Tempo di lettura: 2 minutiLa saliva potrebbe spiegare perché in alcune persone il Covid ha colpito con drammatica violenza e in altre si è limitato a causa un po’ di febbre. A parità di variante, infatti, alcune persone affette da Sars-CoV-2 devono essere curate in ospedale mentre altre possono essere curate a casa. Oggi una scoperta fatta dai ricercatori di Humanitas, pubblicata su Gastro Hep Advances, potrebbe spiegare questa differenza, perché descrive una nuova metodica di diagnosi che si basa sull’analisi della saliva e del sangue. Per comprendere l’importanza di questa scoperta è bene tornare con il pensiero alla prime ondate della pandemia, con migliaia di pazienti in pronto soccorso e i medici costretti a brancolare nel buio. Le conoscenze sul decorso della malattia erano ancora poche, e non era possibile capire in tempo quanto sarebbe l’infezione sarebbe stata grave. Proprio per cercare di dare una risposta a questo interrogativo, il team di Humanitas ha messo a frutto le competenze sul microbiota e sulle mucose per individuare nuovi marcatori di gravità che funzionassero precocemente.
MICROBIOTA
Coordinatrice dello studio è Maria Rescigno, capo del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota di Humanitas e docente di Patologia Generale di Humanitas University, che con il suo team di ricercatori ha affiancato Antonio Voza, responsabile del Pronto Soccorso di Humanitas, e Elena Azzolini, responsabile del Centro Vaccinale di Humanitas. Maria Rescigno e Chiara Pozzi, (immunologa ricercatrice di Humanitas), si sono concentrate proprio sul microbiota della saliva e sull’insieme dei metaboliti, cioè dei prodotti che derivano da un processo chimico legato alla digestione o ingestione di alimenti.«Attraverso uno studio retrospettivo, abbiamo analizzato la saliva e il sangue di pazienti ospedalizzati e di quelli trattati a domicilio per cercare cosa contraddistinguesse i due gruppi, paragonando i dati con quelli raccolti da soggetti sani e guariti», spiega Rescigno. «È stato fondamentale un approccio di machine learning – spiega – i nostri data scientist, guidati da Riccardo Levi, ci hanno aiutato a eliminare i parametri confondenti e il fattore età, arrivando a isolare due metaboliti, Mioinositolo e acido acetico 2 pirrolidinico. Questi, insieme a una proteina presente nel sangue (Chitinasi 3-L1), hanno dimostrato di essere correlati alla gravità del Covid, quindi alla necessità o meno di ospedalizzazione».
IDENTIKIT
La combinazione di questi 3 parametri di saliva e sangue descriverebbe l’identikit del malato grave e quindi sarebbe in grado di distinguere i pazienti Covid sulla base dell’aspettativa del loro decorso clinico. Successivamente si è visto che questi due metaboliti correlano con alcuni gruppi di batteri del microbiota salivare. Chi ha metaboliti alterati ha anche batteri alterati. Il risultato non sorprende gli esperti: il microbiota ha un ruolo importante nell’infezione perché prepara il sistema immunitario e può avere attività anti-microbiche. E la saliva, dove si trova parte del microbiota, è uno dei punti in cui il virus penetra. È importante inoltre sottolineare che la proteina individuata nel sangue è coinvolta nella regolazione del recettore ACE2, il recettore del virus Sars-CoV-2. Questo significa che se la proteina è già alta in partenza, la persona ha più recettori e quindi potrebbe fare entrare più virus. Il prossimo passaggio potrebbe dunque essere la messa a punto di un test diagnostico, che al momento non è disponibile nei laboratori di analisi. La metodologia basata sull’analisi dei metaboliti – la metabolomica – è una novità che si sta imponendo nel panorama diagnostico. Una rivoluzione velocizzata da Covid-19 perché durante la pandemia eè stato possibile analizzare i dati di tanti pazienti in tempi molto rapidi. «I risultati di questo studio ci danno speranza», dice Rescigno. «In futuro, sarà possibile progettare queste analisi basate su test salivare ed esame del sangue anche per altre patologie pericolose e di difficile predizione, come la sepsi».
