Tempo di lettura: 2 minutiLa celiachia è una malattia cronica e autoimmune che scatena una reazione immunitaria in caso di assunzione di glutine. Con il passare del tempo, nei soggetti geneticamente predisposti, la reazione immunitaria produce un’infiammazione che danneggia le pareti dell’intestino tenue e i villi, impedendo l’assorbimento di cibi e nutrienti.
Oggi la celiachia può essere diagnosticata dopo pochi mesi dalla nascita, ma può manifestarsi anche più avanti, nell’infanzia come nell’età adulta. Ci sono alcuni sintomi che dovrebbero far scattare il campanello d’allarme. A fare chiarezza è la dottoressa Paoletta Preatoni, gastroenterologa di Humanitas.
I sintomi della celiachia
La reazione più comune nel paziente celiaco – inconsapevole di esserlo – che assume alimenti con glutine, riguarda l’apparato gastrointestinale. I sintomi classici della celiachia, infatti, sono diarrea, gonfiore addominale, meteorismo, crampi all’addome e perdita di peso.
Esistono anche altri sintomi, forse meno conosciuti, a cui prestare attenzione, come la presenza di afte nella bocca, il formicolio alle estremità (mani e piedi), la debolezza muscolare o, anche, l’alopecia.
In certe circostanze anche l’anemia (causata principalmente dal malassorbimento di ferro e vitamine dovuto all’atrofia dei villi intestinali), la perdita di densità ossea e le convulsioni possono essere sintomi di celiachia.
Tuttavia, la specialista spiega che i sintomi della celiachia non sempre possono manifestarsi, soprattutto negli adulti.
La cause della celiachia
La celiachia è una malattia multifattoriale: “Il glutine è l’agente scatenante della reazione immunitaria nel paziente geneticamente predisposto, ma i fattori ambientali precipitanti che determinano l’innesco della risposta autoimmune possono essere molteplici, alcuni dei quali fisiologici come la gravidanza o le infezioni gastroenteriche”. La celiachia, inoltre, è spesso associata ad altre malattie autoimmuni tra cui tiroidite , diabete mellito di tipo 1, l‘artrite reumatoide o la tiroidite e a sindromi genetiche (Down, Turner)”, spiega la dottoressa Preatoni.
Fondamentale alimentazione senza glutine
“Il paziente celiaco deve seguire una scrupolosa alimentazione senza glutine, al fine non solo di gestire e ridurre i sintomi, ma di permettere all’intestino e alla mucosa di ritrovare la sua originale funzionalità. In caso contrario, il paziente mantiene costantemente attivo il processo infiammatorio a carico della mucosa duodenale, impedendo la ricostruzione della superficie assorbente dell’intestino e questo lo pone a rischio, anche se asintomatico, di sviluppare carenze nutrizionali importanti che a lungo andare avranno ripercussioni sul benessere dell’organismo”, precisa la specialista.
Cereali, farine e alimenti a base di cereali come l’avena, il frumento, il farro, l’orzo, il grano, il Kamut, il malto sono vietati, così come biscotti, pane, pasta, derivati del pane fatti con i cereali indicati.
Da evitare anche la birra, il caffè solubile, il lievito, il seitan, i piatti pronti che possono contenere tracce di glutine.In generale la lista lunga: è importante seguire le indicazioni poste sulle etichette dei prodotti e rivolgersi allo specialista di fiducia per eventuali dubbi.
Come si diagnostica la celiachia
Oggi, circa un italiano su quattro è convinto di essere intollerante a un alimento (spesso è proprio il glutine a essere messo al bando): il risultato è che molte persone decidono di intraprendere una dieta restrittiva fai-da-te che non solo non migliorerà la situazione, ma potrebbe peggiorarla. La celiachia è una patologia che va diagnosticata da uno specialista. Gli esami del sangue utili sono gli anticorpi anti-transglutaminasi, gli anticorpi anti-endomisio e gli anticorpi anti-gliadina.
In caso di risultato positivo, si può indicare l’esecuzione di una gastroscopia con biopsia a livello del duodeno, per confermare la diagnosi, conclude la specialista.
Malati rari, sos diagnosi e consulto
News Presa«Il Covid è piombato nelle nostre vite travolgendole come uno tsunami. Un evento che ha colto impreparati gli Stati di tutto il mondo e che avrà strascichi drammatici negli anni a venire, ma che ha anche portato alla luce la nostra capacità di reagire e di adattare il sistema al cambiamento. Mi riferisco in particolare al mondo delle malattie rare». A fare un bilancio di come i pazienti hanno vissuto e stanno vivendo la pandemia è Giuseppe Limongelli, coordinatore del Centro regionale Malattie rare della Campania. Ma una premessa è d’obbligo. A dispetto di un nome che potrebbe trarre in inganno, le malattie rare sono circa 8mila e ogni anno ne vengono classificate di nuove. Questo si traduce in 35 milioni di persone che, in Europa, convivono con una diagnosi di malattia rara. Circa un milione solo in Italia e 23mila in Campania. «Parliamo di chi ha ricevuto una diagnosi – ricorda Limongelli – ma se considerassimo tutti coloro ai quali non è ancora stata fatta o che non sono presenti nei registri regionali e nazionale (“malati invisibili”), questi numeri raddoppierebbero».
