione ha una sigla, si chiama rs10774671-G, e la cosa straordinaria è che contiene le istruzioni per produrre una proteina (chiamata OAS1) che è già nota per la sua capacità nello sconfiggere il virus SARS-CoV-2. A rendere possibile questa importante scoperta è stato un lavoro pubblicato sulla rivista Nature Genetics e condotto da ricercatori del Karolinska Institutet di Stoccolma in collaborazione con colleghi canadesi e statunitensi. Il punto di partenza è stato quello delle cosiddette sequenze genetiche protettive nei confronti dell’infezione da Sars-CoV-2 e ha permesso, non senza difficoltà, di arrivare ad isolare un gene singolo alla base dell’effetto protettivo.
LA SEQUENZA
Lo studio ha coinvolto 2.787 pazienti affetti da Covid-19 di discendenza africana ricoverati in ospedale e 130.997 persone sane come gruppo di controllo. I risultati sono stati confrontati con quelli di un precedente ampio studio su individui di discendenza europea. Finora era nota una ampia sequenza genetica protettiva nei confronti del Covid in forma grave, ma non era chiaro quali fossero i geni contenuti in detta sequenza e specificatamente implicati in questo effetto protettivo. Gli esperti hanno confrontato il Dna di individui di diversa discendenza proprio per risalire alle origini di questa protezione. Hanno visto che l’80% degli individui di discendenza africana ha la variante protettiva rs10774671-G nel proprio Dna. Come detto, li scienziati hanno potuto constatare che il gene protettivo contiene le istruzioni per produrre la proteina OAS1, che ha la caratteristica di essere più lunga della sua versione normale. Questa proteina allungata è appunto il segreto dello scudo protettivo contro le forme gravi di Covid. Grazie a questa scoperta si punta con maggior fiducia allo sviluppo e alla produzione di nuovi farmaci anti Covid19. Farmaci che potranno essere di grande aiuto per evitare che la malattia possa portare a forme gravi, anche in soggetti non vaccinati.
Il cervello è influenzato dal microbiota intestinale. Nuovo studio
News PresaIl microbiota intestinale, meglio conosciuto come microflora intestinale, ha un ruolo cruciale nello sviluppo e buon mantenimento del sistema immunitario. Inoltre interviene nella regolazione del peso corporeo. Secondo gli ultimi studi il microbiota sarebbe anche coinvolto nella via di comunicazione tra centro e periferia chiamata asse intestino-cervello, modulando le funzioni cerebrali e infine il nostro comportamento. Per esaminare in modo dettagliato la connessione tra microbiota e cervello, Paola Tognini, ricercatrice del Dipartimento di ricerca traslazionale (Unità di fisiologia) dell’Università di Pisa, e Tommaso Pizzorusso della Scuola Normale Superiore di Pisa e associato di ricerca all’Istituto di neuroscienze, hanno studiato come segnali provenienti dai batteri intestinali possano influenzare la plasticità neuronale.
L’asse intestino cervello. Nuovo studio
Lo studio, dal titolo The gut microbiota of environmentally enriched mice regulates visual cortical plasticity, è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale Cell Reports ed è frutto di una collaborazione tra Università di Pisa, Scuola Normale Superiore, Istituto di Neuroscienze del CNR, Fondazione Stella Maris e Università di Milano.
“La plasticità cerebrale o neuronale è la capacità del nostro cervello di cambiare in risposta a stimoli provenienti dall’ambiente esterno e/o in risposta alle nostre esperienze. Il cervello è più plastico, e quindi prone a modificarsi durante l’età giovanile, mentre i suoi circuiti sono più stabili e quindi resistenti al modificarsi durante l’età adulta. Nel nostro studio abbiamo cercato di capire se segnali provenienti dal microbiota intestinale potessero riattivare la plasticità nel cervello adulto – spiegano Paola Tognini e Tommaso Pizzorusso – Per raggiungere questo obiettivo, abbiamo sfruttato il sistema visivo come modello, proprio perché gli animali adulti normalmente non mostrano plasticità in questa area del cervello”.