Alcol e tumori: “non esiste rischio zero con qualsiasi consumo”
Stili di vitaIeri il Parlamento europeo in seduta plenaria ha votato il Report finale della Commissione sul Piano europeo di lotta al cancro. La discussione si è accesa soprattutto intorno al tema della corretta informazione sull’alcol. Il testo si intitola Strengthening Europe in the fight against cancer, rafforzare l’Europa nella lotta contro il cancro. Non si tratta di un documento vincolante in termini normativi, ma contiene le raccomandazioni che andranno a indirizzare le politiche di sanità pubblica dei paesi europei nei prossimi anni. La dicitura inserita: un consumo “dannoso” aumenta il rischio oncologico, secondo la comunità scientifica è fuorviante. Non esiste, infatti un consumo senza rischi. Qualsiasi quantità di etanolo consumata corrisponde a un proporzionale aumento di rischio oncologico protratto nel tempo. L’etanolo contenuto negli alcolici è un agente cancerogeno accertato: si stima che ogni anno in Italia ci siano quasi 13.000 vittime evitabili per tumori dovuti a un elevato consumo di alcolici (Rapporto AIRTUM-AIOM 2021). Le evidenze scientifiche mostrano come non esista una distinzione tra bevande alcoliche “più salutari” rispetto ad altre erroneamente ritenute “più dannose”.
Alcol e tumori: la posizione della Fondazione Umberto Veronesi
Fondazione Umberto Veronesi, da sempre impegnata nella prevenzione oncologica, ha deciso di intervenire nel dibattito per sottolineare che non esiste un consumo di alcol privo di rischi per la salute. Non è scientificamente corretto – secondo gli esperti – il concetto di consumo “pericoloso” di alcol a confronto con il consumo “moderato e responsabile”, in quanto non esiste una soglia di consumo a zero rischi e perché il rischio oncologico è legato soprattutto al consumo anche moderato nel tempo, più che a sporadici eccessi. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e l’Agenzia Internazionale di Ricerca sul Cancro (IARC), hanno ribadito ormai da tempo la stretta correlazione tra il consumo di alcolici e lo sviluppo di oltre 200 malattie oncologiche, cardiovascolari o di altra natura.
Birra, vino e superalcolici sono uguali, è la quantità di etanolo a fare la differenza
I dati mostrano come il consumo di bevande alcoliche sia causa di diversi tumori da quello del fegato, il più noto, a quelli di bocca, laringe, faringe, esofago, colon-retto e seno per le donne in post-menopausa. Inoltre vi è anche la possibile associazione tra alcol e tumore dello stomaco o del seno prima della menopausa. Più in dettaglio, l’OMS ricorda che l’abuso di alcol causa il 26 per cento dei tumori del cavo orale, l’11 per cento di quelli colorettali e il 7 per cento di quelli del seno. Gli esperti sottolineano inoltre che non ci sono differenze di rischio legate al tipo di bevanda alcolica, poiché ciò che danneggia le cellule è l’etanolo in esse contenuto. Birra, vino e superalcolici sono equivalenti se la quantità di alcol (etanolo) che da esse deriva è la stessa.
L’Italia è terza in Europa per il consumo quotidiano di alcol, un’usanza più diffusa nei Paesi mediterranei rispetto al resto del Continente. Il vino ha legami profondi con la cultura e con l’economia italiana. Il consumo di alcolici si lega ai momenti di socialità e convivialità. Per questo, gli esperti sottolineano l’importanza di bere con consapevolezza, attenendosi alle soglie di basso rischio stabilite dall’OMS (non più di 12 grammi di etanolo al giorno per tutti gli over 65 e per le donne, e 24 gr per gli uomini). Evitando del tutto gli alcolici per i minori di 18 anni, le donne in gravidanza e allattamento, le persone che assumono determinate tipologie di farmaci (in particolare tutti i farmaci che agiscono sul sistema nervoso centrale, gli antibiotici, gli antistaminici, gli antinfiammatori ecc.).
Pancreas, operare il tumore con il robot
News PresaDue interventi straordinari hanno inaugurato al Cardarelli di Napoli in questi giorni l’avvio di una tecnica chirurgica che viene eseguita solo in selezionatissimi Centri di riferimento nazionali per la chirurgia del pancreas. La notizia è di quelle buone per centinaia di pazienti che altrimenti avrebbero dovuto sottoporsi a costosi ed estenuanti viaggi della speranza verso le regioni del Nord, e che invece adesso possono affidarsi alla struttura di Napoli. Gli interventi sono stati realizzati da Carlo Molino (direttore della I Chirurgia Generale ad indirizzo Oncologico e direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia del Pancreas del Cardarelli di Napoli) grazie all’impiego della chirurgia robotica. L’intervento, che consiste nell’asportazione in un unico blocco della testa del pancreas, del duodeno, della via biliare e della colecisti, ha un nome complesso; così come complessa è la tecnica che per questo viene eseguita solo in Centri di Riferimento come quello diretto dal professor Molino, eccellenza per il Cardarelli e per la sanità regionale e nazionale. Il nome di questa tecnica chirurgica è “duodenocefalopancreasectomia”, che può essere abbreviato con l’acronimo (DCP). Ciò che è straordinario, vista la difficoltà dell’intervento, è la possibilità per i pazienti di essere dimessi in tempi estremamente brevi, così come decisamente breve è la ripresa post operatoria, con un minor dolore peri e post-operatorio. Insomma, un approccio che favorisce il decorso che segue l’intervento, la rapida ripresa e anche le successive chemioterapie, se necessarie.