NUOVE STRADE
La pandemia ha scosso dalle fondamenta il sistema sanitario, costringendo i vari network di esperti a trovare nuove strade per evitare di lasciare soli i pazienti nei mesi più duri del lockdown. «Benché l’infezione da Sars Cov-2 colpisca anche i bambini – spiega Limongelli – sono gli adulti, soprattutto i più fragili, a pagarne il prezzo più alto. Questo vale anche per le patologie rare: molte di queste sono ereditarie o congenite e si manifestano in età pediatrica; altre immunologiche, endocrinologiche, pneumologiche, neurologiche; e alcune più di altre espongono i pazienti a una prognosi infausta. Anche i malati rari possono, insomma, essere più esposti, dipende dalla complessità della patologia e dalla sua espressione clinica». Ecco perché il tavolo interregionale sulle malattie rare, che è l’organo di coordinamento delle regioni sulle patologie rare, ha stilato un documento che servirà a definire quali sono i malati rari “fragili”, e quindi candidati ideali per la seconda fase della vaccinazione. La speranza è che questo documento venga recepito a breve dal ministero della Salute, diventando pienamente operativo. Per il coordinatore del Centro regionale Malattie rare della Campania «il Covid ha messo in luce una serie di criticità in tutti i sistemi sanitari. Il nostro ha mostrato enorme resilienza nella gestione della cronicità e delle emergenze, ma nessun Paese è riuscito pienamente a gestire la crisi a livello territoriale, con l’effetto di una ricaduta sulle terapie intensive, sino a raggiungere livelli insostenibili». Drammatico è il dato delle diagnosi mancate.
ON LINE
«Con il centro di coordinamento malattie rare abbiamo sviluppato un’indagine che confronta il primo quadrimestre 2020 con lo stesso periodo dei due anni precedenti e anche, tra loro, mesi di- versi del 2020. Nel primo caso, il calo delle diagnosi è stato significativo, con punte quasi del 50% in meno, ma la diminuzione è stata ancora maggiore (fino al 75%) confrontando gennaio-febbraio con marzo – aprile 2020, mesi nei quali sono stati chiusi gli ambulatori». Per il Centro regionale Malattie rare della Campania le parole d’ordine sono diventate “televisita e telecosulto” da una parte, e “home delivery” e “home therapy” dall’altra, risultato possibile grazie a una specifica circolare regionale che ha posto il centro di coordinamento malattie rare come fulcro ed ha puntato sull’ascolto delle difficoltà vissute da medici e pazienti. «Il lavoro è andato avanti cercando di identificare le problematiche e assegnando ordini di priorità. Nel pieno della prima ondata – conclude Limongelli – abbiamo costituito un gruppo di lavoro su tre macro aree: malattie metaboliche lisosomiali, malattie pneumologiche e malattie immunologiche ed ematologiche. Oltre a televisite e teleconsulto per la diagnosi, grazie a una sinergia tra pubblico e privato siamo riusciti a mettere in campo sia l’home delivery, sia l’home therapy, per portare la terapia a casa dei pazienti. Se c’è un insegnamento che dobbiamo trarre da tutto questo è che l’obiettivo deve essere sempre quello di far viaggiare l’informazione, e laddove possibile la terapia, non il paziente». malati rari, malati rari
Parkinson: identificate varianti genetiche rare che aumentano rischio
PrevenzioneAlcune varianti genetiche rare, se presenti simultaneamente, possono aumentare di molto il rischio di ammalarsi di Parkinson. A questo risultato è giunto uno studio italiano, condotto dall’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati Traverso” del Cnr di Napoli e dall’I.R.C.C.S. Neuromed è appena pubblicato su Molecular Neurodegeneration. Grazie al sequenziamento del genoma in 500 pazienti affetti da morbo di Parkinson sono stati identificati ventisei geni, sedici dei quali associati per la prima volta alla patologia.
Lo studio ha preso in esame i dati genetici di due tipologie di pazienti: quelli appartenenti a famiglie nelle quali la malattia di Parkinson è ricorrente e quelli in cui la patologia era comparsa senza che ci fosse familiarità (cosiddetti casi “sporadici”). Inoltre gli scienziati hanno approfondito la ricerca esaminando, sia su tessuti umani che su modelli animali, l’espressione genica (il processo di trascrizione dell’informazione genetica in proteine funzionali). Cinque dei geni studiati sono risultati particolarmente espressi in neuroni dopaminergici della Substantia Nigra la cui degenerazione è la causa principale del morbo di Parkinson.
Parkinson: nuove tecniche di diagnosi e prevenzione
Si tratta del più ampio studio genetico realizzato su pazienti italiani affetti da morbo di Parkinson utilizzando metodiche di sequenziamento di ultima generazione. “Abbiamo potuto identificare varianti correlate al rischio di Parkinson in ventisei geni, sedici dei quali non erano stati precedentemente associati alla malattia. E abbiamo potuto riscontrare anche come la maggior parte di questi geni siano coinvolti in “pathways” importanti per la funzionalità del sistema dopaminergico la cui degenerazione porta allo sviluppo della patologia”, dice Alessandro Gialluisi, ricercatore del Dipartimento di epidemiologia e prevenzione del Neuromed, primo autore del lavoro.