“Il nostro studio introduce un concetto nuovissimo, ossia quello dell’esistenza di una connessione “esperienza-microbiota intestinale-cervello”: le nostre esperienze non solo influenzano il cervello direttamente ma anche tramite segnali provenienti dal nostro intestino”. Allo studio hanno dato un fondamentale contributo anche i giovani dottorandi della Scuola Normale Superiore Leonardo Lupori e Sara Cornuti. La ricerca potrebbe aprire nuove frontiere per promuovere la plasticità neuronale in malattie del neurosviluppo o neurodegenerative, con terapie per modulare l’asse intestino-cervello.
Smettere di fumare allunga la vita, anche dopo una diagnosi
Stili di vitaNon è mai troppo tardi per smettere di fumare, neanche se purtroppo si è già ricevuta una diagnosi di tumore al polmone. Anzi, proprio guardando ai pazienti che lottano contro questo male, è ora dimostrato che smettere di fumare allunga la vita. Un recentissimo studio pubblicato sul Journal of Thoracic Oncology mette in luce come i pazienti con cancro ai polmoni che smettono di fumare dopo la diagnosi abbiano un miglioramento del 29% nella sopravvivenza globale rispetto ai pazienti che continuano a fumare. Lo studio è stato ideato e condotto da un team interamente italiano di ricercatori dell’Istituto per la Ricerca sul Cancro, la Prevenzione e la Rete Clinica di Firenze e dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) di Milano. Si tratta di una metanalisi, quindi di uno studio che consente di combinare i dati di più studi condotti su di uno stesso argomento dando vita a nuove evidenze, e il dato che emerge è sorprendente. Globalmente sono stati analizzati 21 articoli che forniscono dati su più di 10.000 pazienti.I ricercatori rilevano che esiste una spiegazione biologica per questi dati: il fumo di tabacco promuove la crescita, la progressione e la disseminazione del tumore; diminuisce l’efficacia e la tolleranza alla radioterapia e alla terapia sistemica, e aumenta il rischio di complicanze postoperatorie e secondi tumori primari.
FARE LA COSA GIUSTA
«Il nostro studio suggerisce che i medici curanti dovrebbero comunicare ai pazienti i vantaggi di smettere di fumare», commenta Saverio Caini dell’Istituto per la Ricerca sul cancro di Firenze, primo autore dello studio. «Sappiamo che 9 tumori del polmone su 10 sono causati dal fumo di sigaretta», afferma Sara Gandini, responsabile dell’Unità di Epidemiologia molecolare e farmacologica dell’Ieo, coautrice del lavoro «e sappiamo che se intercettati per tempo possono essere curati con trattamenti poco invasivi, ma ciò che occorre ora è un programma di sanità pubblica, associato a iniziative strutturate per la cessazione del fumo». Si tratta insomma di fare la cosa giusta per la propria salute.
Covid-19: il 3 gennaio l’81% dei campioni positivi a Omicron
News PresaLa velocità di diffusione della nuova variante Omicron è ormai chiara. Lo confermano anche gli ultimi dati prodotti dall’Istituto Superiore di Sanità. In Italia il 03 gennaio scorso la variante Omicron era predominante, con una prevalenza stimata all’81%, con una variabilità regionale tra il 33% e il 100%, mentre la Delta era al 19% del campione esaminato. Si tratta dei risultati definitivi dell’indagine rapida condotta dall’Iss e dal Ministero della Salute insieme ai laboratori regionali e alla Fondazione Bruno Kessler.