EFFICACIA
«Nel nostro centro l’intervento tradizionale, cioè ad addome aperto, viene effettuato da sempre, tuttavia intervenire con la robotica – spiega il professor Carlo Molino – ci consente di offrire ai pazienti un trattamento all’avanguardia, possibile solo in pochissimi Centri nazionali ed internazionali. Questa tecnica permette l’accesso in addome e agli organi da asportare attraverso cinque piccolissimi incisioni che rappresentano il punto di entrata di cannule e strumenti robotici, quindi senza grandi cicatrici. Grazie ad un sistema computerizzato possiamo avere un’amplificazione delle immagini ed una manovrabilità della strumentazione chirurgica altrimenti impensabile (per esempio rotazione di 360 gradi del polso) con una gestione della intelligenza artificiale, sempre sotto il controllo manuale ed intellettivo del chirurgo». I primi due pazienti del Cardarelli operati con questa tecnica sono già stati dimessi, anche se hanno un percorso terapeutico e di follow-up diverso. «Questa chirurgia – prosegue infatti il professor Molino – può essere impiegata per le patologie neoplastiche del pancreas ma anche nel trattamento di lesioni pre-neoplastiche a prevenire lo sviluppo certo di una neoplasia pancreatica. Molino sottolinea poi l’importanza del lavoro di squadra, visto che interventi inevitabilmente più lunghi, rispetto alle tecniche tradizionali, richiedono un’enorme sforzo organizzativo e la partecipazione di una equipe composta da più elementi onde consentire una risultato perfetto. In questo caso, oltre ad un importante numero di infermieri e ausiliari, ad intervenire al fianco del professor Molino sono stati i medici Enrico Crolla, Benedetto Neola, Elisa Palladino, Delia De Filippo. Gli anestesisti Elena Prisco, Brigida Dell’Anno e Vincenzo Vitale che hanno effettuato una condotta anestesiologica perfetta tale da mantenere il paziente in equilibrio per tutta la durata dell’intervento e quindi consentire le condizioni ottimali per il trattamento del paziente nel decorso postoperatotio in terapia intensiva e poi in reparto di degenza; gli specializzandi Laura Sequi e Flavio Giordano e le strumentiste Cinzia Simeoli e Rita Buonocore.
Hiv: donna guarita con cura sperimentale. Terzo caso al mondo
News Presa, Ricerca innovazioneUna donna americana ha ricevuto un trattamento sperimentale contro l’Aids. Dopo oltre un anno non c’è traccia del virus nel suo sangue. Si tratta di una svolta nella ricerca che apre a nuove speranze per molti altri malati. La notizia è stata data alla conferenza in corso a Denver in Colorado proprio su ‘I retrovirus e le infezioni opportunistiche’. Ad oggi è la terza persona al mondo, la prima di sesso femminile, ad essere stata curata dall’ infezione con il virus Hiv. La terapia è stata somministrata con successo al New York-Presbyterian Weill Cornell Medical Center in New York City. Si basa su un metodo di trapianto di sangue del cordone ombelicale neonatale e successivamente di cellule staminali adulte. La donna è identificata come “la paziente di New York”, poiché il primo ad essere stato curato dall’Aids venne soprannominato “il paziente di Berlino”.
Hiv: la nuova terapia sperimentale
Il team della Weill Cornell ha identificato nel sangue del cordone ombelicale di un neonato una anomalia genetica che lo rendeva resistente al virus Hiv e ne ha utilizzato le cellule per il trapianto. L’intervento è stato eseguito nel 2017, la paziente ha preso farmaci anti-rigetto e antivirali per 37 mesi, dopo i quali ha sospeso ogni terapia. A distanza di 14 mesi non c’è traccia di virus Hiv nel suo sangue. Gli altri unici due pazienti avevano entrambi ricevuto trapianti di cellule staminali adulte da donatori con la mutazione genica resistente all’ Aids. Il sangue dei cordoni ombelicali è molto più facilmente disponibile delle cellule staminali usualmente impiegate per i trapianti di midollo spinale per le quali è molto più difficile trovare la compatibilità.