Un risultato importante dello studio è che le varianti esaminate possono avere una sorta di effetto cumulativo. “La presenza contemporanea di due o più di queste varianti rare si è rivelata associata con un aumento della probabilità di sviluppare il Parkinson nel 20% dei pazienti. Possiamo parlare di un ‘carico’ di mutazioni crescente che, in futuro, potrebbe portarci a valutare il rischio di malattia proprio attraverso l’individuazione del numero di varianti dannose presenti nel DNA di una persona”, spiega Teresa Esposito, ricercatrice del Cnr-Igb e responsabile del Laboratorio Cnr presso il Neuromed, ultimo autore dello studio.
“Questi risultati appaiono promettenti nella prospettiva di perfezionare le tecniche di diagnostica molecolare rivolte a individuare precocemente le persone a rischio elevato. Saranno naturalmente necessari altri studi da un lato per aumentare il numero di pazienti diagnosticabili e dall’altro per comprendere e sviluppare potenziali approcci terapeutici, primi fra tutti quelli basati su sviluppi farmacologici e di medicina rigenerativa. Ciò che possiamo pensare, per un futuro più vicino, è un esame genetico che tenga conto del carico di varianti dannose presenti nel genoma di un individuo”, conclude Antonio Simeone, Direttore del Cnr-Igb. “Potrebbero aprirsi possibilità importanti per avviare screening di popolazione e, quindi, migliorare la diagnosi precoce di una patologia che si sviluppa nel tempo, e nella quale i sintomi si manifestano solo quando i pazienti hanno già perso il 50% dei neuroni dopaminergici, quelli maggiormente implicati nel Parkinson”.
Lotta contro il tumore al seno: l’importanza dello screening e della prevenzione
PrevenzioneIl 30% dei tumori che riguardano il genere femminile è rappresentato dal carcinoma mammario, con circa 1 donna su 8 che può essere colpita nell’arco della vita. Per questo la prevenzione ha un ruolo fondamentale nella lotta contro il tumore al seno: oltre a seguire uno stile di vita sano, è opportuno fare periodicamente tutti i controlli di routine. Una diagnosi precoce di questo tipo di cancro può, infatti, aumentare fino al 40% la possibilità di guarigione e ampliare le opzioni terapeutiche a disposizione delle pazienti.
Il rischio di sviluppare un tumore al seno aumenta con l’aumentare dell’età e, a seconda della fascia anagrafica di appartenenza, è consigliabile fare controlli diversi.
-Prima dei 30 anni gli specialisti consigliano di praticare l’autopalpazione, che serve a scoprire precocemente una eventuale presenza di noduli e, dunque, a intervenire tempestivamente nel caso si tratti di un tumore. L’autopalpazione si può eseguire subito dopo l’inizio del ciclo mestruale.
-Nella fascia di età fra i 30 e i 40 anni è consigliabile fare regolarmente ecografie e visite senologiche (almeno una volta all’anno).
-Fra i 40 e i 50 anni, invece, è opportuno introdurre fra gli esami da fare anche la mammografia, da eseguire almeno una volta all’anno.
-Tra i 50 e i 70 anni la mammografia può essere eseguita anche una volta ogni due anni.
–Oltre i 70 anni, poiché il rischio di tumore al seno aumenta con l’età, si deve continuare a fare prevenzione e a fare tutti i controlli consigliati dal proprio medico, specialmente nei casi in cui vi sia familiarità.
Oggi si sono fatti passi da gigante nella cura del tumore al seno, ma la prevenzione resta una delle armi più efficaci contro la malattia e consente di aumentare sensibilmente le chance di sopravvivenza.
Il miglioramento del tasso di sopravvivenza è dovuto anche allo sviluppo di tecnologie diagnostiche avanzate e di nuove terapie, sempre più mirate ed efficaci. Un esempio sono i nuovi protocolli chemioterapici e radioterapici ad alta precisione o le terapie ormonali che agiscono sui meccanismi molecolari alla base della malattia.
La chirurgia nel tumore della mammella ha compiuto progressi notevolissimi, passando dai primi interventi molto invasivi a interventi più conservativi, che mirano cioè a eliminare solo la massa tumorale, preservando il più possibile i tessuti.
In generale il trattamento è diventato sempre più multidisciplinare e arriva a comprendere anche la tutela del benessere psicologico della donna, che non viene più sottoposta a grosse asportazioni debilitanti. Ogni donna ha una storia a sé e, nell’approccio alla malattia, gli specialisti tengono sempre più conto di tutti gli aspetti, fisici e psicologici, nel prendersi cura della paziente.
Sempre più donne sopravvivono, grazie alla prevenzione, alle nuove tecnologie e allo sviluppo di nuove terapie, come chemioterapie e radioterapie ad alta precisione. La lotta al tumore al seno è ancora lunga, ma i progressi fatti negli ultimi anni e il continuo impegno nella ricerca sono importanti passi avanti.
Osteoporosi: tutto quello che c’è da sapere
Anziani, PrevenzioneL’osteoporosi è una patologia dell’apparato scheletrico, che causa una diminuzione della densità del tessuto osseo e un deterioramento della sua micro-architettura, con conseguente aumento della fragilità ossea. Le ossa, più fragili e porose (da cui il nome: osso poroso) sono più esposte al rischio di frattura (in particolare di vertebre, femore, polso, omero, caviglia), anche per traumi minimi.
