Tempo di lettura: 4 minutiNel 2021, le nuove diagnosi di infezione da HIV sono state 1770 in Italia. Si tratta di tre nuovi casi per 100 mila residenti. Un’incidenza che pone il nostro Paese al di sotto della media dell’Unione Europea (4,3 nuovi casi per 100.000).
L’infezione risulta più diffusa tra i maschi, nella fascia di età 30-39 anni ed è attribuibile per oltre l’80% dei casi ai rapporti sessuali. Ancora in troppi (63%) scoprono l’infezione in fase avanzata.
Il quadro viene fuori dall’aggiornamento della sorveglianza nazionale delle nuove diagnosi di infezione da HIV e dei casi di AIDS al 31 dicembre 2021, curato dal Centro Operativo AIDS (COA) dell’ISS. Le persone che contraggono il virus HIV (sieropositive) non sono malate di AIDS, ma sono destinate a diventarlo, in assenza di cure adeguate.
HIV: i dati del 2021 in Italia
L’incidenza segue un trend in costante discesa. Dal 2012, infatti (da quando la sorveglianza ha copertura nazionale), le nuove diagnosi di HIV sono diminuite in maniera costante, soprattutto dal 2018, con un declino ulteriore negli ultimi due anni. Il dato riguarda tutte le modalità di trasmissione. Tuttavia, i dati dal 2020 e al 2021 hanno risentito dell’emergenza Covid-19 che potrebbe aver comportato una sottodiagnosi e/o una sottonotifica.
Le fasce di età e i canali più a rischio in Italia
L’incidenza più elevata di nuove diagnosi HIV interessa la fascia di età 30-39 anni ((7,3 nuovi casi ogni 100.000 residenti). Segue la fascia 25-29 anni (6,6 nuovi casi ogni 100.000 residenti). In queste fasce di età l’incidenza nei maschi è 3-4 volte superiore a quelle nelle femmine. In generale, i maschi sono il 79,5% dei nuovi casi. L’età media: 42 anni per gli uomini e 41 per le donne.
Il numero più elevato di diagnosi è attribuibile alla trasmissione sessuale(83,5%). Gli eterosessuali sono il 44% (tra essi i maschi eterosessuali sono il 27,2% e le femmine eterosessuali il 16,8%), i maschi che fanno sesso con maschi il 39,5%. Infine, la modalità di trasmissione riguarda l’uso di sostanze stupefacenti nel 4,2% dei casi.
Dal 2017 si osserva una diminuzione del numero di nuove diagnosi HIV in stranieri, sia maschi che femmine. Nel 2021, gli stranieri costituiscono il 29,2% di tutte le segnalazioni, la proporzione rimane stabile nel tempo con valori intorno al 30%.
Diagnosi HIV tardive
Dal 2015 aumenta la quota di persone a cui viene diagnosticata tardivamente l’infezione da HIV (con bassi CD4 o in AIDS). Nel 2021, 3/4 dei maschi eterosessuali (75,9%) e circa 2/3 delle femmine (62,4%) sono stati diagnosticati con CD4<350 cell/µL.
Oltre 1/3 delle persone con nuova diagnosi scopre di essere HIV positivo a causa della presenza di sintomi o patologie correlate all’HIV(39,8%). Altri motivi per fare il test sono stati: rapporti sessuali senza preservativo(16,6%), comportamenti a rischio non specificati (9,4%), accertamenti per altra patologia (6,9%), iniziative di screening/campagne informative (6,2%).
Per quanto riguarda le regioni, le incidenze più alte sono state registrate in Lazio, Valle d’ Aosta, Toscana, Emilia Romagna.
I casi di AIDS conclamato
Dall’inizio dell’epidemia (1982) a oggi sono stati segnalati 72.034 casi di AIDS, di cui 46.874 deceduti entro il 2019. Nel 2021 sono stati diagnosticati 382 nuovi casi di AIDS pari a un’incidenza di 0,6 nuovi casi per 100.000 residenti.
L’incidenza di AIDS è in costante diminuzione. Il numero di decessi in persone con AIDS rimane stabile ed è pari a poco più di 500 casi l’anno.
La proporzione di persone con nuova diagnosi di AIDS che ignorava la propria sieropositività e ha scoperto di essere HIV positiva nel semestre precedente la diagnosi di AIDS è aumentata nel 2021 (83%) rispetto al 2020 (80,8%).