Anche la medicina rigenerativa per l’impresa della Goggia
SportLa medaglia d’argento vinta da Sofia Goggia ha dell’incredibile, nessun infatti avrebbe potuto credere ad una ripresa così veloce ed efficace dopo il brutto infortunio di Cortina. Questione di forza di volontà, certo, e di un fisico fuori dal normale. In più, dietro il recupero lampo ci sarebbe una branca della medicina capace di risultati sorprendenti: la medicina rigenerativa. Quella della campionessa bergamasca è stata una vera e propria corsa contro il tempo, pochissimo per riprendersi dalla distorsione al ginocchio e dalle microfratture. Eppure Sofia ce l’ha fatta, ad appena due settimane dal trattamento con gel piastrinico al ginocchio sinistro lesionato, eseguito da Claudio Zorzi, chirurgo ortopedico, direttore del Dipartimento di Ortopedia e Traumatologia dell’Irccs Negrar.«Siamo orgogliosi di aver contribuito, insieme al suo coraggio e volontà di ferro, e ai suoi preparatori atletici, all’incredibile recupero e straordinario risultato di Sofia» commenta Zorzi, a cui la campionessa bergamasca si è rivolta dopo la rovinosa caduta di Cortina, con un unico obiettivo: quello di poter partecipare alle Olimpiadi di Pechino.
GEL PIASTRINICO
Zorzi ha trattato Sofia Goggia con infiltrazioni di PRP (Plasma ricco di piastrine). «È una procedura largamente applicata sulle articolazioni del ginocchio, dell’anca e della spalla soprattutto in presenza di artrosi che all’IrccS di Negrar con oltre 6mila trattamenti l’anno registra una delle casistiche più ampie a livello internazionale – spiega il chirurgo – L’impiego sui legamenti crociati è invece più recente ed esistono ancora pochi i casi trattati». Il PRP è un gel che si ottiene da un normale prelievo di sangue venoso del paziente, che viene successivamente centrifugato con il risultato di un composto concentrato di plasma e piastrine. Il gel viene iniettato all’interno dell’articolazione con una semplice infiltrazione. Il resto sta ai “fattori di crescita presenti nel preparato ematico” che stimolano il processo che porta alla riparazione del tessuto. Una sorta di potentissima medicina biologica ad alto effetto anti-infiammatorio. Il primo beneficio per il paziente è la scomparsa del dolore, come detto dalla stessa Goggia. Insomma, una tecnica di medicina rigenerativa, semplice, mininvasiva che è ben tollerata e che richiede un intervento di una decina minuti. Dopo qualche ora è già possibile tornare a casa. Ma sia chiaro, nessun miracolo, forza di volontà, impegno e riabilitazione sono sempre imprescindibili.
Mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2: rischio tumori non solo alla mammella e ovaio
PrevenzioneLe mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 sono soprattutto note per aumentare sensibilmente il rischio di sviluppare carcinomi della mammella e dell’ovaio. Ciò ha permesso di realizzare programmi di screening mirati alla prevenzione di queste neoplasie. Finora tuttavia non si sapeva con altrettanta precisione se le stesse mutazioni potessero aumentare il rischio di sviluppare altri tipi di tumori. Un nuovo studio internazionale coordinato dal Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza e dall’Università di Cambridge, sostenuto anche da Fondazione AIRC, ha stimato su un campione di più di 5.000 famiglie l’associazione delle mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 con il rischio di sviluppare, in entrambi i sessi, 22 tipi di cancro, tra cui quello alla prostata, al pancreas e allo stomaco. I risultati sono stati pubblicati sulla rivista Journal of Clinical Oncology.
Mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2 e rischio tumori. Lo studio
Con l’obiettivo di rendere sempre più efficaci le strategie di prevenzione e di fornire un’appropriata consulenza genetica alle persone a maggior rischio, il team di ricerca coordinato da Laura Ottini del Dipartimento di Medicina molecolare della Sapienza, in collaborazione con l’Università di Cambridge e il consorzio internazionale CIMBA (Consortium for Investigators of Modifiers of BRCA1/2), ha analizzato le stime di rischio per i tumori associati alle mutazioni nei geni BRCA in entrambi i sessi. “Le analisi sono state effettuate su una casistica internazionale di 3.184 famiglie con mutazioni in BRCA1 e di 2.157 famiglie con mutazioni in BRCA2 – spiega Valentina Silvestri del Dipartimento di Medicina molecolare, prima co-autrice dello studio. “La casistica è la più ampia attualmente disponibile al mondo e ci ha permesso di stimare con precisione la misura in cui una mutazione ereditaria in BRCA1 o BRCA2 sia associata al rischio di sviluppare 22 diversi tipi di tumore, anche tenendo conto dell’età e del genere”.
Conclusioni
I risultati dello studio mostrano che i tumori associati a BRCA1 e BRCA2 comprendono anche il cancro alla prostata, al pancreas e allo stomaco, oltre a quelli alla mammella e all’ovaio. Sono invece state escluse associazioni con altri tipi di neoplasie suggerite da precedenti studi, tra cui quella con il melanoma. Dai dati, i ricercatori hanno stimato che gli uomini portatori di una mutazione in BRCA2 hanno un rischio di circa il 27% di sviluppare il cancro alla prostata prima degli 80 anni, più del doppio rispetto ai non portatori. Le mutazioni in BRCA1 non sono invece associate a un aumento del rischio di cancro alla prostata.