Si tratta di una malattia che difficilmente viene diagnosticata precocemente: è conosciuta infatti come “malattia silenziosa”, perché il più delle volte viene scoperta dopo la prima frattura; spesso si verificano delle fratture in seguito a traumi banali, o addirittura senza che sia successo nulla e quelle che interessano le vertebre sono solitamente il primo campanello d’allarme.
Le cause dell’osteoporosi
Lo scheletro si sviluppa durante l’infanzia, fino a raggiungere le sue dimensioni e densità massime intorno ai 25 anni di età. Dopodiché c’è una fase di consolidamento e successivamente una di riassorbimento.
Le ossa sono vive e sono tutt’altro che un tessuto statico, per cui si rigenerano e si rinnovano continuamente nel corso della vita di un individuo: questo processo, detto rimodellamento osseo, diventa meno efficiente con il tempo, rendendo le ossa più fragili e maggiormente soggette a fratture.
Attraverso il rimodellamento la matrice ossea si disfa delle cellule vecchie, riassorbendole, e ne produce di nuove, che vanno a rinnovare il tessuto osseo, mantenendo l’apparato scheletrico sempre giovane.
Nelle persone che soffrono di osteoporosi, però, il processo di riassorbimento delle vecchie cellule supera quello di formazione delle nuove, per cui il tessuto osseo perde densità e le ossa diventano più porose e fragili.
Si calcola che almeno 1 donna su 3 e 1 uomo su 5 soffra, nel mondo, di osteoporosi. L’età media delle persone affette da osteoporosi è superiore ai 50 anni e le fratture più comuni sono quelle che interessano il femore, le vertebre e il polso e la spalla.
Le fratture rappresentano la complicanza più rilevante dell’osteoporosi e in alcuni casi possono arrivare a provocare un’invalidità permanente e aumentare anche il rischio di morte. I pazienti che hanno subito una frattura di femore, per esempio, hanno un tasso di mortalità nell’anno successivo del 15-30%.
Prevenzione e diagnosi dell’osteoporosi
L’osteoporosi è, ad oggi, una condizione patologica con la quale è possibile convivere, a patto che venga diagnosticata in tempo e curata adeguatamente.
La prevenzione resta senz’altro l’aspetto più importante nella lotta all’osteoporosi: i consigli chiave da seguire a tutte le età includono una dieta bilanciata ricca di calcio e vitamina D, l’adozione di uno stile di vita sano e l’attività fisica.
Per la prevenzione dell’osteoporosi è anche opportuno considerare che ad ogni età corrispondono raccomandazioni specifiche. Nei bambini e negli adolescenti è importante seguire una dieta ricca di calcio, garantire un’adeguato apporto di vitamina D e praticare attività fisica.
Negli adulti e negli anziani invece, oltre ad assicurare calcio e vitamina D, è fondamentale che non si verifichino abusi di alcol, sigarette e caffeina.
Per quanto riguarda la diagnosi, in presenza di fattori di rischio (come la menopausa e l’età avanzata) è bene rivolgersi a un medico per valutare se sia opportuno sottoporsi a esami specifici per verificare la presenza della patologia.
Per diagnosticarla, è necessario sottoporsi ad un esame specifico, la densitometria ossea (MOC), che permette di misurare esattamente la densità minerale ossea. La MOC è un esame semplice, di breve durata e indolore. Prevede l’impiego dei raggi X, ma in dosi bassissime per cui si tratta di un esame sicuro, che si può ripetere tranquillamente nel tempo. La misurazione si esegue di solito a livello della colonna vertebrale (a livello lombare), del femore o del polso. La scelta del segmento da studiare dipende da diversi fattori, tra cui il sesso e l’età del paziente.
In ogni caso, è buona norma consultare un medico specializzato per ricevere assistenza e avere tutte le informazioni utili per affrontare questa patologia.
Poliposi nasale, ecco come affrontarla
News PresaLa difficoltà nel respirare dal naso, un mal di testa insistente dato da una sensazione di compressione o la perdita dell’olfatto, possono essere il sintomo di quella che gli specialisti chiamano rinosinusite cronica con polipi nasali. Il problema, ce lo dicono i dati, è più frequente di quanto si possa credere: in Europa circa l’11% della popolazione ne soffre, e in Italia si va dal 4 al 10%. «Abbiamo a che fare con una patologia infiammatoria che ha un forte impatto sulla qualità di vita dei pazienti, con un’eziologia non del tutto chiara e un quadro clinico molto variabile», spiega il professor Carlo Antonio Leone, direttore dell’U.O.C. di Otorinolaringoiatria e Chirurgia cervico-facciale dell’Azienda dei Colli. Una patologia della quale non si conosce ancora del tutto l’origine, dunque, ma che oggi può essere trattata con risultati fino a poco tempo fa impensabili. «Spesso si associa ad altre malattie legate ad un’iper risposta immunitaria – aggiunge il professor Leone -, si pensi all’asma o alla dermatite atopica. Notiamo anche una lieve prevalenza tra gli uomini, con un picco d’incidenza tra i 45 e i 65 anni. In alcuni casi osserviamo delle poliposi nasali anche in età pediatrica, in bambini disreattivi». Come detto, i sintomi sono i più vari. Si va dall’ostruzione nasale, alla perdita dell’olfatto, al dolore facciale o persino ad una sensazione di spossatezza.