È diminuita nel tempo la proporzione di persone che alla diagnosi di AIDS presentava un’infezione fungina, mentre è aumentata la quota di persone con un’infezione virale e quella con tumori.
Nel 2021, il 76,4% delle persone diagnosticate con AIDS non aveva ricevuto una terapia antiretrovirale prima della diagnosi di AIDS.
Nel mondo infezioni in aumento. Il commento di Giovanni Maga (CNR)
“Dalla prima descrizione della malattia e dall’individuazione del virus responsabile avvenuta a metà degli anni ‘80 del secolo scorso, ancora oggi non possiamo dichiarare questa pandemia sconfitta”. Lo sottolinea il direttore dell’Istituto di genetica molecolare (Igm) del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia, Giovanni Maga.
L’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’HIV e l’AIDS (UNAIDS) riporta, infatti, che le nuove infezioni da HIV sono globalmente in aumento. Nel 2021 si sono registrati 1,5 milioni di nuovi casi e 640.000 decessi. “La mortalità – continua – è in diminuzione grazie al fatto che abbiamo una terapia salvavita, ma al costo di dover assumere farmaci tutta la vita, e con la difficoltà di rendere accessibili queste cure alle popolazioni più indigenti. Il virus non risparmia i giovanissimi: 2,7 milioni di persone sotto i 19 anni oggi hanno il virus. Nel 2021 si sono avuti oltre 300.000 nuovi contagi in questa fascia di età.
In Italia il dato positivo è che nel 2021 sono diminuiti i casi di infezione notificati dal SSN: 1770 nuove diagnosi, che comunque ci dicono che in media ogni giorno 5 persone si infettano con HIV. Un numero largamente sottostimato, dato che il 63% delle diagnosi avviene quando si manifestano i primi sintomi della immunodeficienza, ovvero in pazienti prossimi a sviluppare l’AIDS.
Si tratta cioè di persone contagiate anni prima, che inconsapevolmente possono aver contribuito a diffondere l’infezione. Si stima che i casi di infezione ogni anno che non vengono rilevati siano diverse migliaia: per questo è fondamentale scoprire subito se siamo stati contagiati, grazie ai semplici test gratuiti e anonimi oggi disponibili.
Rapporti sessuali maggior veicolo di contagio nel mondo
“I rapporti sessuali – continua il direttore – rimangono il maggior veicolo di contagio: 83,5% dei casi segnalati, con una leggera prevalenza nei rapporti eterosessuali (44%) rispetto a quelli tra persone dello stesso sesso (39,5%). La fascia maggiormente colpita è quella dei giovani adulti: 25-40 anni, a riprova di una generale sottostima del rischio ed una percezione diffusa e sbagliata che l’AIDS non sia più un problema. Per questo l’informazione è fondamentale, fin dall’adolescenza.
Lo strumento più semplice ed efficace per proteggersi da HIV, così come da tutte le malattie sessualmente trasmissibili, è il preservativo: usarlo è una forma di protezione e rispetto per noi e per i nostri partner. Purtroppo, le statistiche ci dicono che meno di un giovane su due usa regolarmente il preservativo: questo, unito ad un sempre più precoce esordio della vita sessuale nei giovani, costituisce terreno fertile per la continua circolazione del virus.
“Non uno stigma, ma condizione medica”
“Essere positivi ad HIV – conclude Maga – non è uno stigma o motivo di vergogna. È una condizione medica al pari di altre infezioni virali. La differenza è che si tratta di una infezione potenzialmente letale se non viene controllata con la terapia. HIV rappresenta un rischio per tutti, uomini e donne, indipendentemente dai propri orientamenti sessuali. E solo tutti insieme lo possiamo sconfiggere. La scienza offrendo terapie sempre più efficaci e, forse presto, un vaccino. Le istituzioni attivando reti di sorveglianza e di assistenza e promuovendo l’informazione a tutti i livelli. I cittadini, rimanendo consapevoli dei rischi e adottando i comportamenti corretti per ridurli”.
Varianti Covid-19, cosa c’è di diverso in Cerberus e Gryphon
Covid, PrevenzioneIl virus SARS-CoV-2 muta continuamente. Dall’omicron, la variante del ceppo originale che ancora domina il panorama epidemiologico mondiale, sono nate una lunga serie di sotto-varianti. Le ultime arrivate si chiamano Cerberus e Gryphon (BQ.1 e XBB). I nomi richiamano inquietanti mostri della mitologia greca. Sebbene delle differenze ci siano, non avrebbero niente di più temibile delle precedenti, a detta degli esperti.