“Avere una copia difettosa di BRCA1 o BRCA2 raddoppia il rischio di cancro al pancreas in entrambi i sessi – spiega Laura Ottini, coordinatrice dello studio. “Inoltre abbiamo scoperto che le mutazioni triplicano il rischio di cancro allo stomaco sia negli uomini che nelle donne, sebbene il numero di pazienti nel set di dati fosse piuttosto limitato a causa della rarità di questa forma di cancro”. Le mutazioni in entrambi i geni aumentano significativamente il rischio di cancro alla mammella negli uomini, per quanto questa malattia sia molto rara. In particolare, mentre una mutazione in BRCA1 aumenta il rischio di un uomo di sviluppare il cancro alla mammella nel corso della vita di circa quattro volte, una mutazione in BRCA2 aumenta questo rischio di circa 40 volte.
“Questi risultati sottolineano l’utilità di estendere i test genetici per la ricerca delle mutazioni BRCA a una platea più ampia, che comprenda sia donne che uomini – conclude Ottini. “Le stime che abbiamo fornito in questo studio chiariscono il legame tra le mutazioni BRCA e il rischio oncologico e saranno la base per lo sviluppo di linee guida per la prevenzione sempre più efficaci e specifiche per i due sessi”.
Sigarette elettroniche come normali: alterano geni coinvolti nel cancro
Stili di vitaAnche chi usa soltanto le sigarette elettroniche e non ha mai fatto uso di tabacco convenzionale mostra un’espressione alterata di geni che influenzano il rischio di malattie, incluso il cancro. I risultati arrivano da uno studio della University of Southern California che per la prima volta ha valutato gli effetti biologici delle e-cig. Le sigarette elettroniche sono molto utilizzate anche dai giovanissimi, perché spesso sono percepite come meno tossiche. In realtà non proprio così. Infatti, l’espressione genica di persone che fumano sigarette convenzionali e di coloro che usano sigarette elettroniche (e-cig) è molto simile, anche se il cambiamento che si registra nell’espressione genica è più pronunciato nei fumatori che negli “svapatori”. Diversa è invece quella di chi non si è mai accostato a nessun tipo di sigarette. Il lavoro è pubblicato sulla rivista Scientific Reports.
Gli effetti biologici delle sigarette elettroniche (e-cig). Lo studio
Non è facile studiare gli effetti biologici delle sigarette elettroniche, perché spesso l’utilizzatore è un cosiddetto “dual user”, ovvero una persona che usa sia le sigarette elettroniche sia le sigarette tradizionali. Fino ad oggi le conseguenze nocive sulla salute venivano attribuite al solo consumo di tabacco tradizionale. I ricercatori americani hanno affrontato la questione analizzando l’insieme degli RNA messaggeri (il cosiddetto “trascrittoma”) di 82 adulti sani divisi in tre gruppi: del primo facevano parte solo persone che utilizzavano e-cig (alcuni dei quali avevano fatto anche uso di sigarette tradizionali); del secondo, fumatori di sigarette tradizionali che non usavano e-cig; e del terzo, persone che non avevano mai fumato alcun tipo di sigaretta. Il confronto dei trascrittomi ha mostrato che gli utilizzatori di e-cig mostravano un’alterata espressione di geni che regolano l’attività dei mitocondri, le centrali energetiche della cellula che possono produrre specie reattive dell’ossigeno. Anche l’attività di geni coinvolti nelle risposte immunitarie è risultata modificata, tra cui quelli che codificano per le interleuchine e gli interferoni, proteine che hanno un ruolo cruciale nell’infiammazione e in numerose malattie che coinvolgono le difese, tra cui il cancro. Sono state considerate alterazioni le differenze rispetto ai risultati ottenuti nei membri del terzo gruppo (mai fumatori), indipendentemente dal fatto che chi svapava avesse precedentemente fatto uso di sigarette tradizionali. “Abbiamo mostrato che l’uso abituale delle sigarette elettroniche, a prescindere da un eventuale precedente uso di sigarette tradizionali, è associato in modo significativo a una regolazione alterata della trascrizione genica” scrivono gli autori. “Assieme all’osservazione che la maggior parte dei geni con espressione alterata (72,8 per cento) negli utilizzatori di e-cig sono comuni a quelli trovati nei fumatori, i nostri risultati sostengono il fatto che l’alterata regolazione genica nella prima categoria di persone sia probabilmente dovuta all’esposizione a sostanze chimiche presenti sia nel vapore delle e-cig sia nel fumo di sigaretta”. Quali siano con esattezza le sostanze deve ancora essere stabilito, ma i candidati potenziali includono sostanze chimiche che inducono la produzione di radicali liberi e/o metalli pesanti.”