TIPIZZAZIONE
La cosa importante da comprendere è che le poliposi non sono tutte uguali. «Alcune sono particolarmente severe e recidivanti, altre no. Quindi in questi anni abbiamo osservato pazienti che una volta operati hanno tenuto a bada il problema con cortisonici ad uso locale o sistemico, e pazienti che invece sono stati costretti ad operarsi più e più volte». La grande novità, una notizia epocale per chi si vede la vita distrutta dalla poliposi nasale severa, è che oggi le armi terapeutiche si sono molto affinate. C’è stato un cambio di strategia terapeutica, con un passaggio da una terapia sintomatica ad una eziopatogenetica. Gli specialisti hanno infatti a disposizione anche farmaci biologici che riescono ad impedire le recidive. A confermarlo è proprio il professor Leone: «La chirurgia, anche se oggi è mini-invasiva, risolve solo i sintomi. Usando un endoscopio dotato di telecamera Hd, il chirurgo rimuove i polipi e amplia i condotti dei seni paranasali, così da favorire l’azione dei farmaci per uso locale. A fare la differenza sono invece gli anticorpi monoclonali usati nell’ambito di quelle che sono a tutti gli effetti delle terapie personalizzate». La citologia nasale e gli studi immunologici consentono infatti di mettere in campo una terapia mirata basata proprio sui farmaci biologici che colpiscono alcuni elementi della cascata infiammatoria. «In particolare nel processo infiammatorio che porta alla poliposi nasale, i bersagli sono l’interleuchina 4 e l’interleuchina 13, entrambe responsabili dell’infiammazione che produce l’iperplasia della mucosa». Visto che alla base delle poliposi nasali severe ci sono meccanismi simili a quelli dell’asma e della dermatite atopica, non è raro che si manifestino delle comorbilità: pazienti affetti da poliposi e dermatite atopica, o da poliposi e asma. In collaborazione con la professoressa Gabriella Fabbrocini della Federico II, il Centro diretto dal professor Leone (il primo a livello italiano per numeri di casi trattati) ha portato avanti una sperimentazione del monoclonale “dupilumab”, con l’importante pubblicazione di un lavoro internazionale su questa comorbilità.
I SINTOMI
Il professor Leone non ha dubbi: «Il sintomo più comune è la difficoltà respiratoria nasale, ma bisogna prestare attenzione anche ad eventuali alterazioni dell’olfatto e, se si nota qualcosa che non va, serve una visita dall’otorinolaringoiatra». Peraltro, questi specialisti possono oggi fare delle endoscopie che permettono di valutare le dimensioni del polipo, o esami citologici che consentono di individuare i fenotipi e arrivare così ad una terapia personalizzata. Il Monaldi è certamente il Centro di riferimento più adatto per questo tipo di esami e per le somministrazioni dei monoclonali. «Anche se col tempo le terapie possono essere autosomministrate – conclude Leone – , è essenziale che si parta sempre sotto controllo specialistico. Inoltre, i pazienti che hanno alla base una disreattività immunologica devono essere trattati in maniera multidisciplinare. Solo così si può offrire a ciascun paziente una terapia personalizzata e veramente efficace».
Per la sclerosi multipla serve più integrazione con il territorio
News Presa, Ricerca innovazioneLa sclerosi multipla è una patologia che può essere considerata “esemplare” sotto il profilo delle innovazioni nelle terapie e non solo. «Lo è – chiarisce Gioacchino Tedeschi, direttore della Clinica neurologica della “Vanvitelli” di Napoli – sia per le caratteristiche dei pazienti, che solitamente ricevono la diagnosi in una delle fasi più attive della loro vita, sia perché la malattia tende a cronicizzare e dunque li accompagna lungo l’arco di una vita». Proprio per queste ragioni, la sclerosi multipla ha spesso un carattere evolutivo e una disabilità più o meno grave. Ma con esiti differenti. «Vent’anni fa – prosegue Tedeschi – la gravità della disabilità causata dalla sclerosi multipla era ben diversa. Ora disponiamo di oltre 20 farmaci che possiamo usare a seconda dei casi, con l’obiettivo di prevenire le ricadute».
La sclerosi multipla alterna fasi di remissione a momenti di acutizzazione, e spesso assume una forma progressiva. Tedeschi chiarisce che «i farmaci di oggi agiscono sul sistema immunitario in modo estremamente incisivo. Inoltre, è cambiato il paradigma di approccio. Prima si attendeva che la malattia entrasse in una fase più grave per intervenire con terapie aggressive, oggi in molti casi si preferisce agire subito con forza». Ed è proprio questo il tema: quando le terapie sono più aggressive si possono avere maggiori effetti collaterali, dunque la gestione diviene molto complessa. Esistono Centri di riferimento che sono in grado di prendere in carico i pazienti. Tuttavia «non si può pensare – conclude Tedeschi – che i centri debbano da soli rispondere a tutte le esigenze di cura e di presa in carico. Resta determinante una forte integrazione con il territorio, al momento anello debole della catena».