Flash survey Iss, Omicron prevale in tutta Europa
Per l’indagine è stato chiesto ai laboratori delle Regioni e Province Autonome di selezionare dei sottocampioni di casi positivi e di sequenziare il genoma del virus. Il campione richiesto è stato scelto dalle Regioni/PPAA in maniera casuale fra i campioni positivi garantendo una certa rappresentatività geografica e, se possibile, per fasce di età diverse. In totale, hanno partecipato all’indagine tutte le Regioni/PPAA e complessivamente 120 laboratori regionali e il Laboratorio di Sanità Militare e sono stati sequenziati 2632 campioni. Nell’indagine precedente, e relativa ai casi del 20 di dicembre 2021, la prevalenza era stata stimata pari al 21%. Questa velocità di diffusione risulta in linea con gli altri Paesi europei.
Antibiotico finito, effetto della variante Omicron
FarmaceuticaOrmai da giorni l’antibiotico più utilizzato per trattare i pazienti affetti da Covid (lo Zitromax e il suo equivalente generico) sembra essere sparito dalle farmacie di tutta Italia. Anche se la variante Omicron sembra essere poco più che un influenza (per chi ha fatto il vaccino) gli esperti continuano a ribadire che è presto per cantare vittoria ed evidentemente, un po’ per necessità, un po’ per precauzione, in molti hanno pensato di fare scorte di questo antibiotico. A mancare sarebbe la molecola necessaria per la produzione del farmaco che viene prescritto in associazione con antinfiammatori. La difficoltà nel reperimento del medicinale è dovuta all’enorme utilizzo negli ultimi 2 mesi legato all’aumento dei contagi e probabilmente all’accaparramento anche da parte di chi non ha contratto la malattia ma ha timore del contagio.
VACCINO
L’antibiotico Zitromax ed il generico sono usati nella terapia contro il Covid in seguito a diversi studi scientifici che ne hanno dimostrato la efficacia sia per contrastare eventuale complicanze nei malati dovute a batteri, sia con valenza di immunomodulante contro il virus Sars-Cov2. Secondo quanto si apprende, della carenza del medicinale sarà interessata l’Aifa, l’agenzia italiana del farmaco. Intanto, nei giorni scorsi l’Ad di Pfizer, Albert Bourla, ha annunciato che il vaccino contro Omicron sarà pronto a marzo e che l’azienda ha già iniziato a produrre le dosi. Bourla ha chiarito in un’intervista alla Cnbc che il vaccino sarà efficace anche contro le altre varianti del Covid che stanno circolando. Ema ha iniziato a valutare una domanda di autorizzazione all’immissione in commercio per il medicinale antivirale per via orale orale Paxlovid. La domanda è di Pfizer Europe. Lo rende noto l’Agenzia Ue. Il risultato è atteso nelle prossime settimane.
Omicron: pericolosità molto ridotta, il 91% in meno rispetto a Delta
PrevenzioneOmicron comporta un rischio molto minore di ricovero, terapia intensiva e di morte rispetto alla variante Delta. A confermarlo è un’altro studio realizzato dai ricercatori dell’University of California di Berkeley e pubblicato in pre-print su medRxiv. Molti studi effettuati fino a oggi si erano concentrati sulla rapidità di contagio della nuova variante, confrontando l’andamento dell’infezione con quello delle precedenti. Questa nuova ricerca ha invece messo a confronto due gruppi di pazienti americani che avevano sviluppato l’infezione a dicembre, il primo con la nuova variante e il secondo con Delta. Le varianti sono state individuate con una tecnica definita dropout del gene S.
I risultati dello studio su Omicron
Sono stati analizzati i dati di 52.297 persone infettate con la variante Omicron e 16.982 con Delta. Hanno avuto necessità di ricovero 235 pazienti con l’attuale variante (0,5%) e 222 (1,3%) con variante Delta. Hanno avuto bisogno della terapia intensiva 7 pazienti che avevano contratto la nuova variante contro i 23 infettati da Delta; nessuno con Omicron ha avuto bisogno della ventilazione meccanica contro 11 ammalatisi con Delta; è stato registrato 1 morto nei pazienti Omicron e 14 in quelli Delta. Infine, la durata del ricovero è risultata 3,4 giorni più breve con la nuova variante rispetto alla precedente.