Cardiopatie congenite, l’importanza della diagnosi
BambiniSulle cardiopatie congenite arriva un forte appello ai futuri genitori da parte degli esperti della a Società Italiana di Neonatologia (SIN) e della Società Italiana di Cardiologia Pediatrica e delle Cardiopatie Congenite (SICP). Il motivo di questo messaggio è espresso nei numeri: circa un neonato ogni 100 nati vivi in Italia presenta una cardiopatia congenita (pari a 4000 neonati l’anno), una anomalia del cuore e/o dei grandi vasi, già presente durante la vita fetale. Malattie che rappresentano il 40% di tutti i difetti congeniti, provocando circa il 4% dei decessi in epoca neonatale (primi 28 giorni di vita). Ecco perché una corretta prevenzione ed una diagnosi quanto più precoce possibile sono determinati. Va detto che le cardiopatie congenite hanno una grande variabilità clinica, andando da patologie minori (che spesso si risolvono spontaneamente) fino a quadri malformativi molto complessi il cui percorso terapeutico è caratterizzato da diverse procedure invasive di tipo chirurgico e cardiologico. Nonostante le cardiopatie congenite siano considerate delle tipiche patologie con causa multifattoriale, sempre più spesso vengono individuate cause genetiche, anche se alcune volte anche fattori ambientali, tossici (alcool e farmaci in particolare) o infettivi possono esserne causa.
ALIMENTAZIONE
Una delle raccomandazioni che gli esperti indirizzano ai futuri genitori è quella di rivolgersi al proprio medico di fiducia nel momento in cui venga pianificata una gravidanza, al fine di poter intraprendere tutte le misure preventive possibili, idonee a ridurre al minimo il rischio di insorgenza di malformazioni congenite. Tra queste, l’implementazione della dieta con acido folico (da iniziare almeno tre mesi prima del concepimento), l’adozione di stili di vita appropriati (non assumere alcool durante l’intera gravidanza e nel periodo di allattamento) e la vaccinazione contro le principali malattie infettive a rischio teratogeno. Inoltre, è importante sapere che le cardiopatie congenite, spesso, possono essere diagnosticate durante la gravidanza. Le ecografie di primo livello sono in grado di identificare tutti i tipi di cardiopatie congenite in circa il 50-60% dei casi. In caso di sospetto di queste patologie, i futuri genitori saranno indirizzati ad eseguire una ecocardiografia fetale, la quale aumenta notevolmente la percentuale di casi individuati. In un contesto simile di fondamentale importanza sono le figure del cardiologo e del cardiochirurgo pediatrici per un corretto counseling e per affiancare i futuri genitori in un momento di scelte difficili. Ecco perché è fondamentale che i futuri genitori inizino da subito un adeguato percorso di assistenza alla gravidanza, rivolgendosi al proprio medico di fiducia, possibilmente ancora prima del suo inizio, in modo da pianificare i controlli e le strategie preventive più adeguati. In caso di diagnosi fetale o postnatale di malformazione cardiaca congenita, la stabilizzazione medica del neonato e la presa in carico da parte di un centro con esperienza nel trattamento delle cardiopatie congenite consentono, nella gran parte dei casi, la migliore garanzia di successo anche a lungo termine.
Covid-19: come è calata efficacia del vaccino con variante Delta. Studio ISS
CovidNella fase in cui era prevalente la variante Delta, l’efficacia del vaccino contro il Sars-Cov-2 è calata progressivamente dopo il completamento del ciclo primario. Allo sesso modo, anche se in misura molto minore, è calata quella contro il rischio di effetti gravi della malattia. Lo dimostra uno studio realizzato dall’Iss e dal ministero della Salute, il principale sull’effetto di questa variante realizzato in Italia ed appena pubblicato dalla rivista internazionale British Medical Journal (BMJ). Lo studio si basa sull’analisi dei dati di oltre 33 milioni di over 16 immunizzati con vaccini a mRna e osservati tra il 27 dicembre 2020 e il 7 novembre 2021.