Fumo di terza mano, i rischi delle sostanze trasportate dai fumatori
PrevenzioneIl comportamento di ognuno influenza la salute dell’altro. È quello che ci ha insegnato molto bene la pandemia del Covid-19. Un concetto che vale anche per il fumo, non solo quello passivo. Le sigarette, infatti, possono recare danni agli altri anche molte ore dopo esapere state spente. Una ricerca i cui risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science Advances dimostra che si può essere esposti a queste sostanze nocive anche in ambienti in cui è vietato fumare. La causa è il cosiddetto fumo “di terza mano”. Il fumo, infatti, rilascia delle sostanze tossiche sui vestiti, sulla pelle e sulle superfici. In pratica chi si accende una sigaretta si espone al fumo attivo (o “di prima mano”) e chi si trova in presenza di qualcuno che sta fumando è esposto al fumo passivo (o “di seconda mano”). Chi, invece, è esposto alle sostanze tossiche rilasciate dalle sigarette e accumulatesi sulla pelle, sui vestiti e sulle superfici è vittima, spesso inconsapevole, del fumo di terza mano.
Sostanze trasportate dai fumatori
Alcuni ricercatori della Yale University (USA) e del Max Planck Institute (Germania) hanno analizzato l’aria di un cinema tedesco per verificare la presenza di composti organici volatili (noti come VOC, dall’inglese “volatile organic compounds”) legati al tabacco. In Germania, come in Italia, da circa 15 anni nei cinema è vietato fumare: l’ipotesi dei ricercatori era quindi che i VOC venissero trasportati in quell’ambiente chiuso dal pubblico. Misurando con la spettrometria di massa ad alta risoluzione l’emissione dei VOC, si è avuta la conferma che questa coincideva con il momento dell’arrivo in sala degli spettatori e aumentava nel tempo, anche se si fermava il ricircolo d’aria per impedire l’ingresso dei composti dall’esterno.
Le concentrazioni di diversi inquinanti pericolosi e potenzialmente cancerogeni, come benzene e formaldeide, raggiungono, negli ambienti sotto esame in questa ricerca, livelli significativi. I ricercatori hanno stimato che gli spettatori erano esposti all’equivalente del fumo passivo di 1-10 sigarette. In ambienti di minori dimensioni, o poco ventilati, l’esposizione alle sostanze nocive prodotte dal fumo di sigaretta e trasportate dalle persone risulterebbe ancora più elevata.
Secondo gli autori dello studio, con lo stesso livello di emissioni registrato nel cinema e la stessa ventilazione, la concentrazione dei VOC in una casa di 140 m3 potrebbe aumentare di 40 volte rispetto a quella di case dove non entra alcun fumatore.
Fumo di terza mano: stili di vita individuali incidono sulla collettività
Il fumo “di terza mano” interessa quindi anche gli ambienti considerati “smoke-free” come i mezzi di trasporto e le aule scolastiche, e rappresenta quindi un problema di salute pubblica da non sottovalutare. In altre parole, come ha insegnato la pandemia del covid, le abitudini individuali incidono sulla salute della comunità.
Celiachia: segnali per distinguerla
AlimentazioneLa celiachia è una malattia cronica e autoimmune che scatena una reazione immunitaria in caso di assunzione di glutine. Con il passare del tempo, nei soggetti geneticamente predisposti, la reazione immunitaria produce un’infiammazione che danneggia le pareti dell’intestino tenue e i villi, impedendo l’assorbimento di cibi e nutrienti.
Oggi la celiachia può essere diagnosticata dopo pochi mesi dalla nascita, ma può manifestarsi anche più avanti, nell’infanzia come nell’età adulta. Ci sono alcuni sintomi che dovrebbero far scattare il campanello d’allarme. A fare chiarezza è la dottoressa Paoletta Preatoni, gastroenterologa di Humanitas.
I sintomi della celiachia
La reazione più comune nel paziente celiaco – inconsapevole di esserlo – che assume alimenti con glutine, riguarda l’apparato gastrointestinale. I sintomi classici della celiachia, infatti, sono diarrea, gonfiore addominale, meteorismo, crampi all’addome e perdita di peso.
Esistono anche altri sintomi, forse meno conosciuti, a cui prestare attenzione, come la presenza di afte nella bocca, il formicolio alle estremità (mani e piedi), la debolezza muscolare o, anche, l’alopecia.
In certe circostanze anche l’anemia (causata principalmente dal malassorbimento di ferro e vitamine dovuto all’atrofia dei villi intestinali), la perdita di densità ossea e le convulsioni possono essere sintomi di celiachia.
Tuttavia, la specialista spiega che i sintomi della celiachia non sempre possono manifestarsi, soprattutto negli adulti.
La cause della celiachia
La celiachia è una malattia multifattoriale: “Il glutine è l’agente scatenante della reazione immunitaria nel paziente geneticamente predisposto, ma i fattori ambientali precipitanti che determinano l’innesco della risposta autoimmune possono essere molteplici, alcuni dei quali fisiologici come la gravidanza o le infezioni gastroenteriche”. La celiachia, inoltre, è spesso associata ad altre malattie autoimmuni tra cui tiroidite , diabete mellito di tipo 1, l‘artrite reumatoide o la tiroidite e a sindromi genetiche (Down, Turner)”, spiega la dottoressa Preatoni.
Fondamentale alimentazione senza glutine
“Il paziente celiaco deve seguire una scrupolosa alimentazione senza glutine, al fine non solo di gestire e ridurre i sintomi, ma di permettere all’intestino e alla mucosa di ritrovare la sua originale funzionalità. In caso contrario, il paziente mantiene costantemente attivo il processo infiammatorio a carico della mucosa duodenale, impedendo la ricostruzione della superficie assorbente dell’intestino e questo lo pone a rischio, anche se asintomatico, di sviluppare carenze nutrizionali importanti che a lungo andare avranno ripercussioni sul benessere dell’organismo”, precisa la specialista.