Cerberus e Gryphon
L’avanzata di Covid-19 con Cerberus e Gryphon era attesa. Lo aveva preannunciato l’European centre for disease prevention and control (Ecdc). Già lo scorso 21 ottobre aveva pubblicato un report sui dati delle sequenze genetiche di Sars-cov-2 e delle sue varianti raccolte dalla banca dati internazionale Gisaid
In generale, le nuove sottovarianti BQ.1 e XBB sono abbastanza simili tra di loro e non differiscono in maniera significativa dalle varianti di Sars-Cov-2 da cui derivano. I dati dettagliati sono disponibili sui siti dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e dello European center for disease prevention and control (Ecdc).
Tuttavia, da un’analisi realizzata lo scorso mese, emerge come le nuove varianti riescano a superare con più facilità le difese immunitarie. In pratica, i dati fanno ritenere che entrambe siano più immunoevasive, e che dunque il rischio di reinfezione sia più alto rispetto alle altre sottovarianti di omicron in circolazione.
I sintomi delle nuove varianti
Non ci sono dati che indichino che l’infezione di Cerberus o di Gryphon diano esito a una malattia (Covid-19) più grave o più mortale. Per quanto riguarda i sintomi che le caratterizzano, sembra colpire soprattutto le alte vie respiratorie, con sintomi simil-influenzali.
I disturbi iniziali più diffusi sono congestione nasale, mal di gola e forti mal di testa, che possono portare con sé tosse, dolori muscolari e febbre. La Francia è il Paese dove Cerberus sta avanzando più rapidamente. Tra i sintomi più comuni ci registrano anche disturbi intestinali. Invece, nei casi più gravi si verificano difficoltà respiratorie e alterazione del ritmo cardiaco.
Fabrizio Pregliasco, direttore sanitario dell’istituto Galeazzi di Milano, intervistato da Repubblica, ha ribadito che “l’infezione Covid va diagnosticata”. Dunque è un errore considerare Covid-19 come solo un raffreddore.
Malattie infiammatorie croniche intestinali, crescono diagnosi bambini
Associazioni pazienti, Bambini, PediatriaIn Italia cresce l’incidenza delle diagnosi in età pediatrica delle malattie infiammatorie croniche intestinali (MICI). Esiste una fase di transizione che porta ragazze e ragazzi da un centro pediatrico ad uno destinato agli adulti. Se n’è parlato nell’ultima sessione del XIII Congresso nazionale dell’Italian Group For The Study Of Inflammatory Bowel Disease (IG-IBD).
A questa fase di transizione, dal prossimo anno, sarà dedicato un progetto promosso da IG-IBD, insieme alla Società Italiana di Gastroenterologia Epatologia e Nutrizione Pediatrica (SIGENP) e all’associazione dei pazienti AMICI Italia. L’obiettivo è censire i centri pediatrici presenti sul territorio e sensibilizzare i sanitari affinché vi sia una standardizzazione del metodo e una corretta continuità assistenziale.
“Sviluppare le conoscenze e creare standard nazionali che instradino il processo di transizione è prioritario”. Lo ha sottolineato Flavio A. Caprioli, Segretario Generale dell’IG-IBD, professore associato all’Università degli Studi di Milano e medico gastroenterologo presso la Fondazione IRCSS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico di Milano.
Malattie infiammatorie croniche intestinali, l’età della transizione
“L’età della transizione corrisponde alla fase di passaggio dall’adolescenza all’età adulta – spiega la professoressa Fabiana Castiglione, responsabile della IBD Unit di Gastroenterologia dell’Azienda Ospedaliera Universitaria “Federico II” di Napoli, membro del progetto per conto di IG-IBD. “Fra i 16 e i 18 anni, inizia ad esserci una adeguata conoscenza di se stessi, della malattia e una sufficiente maturità per essere in grado di comprendere le problematiche legate alla patologia e le modalità di trattamento”. Inoltre, dal punto di vista organizzativo, “i Centri pediatrici possono gestire i pazienti fino al compimento dei 18 anni”. .