Alla luce di questi risultati, i ricercatori hanno concluso che “le infezioni con variante Omicron sono state associate a riduzioni del 52%, 53%, 74% e 91% del rischio di qualsiasi successivo ricovero, ricovero con malattia sintomatica, ricovero in terapia intensiva e morte, rispetto alle infezioni della variante Delta”. Inoltre, “le riduzioni della gravità della malattia associate alle infezioni da variante Omicron erano evidenti sia tra i pazienti vaccinati che in quelli non vaccinati e tra quelli con o senza una precedente infezione da SARS-CoV-2 documentata”.
Fibromi uterini: spesso silenti, ma interessano oltre 70% delle donne
PrevenzioneI fibromi uterini sono la neoplasia benigna più diffusa al mondo. L’incidenza è al 70% nelle donne tra i 30 e i 50 anni, ma secondo gli esperti è un numero sottostimato. In totale, a livello europeo sono circa 24 milioni le donne interessate da fibroma e di queste più di 3 milioni solo in Italia.
Pur essendo formazioni benigne, si tratta di una patologia ginecologica che spesso compromette la qualità della vita della paziente. Una volta diagnosticato un fibroma va monitorato seguendo le prescrizioni del proprio ginecologo e facendo attenzione a quei campanelli d’allarme che possono indicare la necessità di un intervento tempestivo. Ad approfondire l’argomento è la dottoressa Annamaria Baggiani, Responsabile del Servizio di Infertilità Femminile e Procreazione Medicalmente Assistita di Humanitas Fertility Center.
I sintomi dei fibromi uterini
Queste formazioni interessano il tessuto muscolare dell’utero in particolare nelle donne in età fertile. Presentano caratteristiche variabili, per dimensioni, forma, collocazione ed evoluzione. “Possono manifestarsi in maniera silente o asintomatica – sottolinea la specialista – motivo per cui possono venire individuati casualmente durante una visita ginecologica di controllo, ma anche essere associati a sintomatologia specifica.
I sintomi correlati ai fibromi uterini sono svariati e vanno da un sanguinamento abbondante durante le mestruazioni, a dolori mestruali e addominali accentuati, a dolore durante i rapporti sessuali, a minzioni più frequenti o a una sensazione di “peso” addominale causate da una compressione della vescica. Anche l’anemia può essere una condizione associata al fibroma uterino”. Per quanto riguarda la cura “il ginecologo,– continua la specialista – in base alla sintomatologia riportata dalla paziente e ad altri elementi tra cui l’età e la storia clinica e riproduttiva, saprà indicare il percorso di cura più adatto, che può essere sia farmacologico, sia chirurgico, sia di attesa”.
I rischi di una diagnosi tardiva
“Fibromi diagnosticati in ritardo – continua l’esperta – se associati a sintomatologia importante, o la presenza di fibromi multipli e voluminosi, può comportare un intervento d’urgenza e l’impossibilità di salvaguardare l’utero della paziente. Quando si presenta una situazione clinica del genere, in particolar modo se la paziente è in età riproduttiva, la prima opzione è quella di considerare un trattamento medico o chirurgico conservativo, cercando dunque di evitare l’asportazione dell’utero. Ad oggi sono infatti disponibili trattamenti farmacologici grazie ai quali si possono evitare i trattamenti demolitivi, preferibili in donne che hanno superato la menopausa”.
Per quanto riguarda la gravidanza: “i fibromi possono presentarsi in maniera asintomatica anche in questo caso – sottolinea – e alcune tipologie di fibromi possono comprometterla o condizionarla significativamente. I fibromi sottomucosi, infatti, possono ostacolare impianto e sviluppo dell’embrione, arrivando anche al rischio di aborto. I fibromi intramurali possono invece indurre un parto prematuro, per un possibile aumento dell’attività contrattile uterina. Inoltre, in gravidanza alcuni fibromi aumentano di volume, soprattutto nel primo periodo della gestazione, e talvolta provocano dolori e, se molto voluminosi, malposizionamenti fetali”.