Cereali, farine e alimenti a base di cereali come l’avena, il frumento, il farro, l’orzo, il grano, il Kamut, il malto sono vietati, così come biscotti, pane, pasta, derivati del pane fatti con i cereali indicati.
Da evitare anche la birra, il caffè solubile, il lievito, il seitan, i piatti pronti che possono contenere tracce di glutine.In generale la lista lunga: è importante seguire le indicazioni poste sulle etichette dei prodotti e rivolgersi allo specialista di fiducia per eventuali dubbi.
Come si diagnostica la celiachia
Oggi, circa un italiano su quattro è convinto di essere intollerante a un alimento (spesso è proprio il glutine a essere messo al bando): il risultato è che molte persone decidono di intraprendere una dieta restrittiva fai-da-te che non solo non migliorerà la situazione, ma potrebbe peggiorarla. La celiachia è una patologia che va diagnosticata da uno specialista. Gli esami del sangue utili sono gli anticorpi anti-transglutaminasi, gli anticorpi anti-endomisio e gli anticorpi anti-gliadina.
In caso di risultato positivo, si può indicare l’esecuzione di una gastroscopia con biopsia a livello del duodeno, per confermare la diagnosi, conclude la specialista.
Fumo, alcol e cattiva alimentazione nemici della fertilità maschile
PrevenzioneLa fertilità varia da persona in persona, tra donne e uomini, e cambia anche nel tempo nel medesimo individuo, a seconda dell’età e dello stile di vita. Nelle donne, la fertilità è legata all’età: con il passare degli anni la riserva ovarica diminuisce, fino ad arrivare al completo esaurimento con la menopausa. Nel caso degli uomini, invece, le capacità riproduttive sono maggiormente influenzate da fattori esterni, come cattive abitudini, sostanze tossiche, tabacco, alcool, ecc.
La dottoressa Daniela Galliano, medico chirurgo, specializzata in Ginecologia, Ostetricia e Medicina della Riproduzione, Responsabile del Centro IVI Roma, chiarisce i dubbi su questo tema, spiegando alcuni concetti chiave relativi alla fertilità. “Trattamenti chemioterapici, interventi chirurgici, tabacco, consumo di alcol o droghe, anabolizzanti, alimentazione, stress, tossine… tutto ciò che può produrre disfunzioni ormonali influisce sulla fertilità“, ha specificato la dott.ssa Galliano, “ma, soprattutto nelle donne, l’età è un fattore determinante. In Italia, per ragioni sociali, le donne iniziano a cercare la prima gravidanza, in media, dopo i trentadue anni; mentre il picco della fertilità si raggiunge intorno ai 25 anni. La maggior parte delle donne non è consapevole del fatto che dopo i 35 anni la qualità e la quantità degli ovuli diminuisce. La diminuzione della qualità dello sperma è dovuta molto probabilmente più a fattori ambientali quali inquinamento, cattive abitudini, stress, fattori socio ambientali in generale”.
“Per tutte queste ragioni” ha affermato Daniela Galliano, “raccomandiamo un check-up della propria fertilità non appena si capisce di volere un figlio. In particolare, in caso di coppie sotto i 35 anni è bene rivolgersi ad un centro specializzato dopo aver cercato la gravidanza per un anno. Mentre, per le coppie al di sopra dei 35 anni, consigliamo di rivolgersi a un esperto dopo 6 mesi di tentavi non andati a buon fine. Inoltre, è bene tener presenti una serie di segnali che possono indicare delle anomalie”.
“Le donne a volte sottovalutano segnali come cicli irregolari, diradati nel tempo. In questi casi, è importante recarsi subito da uno specialista, informarsi, prendere decisioni consapevoli. Le donne possono essere soggette a diverse patologie che, se affrontate in tempo, non precludono una futura maternità. La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) si può diagnosticare facilmente durante l’adolescenza e un cambiamento nello stile di vita può fare la differenza. L’endometriosi è una patologia che può richiedere anni per essere diagnosticata, perché il sintomo caratteristico, cioè un ciclo molto doloroso, rischia di essere sottovalutato”. Dopo aver effettuato tutti i controlli e acquisito le informazioni necessarie, si possono prendere le dovute decisioni. “In caso di diagnosi sfavorevoli” ha continuato la dottoressa, “la scelta migliore è condurre uno stile di vita sano e procedere alla preservazione della fertilità, attraverso la crioconservazione degli ovociti, il prima possibile. Anche gli uomini dovrebbero crioconservare il proprio liquido seminale, dato che si tratta di una procedura molto semplice che assicura la possibilità di utilizzare, in futuro, i propri gameti per diventare genitori”.
“Chiaramente oggi disponiamo di numerose tecniche per la fecondazione assistita” ha concluso Daniela Galliano, “da quelle più semplici, come il monitoraggio del ciclo e l’inseminazione artificiale, idonee per pazienti giovani con problematiche non gravi; alle tecniche più avanzate. La fecondazione in vitro si rivolge alle coppie che hanno problemi più complessi di infertilità, come scarsa qualità del liquido seminale oppure tube non permeabili”.