Calo dell’efficacia del vaccino. I risultati dello studio
Nella fase della pandemia, in cui era predominante la variante ‘alfa’ (I semestre 2021), non si è osservato un calo dell’efficacia vaccinale né contro l’infezione, né contro la malattia severa (efficacia oltre l’80% da 3-4 settimane dopo la seconda dose fino alla fine del tempo di osservazione dopo circa 5 mesi). Con l’arrivo della variante ‘delta’, l’efficacia contro l’infezione è calata significativamente, passando dall’82% a 3-4 settimane dopo la somministrazione della seconda dose al 52% a 19-22 settimane (dopo circa 4 mesi) e al 33% a 27-30 settimane (dopo circa 6 mesi). Nello stesso periodo anche l’efficacia contro gli effetti gravi del Covid-19 si è ridotta, anche se in misura minore, passando dal 96% all’80%, con un calo più marcato per le persone più fragili. Questi dati supportano le scelte di dare priorità alle categorie ad alto rischio nella somministrazione del booster, così come la somministrazione di una dose aggiuntiva anche alla popolazione generale dopo 4-6 mesi dal completamento del ciclo primario di vaccinazione.
Neuroimmunologia, al Cardarelli il primo ambulatorio campano
News PresaUna disciplina relativamente nuova si affaccia sulla scena sanitaria per dare risposte efficaci a malattie che spesso si muovo a cavallo tra le competenze della Neurologia e quelle della Immunologia. Non a caso si parla di Neuroimmunologia clinica, branca che ha visto a Napoli i maggiori esperti d’italia riunirsi per la prima volta. Quali sono i campi di applicazione lo si può capire bene guardando i dati dell’attività svolta al Cardarelli sulle vaccinazioni Covid dei pazienti fragili, in particolare quelli affetti da Sclerosi Multipla. Più di 3.000 sono state le telefonate di controllo fatte a circa 350 pazienti dopo l’inoculazione, ottenendo una copertura vaccinale che va ben oltre la media italiana: un’adesione del 93%. A questi numeri si aggiunge, a distanza di mesi dalla prima dose, la possibilità di affermare che questo protocollo ha salvato da forme gravi di Covid l’intero campione. E proprio al Cardarelli di Napoli opera l’unico ambulatorio di Neuroimmunologia clinica della Campania. Quello del Cardarelli è anche il solo Centro di Sclerosi Multipla ad aver preso in carico a 360 gradi i pazienti fragili in occasione della vaccinazione anti Covid.
CAMPI D’APPLICAZIONE
«Il Covid ci ha fornito una grande opportunità, ovvero proteggere i soggetti fragili affetti da malattie autoimmuni – spiega il direttore generale Giuseppe Longo -. Grazie ai nostri Neurologi e ad un grande gioco di squadra è stato possibile realizzare un “fantastico” percorso che va dalla accoglienza alla sorveglianza post vaccinazione. È sicuramente un modello assistenziale che trasferiremo in altri ambiti assistenziali». Diversi sono stati anche i lavori scientifici nati grazie a questa esperienza, pubblicazioni che hanno valutato, ad esempio, la risposta anticorpale, il perdurare degli anticorpi, la reazione dell’organismo alle diverse dosi o anche la risposta ai vaccini in ragione dei farmaci somministrati per il controllo della Sclerosi Multipla. Non a caso il congresso ha visto come responsabili scientifici i medici dell’Azienda Ospedaliera partenopea Vincenzo Andreone (direttore dell’U.O.C. di Neurologia – Cardarelli), Francesco Habetswallner (direttore dell’U.O.C. di Neurofisiopatologia – Cardarelli), Giorgia Teresa Maniscalco (Responsabile del Centro SM e malattie autoimmuni del Sistema nervoso centrale – Cardarelli) e Bernardo De Martino (Responsabile U.O.S. di Riabilitazione Neurologica – Cardarelli). E sono proprio gli esperti del Cardarelli di Napoli a spiegate che «gli ultimi anni stanno vedendo l’affermarsi della Neuroimmunologia come disciplina sempre più settorializzata nell’ambito della neurologia. La complessità delle diagnosi delle malattie autoimmuni del sistema nervoso, l’ingresso di nuove terapie che agiscono sul sistema immunitario, la scoperta di nuovi anticorpi utili ai fini diagnostici, la possibilità di caratterizzazione sempre più raffinata di queste malattie da parte delle tecniche strumentali, impongono ai Neurologi che si occupano di autoimmunità un impegno sempre maggiore e la necessità di ampliare le conoscenze, a partire dalle basi biologiche che sottendono a queste patologie».
ALTERAZIONI IMMUNITARIE
In quest’ottica il congresso di Neuroimmunologia clinica è servito a fornire un aggiornamento sui meccanismi patogenetici, sulla diagnostica e le terapie della principali malattie autoimmuni sia del sistema nervoso centrale che del sistema neuro-muscolare. Inoltre, la due giorni è stata un importante occasione di aggiornamento su sclerosi multipla, encefaliti autoimmuni, miastenia gravis e neuropatie disimmuni.
Comune denominatore delle patologie neuroimmunologiche è la presenza di un’alterazione del sistema immunitario. Occorre essenzialmente distinguere tre categorie di patologie. Tra le malattie del sistema nervoso centrale la Sclerosi Multipla è quella più conosciuta, ma esistono una serie di malattie demielinizzanti che sono autoimmuni. Per queste patologie serve una diagnosi differenziale e terapie ad hoc. Differenti sono le malattie del sistema nervoso periferico, tra le quali la più nota e diffusa è la Miastenia Gravis. Terza categoria, quella delle malattie autoimmuni sistemiche, che hanno anche una localizzazione nel sistema nervoso e che devono essere seguite da un team composto tanto da neurologi quanto da immunologi.
Dalla saliva un test per capire quanto sarà grave il Covid
Ricerca innovazioneLa saliva potrebbe spiegare perché in alcune persone il Covid ha colpito con drammatica violenza e in altre si è limitato a causa un po’ di febbre. A parità di variante, infatti, alcune persone affette da Sars-CoV-2 devono essere curate in ospedale mentre altre possono essere curate a casa. Oggi una scoperta fatta dai ricercatori di Humanitas, pubblicata su Gastro Hep Advances, potrebbe spiegare questa differenza, perché descrive una nuova metodica di diagnosi che si basa sull’analisi della saliva e del sangue. Per comprendere l’importanza di questa scoperta è bene tornare con il pensiero alla prime ondate della pandemia, con migliaia di pazienti in pronto soccorso e i medici costretti a brancolare nel buio. Le conoscenze sul decorso della malattia erano ancora poche, e non era possibile capire in tempo quanto sarebbe l’infezione sarebbe stata grave. Proprio per cercare di dare una risposta a questo interrogativo, il team di Humanitas ha messo a frutto le competenze sul microbiota e sulle mucose per individuare nuovi marcatori di gravità che funzionassero precocemente.
MICROBIOTA
Coordinatrice dello studio è Maria Rescigno, capo del Laboratorio di immunologia delle mucose e microbiota di Humanitas e docente di Patologia Generale di Humanitas University, che con il suo team di ricercatori ha affiancato Antonio Voza, responsabile del Pronto Soccorso di Humanitas, e Elena Azzolini, responsabile del Centro Vaccinale di Humanitas. Maria Rescigno e Chiara Pozzi, (immunologa ricercatrice di Humanitas), si sono concentrate proprio sul microbiota della saliva e sull’insieme dei metaboliti, cioè dei prodotti che derivano da un processo chimico legato alla digestione o ingestione di alimenti.«Attraverso uno studio retrospettivo, abbiamo analizzato la saliva e il sangue di pazienti ospedalizzati e di quelli trattati a domicilio per cercare cosa contraddistinguesse i due gruppi, paragonando i dati con quelli raccolti da soggetti sani e guariti», spiega Rescigno. «È stato fondamentale un approccio di machine learning – spiega – i nostri data scientist, guidati da Riccardo Levi, ci hanno aiutato a eliminare i parametri confondenti e il fattore età, arrivando a isolare due metaboliti, Mioinositolo e acido acetico 2 pirrolidinico. Questi, insieme a una proteina presente nel sangue (Chitinasi 3-L1), hanno dimostrato di essere correlati alla gravità del Covid, quindi alla necessità o meno di ospedalizzazione».
IDENTIKIT
La combinazione di questi 3 parametri di saliva e sangue descriverebbe l’identikit del malato grave e quindi sarebbe in grado di distinguere i pazienti Covid sulla base dell’aspettativa del loro decorso clinico. Successivamente si è visto che questi due metaboliti correlano con alcuni gruppi di batteri del microbiota salivare. Chi ha metaboliti alterati ha anche batteri alterati. Il risultato non sorprende gli esperti: il microbiota ha un ruolo importante nell’infezione perché prepara il sistema immunitario e può avere attività anti-microbiche. E la saliva, dove si trova parte del microbiota, è uno dei punti in cui il virus penetra. È importante inoltre sottolineare che la proteina individuata nel sangue è coinvolta nella regolazione del recettore ACE2, il recettore del virus Sars-CoV-2. Questo significa che se la proteina è già alta in partenza, la persona ha più recettori e quindi potrebbe fare entrare più virus. Il prossimo passaggio potrebbe dunque essere la messa a punto di un test diagnostico, che al momento non è disponibile nei laboratori di analisi. La metodologia basata sull’analisi dei metaboliti – la metabolomica – è una novità che si sta imponendo nel panorama diagnostico. Una rivoluzione velocizzata da Covid-19 perché durante la pandemia eè stato possibile analizzare i dati di tanti pazienti in tempi molto rapidi. «I risultati di questo studio ci danno speranza», dice Rescigno. «In futuro, sarà possibile progettare queste analisi basate su test salivare ed esame del sangue anche per altre patologie pericolose e di difficile predizione, come la sepsi».