“Per conoscere lo stato della propria fertilità –conclude la specialista – è consigliabile rivolgersi a centri specializzati. I primi test da effettuare sono: un’ecografia pelvica, un esame del sangue ormonale e un’analisi del liquido seminale. Quindi, a seconda delle alterazioni riscontrate, si procede all’esecuzione di esami più approfonditi. Durante la prima visita il medico considera fattori come l’età, l’ormone anti-Mülleriano e i risultati degli esami su tiroide, vitamina D, clamidia; oltre che test delle tube, test genetici, test specifici in caso di aborti ripetuti o i risultati di una consulenza genetica sulla coppia”.
“Dopo aver raccolto tutte le informazioni necessarie” ha continuato la dott.ssa Galliano, “si pianifica il tipo di trattamento. Questo processo dura circa tre settimane. Tra la prima e la seconda settimana viene eseguita una prima diagnosi, essenziale per identificare l’idonea tipologia di percorso da intraprendere”.
Disturbi intestinali: influiscono anche sull’equilibrio psichico
AlimentazioneLa salute dell’intestino è influenzata da molti fattori, tra cui stress, cambi di stagione o la dieta alimentare. Uno squilibrio nella flora batterica intestinale può causare che il collasso di alcuni metaboliti responsabili della depressione. In altre parole, un intestino in salute porta a contribuire alla normale funzione cerebrale. Lo ha dimostrato uno studio francese dell’Istituto Pasteur, dell’Inserm e del Cnrs pubblicato su Nature Communications. I problemi dell’intestino hanno diversi sintomi. I più comuni sono: stitichezza, meteorismo, diarrea, tensione addominale. Per essere sicuri che questi disturbi non siano la spia di problematiche più severe, è fondamentale rivolgersi al medico. La dottoressa Mariangela Allocca, gastroenterologa in Humanitas ha spiegato quali sono gli esami da fare e quando sono indicati.
Disturbi intestinali: gli esami del sangue
Gli esami del sangue indicano lo stato della nostra salute. In particolare per quanto riguarda l’intestino, i valori a cui prestare attenzione sono l’emocromo e la proteina C reattiva. L’emocromo può evidenziare la presenza di un’anemia tramite una diminuzione della emoglobina e dei globuli rossi, mentre un aumento della proteina C reattiva può suggerire la presenza di una infiammazione intestinale.
Test per la celiachia
In caso di dolore addominale (addominalgia), diarrea o gonfiore intestinale (meteorismo) può essere indicato sottoporsi al test per la celiachia mediante un semplice esame del sangue. Il test misura il livello di anticorpi specifici, tra i quali anticorpi anti transglutaminasi(tTGA), anticorpi anti-endomisio(EMA) e anticorpi antigliadina (AGA), nei confronti di una proteine presente nel glutine.
Calprotectina
L’esame prevede la misurazione del livello di calprotectina in un campione di feci. La calprotectina è una proteina presente nei globuli bianchi, in particolare nei neutrofili. Durante un episodio infiammatorio che coinvolge l’intestino i neutrofili rilasciano questa proteina nelle feci.
Esami colturali sulle feci
Si eseguono su campioni di feci che sono sottoposti a valutazioni di tipo microscopico, chimico e microbiologico. In particolare, gli esami colturali rilevano la presenza nelle feci di microrganismi patogeni, come batteri e/o parassiti, associati alle infezioni intestinali.
Test del respiro
Il test del respiro (breath test) è un esame diagnostico non invasivo che analizza campioni di aria espirata dal paziente. Mediante questo tipo di esame è possibile indagare alcune alterazioni del sistema gastroenterico. Queste possono essere provocate da sovracrescita batterica, intolleranze alimentari, in particolare al fruttosio e/o al lattosio, o da alterazioni del transito intestinale. I sintomi a cui prestare attenzione sono meteorismo, diarrea, flatulenza, distensione e crampi addominali.
Ecografia delle anse intestinali
L’esame ecografico delle anse intestinali è un esame non invasivo di primo livello che tramite l’utilizzo di una sonda specifica per lo studio dell’intestino, permette una valutazione dello spessore della parete sia del colon che dell’intestino tenue. La visualizzazione di tratti ispessiti dell’intestino suggerisce il sospetto di una malattia infiammatoria intestinale.
Colonscopia: un esame invasivo ma fondamentale
Se tutti gli esami fin qui descritti sono considerati poco o per nulla invasivi, la colonscopia è un esame che potrebbe arrecare fastidio al paziente, pertanto in alcuni casi si opta per svolgerlo sotto anestesia. È un esame fondamentale, poiché è l’unico in grado di esaminare la parete interna del colon e riconoscere polipi e lesioni della mucosa intestinale. L’esame si svolge mediante l’inserimento nell’ano e dunque nel retto e nel colon di un tubicino sottile e flessibile, con al contempo l’introduzione di aria al fine di distendere le pareti intestinali.
Lo stile di vita: la prima tra le misure preventive
Uno stile di vita sano e attivo e una dieta equilibrata ricca di fibre e povera di grassi saturi sono la prima ricetta per un intestino in salute. Inoltre, per mantenere una funzione regolare dell’intestino è importante bere almeno due litri di acqua al giorno e svolgere una regolare attività fisica.