Esordio delle malattie nel 25% dei casi in età pediatrica
“Negli ultimi 20 anni, l’esordio delle malattie nel 25% dei casi si è spostato nella età pediatrica e adolescenziale”, spiega il professor Paolo Lionetti, responsabile della struttura complessa di gastroenterologia e nutrizione dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze, past president della SIGENP e ordinario dell’Università di Firenze, che ha attivato un ambulatorio congiunto dodici anni fa. Nei bambini, uno dei problemi in particolare che la malattia di Crohn porta con sé è la scarsa crescita nel 40% dei casi.
La terapia nelle malattie infiammatorie croniche intestinali
“In pediatria abbiamo raccolto un’ottima esperienza dalla terapia nutrizionale”, afferma Lionetti. “Come trattamento di prima linea usiamo una dieta liquida esclusiva, capace di indurre la remissione. Negli ultimi anni abbiamo iniziato, inoltre, in aggiunta ai farmaci, ad usare una dieta specifica per la malattia di Crohn che sta dando risultati incoraggianti. È una dieta che esclude prodotti processati dall’industria. Nell’adulto la terapia nutrizionale è scarsamente accettata ma negli anni noi pediatri ci auguriamo che le terapie di supporto nutrizionali, applicate in pediatria, possano essere impiegate anche nell’età adulta, partendo dai pazienti che hanno avuto l’esordio in età pediatrica”.
“I farmaci che usiamo nel bambino sono gli stessi usati per l’adulto. Va ricordato come in alcune fasi, ad esempio, prima della pubertà, sia importante tenere sotto controllo l’infiammazione che da sola riduce la crescita. In secondo luogo, per la popolazione pediatrica occorre fare il possibile al fine di garantire la crescita e lo sviluppo puberale. Abbiamo la necessità di lavorare con i farmaci e le terapie nutrizionali per controllare l’andamento della malattia”, aggiunge la professoressa Marina Aloi, associato di Pediatria presso la Sapienza Università di Roma e responsabile del Registro nazionale delle Ibd pediatriche della SIGENP. Uno dei grandi problemi ancora esistenti, sottolinea, è il fatto che “dall’approvazione di un nuovo farmaco passano almeno cinque anni prima che venga validato anche per l’età pediatrica. Molto spesso, siamo costretti per questo a usare farmaci off label”.
Fattori di rischio psicologici
Un altro punto cardine è lo stato di malattia della persona: “Si cerca – afferma Castiglione – di trasferire il paziente in una fase di remissione e di stabilità per non aggiungere ulteriori fattori di rischio psicologici derivanti dal cambiamento di terapie in un momento della storia della patologia già di per sé difficile da affrontare”.
Il pericolo di una transizione inadeguata è che il paziente possa dimostrare una scarsa aderenza alle terapie e una ridotta compliance. “Le malattie infiammatorie croniche intestinali – ricorda la specialista – hanno fasi di remissione ma anche frequenti riacutizzazioni o complicanze che richiedono l’attenzione immediata dello specialista”. A maggior ragione, “abbiamo necessità di standardizzare il follow-up in questa particolare età, identificando dei modelli di approccio che possano essere vantaggiosi per il paziente e per il medico che lo ha in cura”.
“La crescente incidenza delle malattie croniche – dichiara Giuseppe Coppolino, presidente di AMICI Italia – pone importanti sfide al sistema socio-sanitario, evidenziando l’importanza del ruolo del coinvolgimento attivo del paziente e dei suoi familiari nel processo di cura, con l’obiettivo di ridurre i costi a carico della sanità e delle famiglie e di promuovere la salute e il benessere in situazioni di malattia”.
Alzheimer, un farmaco rallenta declino della memoria
Ricerca innovazioneUno studio condotto sul farmaco lecanemab apre una nuova strada per la cura dell’Alzheimer. I dati dello studio sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine. Il medicinale ha dimostrato un rallentamento del declino della memoria del 27% in 18 mesi.
In passato, altri studi con anticorpi monoclonali avevano ottenuto il rallentamento della formazione di placche. Questo studio fa un passo oltre e dimostra che con un trattamento di 18 mesi i pazienti hanno migliorato – seppur in forma lieve – le funzioni cognitive.
Alzheimer: anticorpo monoclonale rallenta il declino
Lo studio peer-reviewed è stato condotto dal professor Christopher van Dyck, direttore dell’Unità di ricerca sul morbo di Alzheimer dell’Università di Yale, USA. Sono stati coinvolti 1.795 pazienti di età compresa tra 50 e 90 anni a cui era stato diagnosticato un Alzheimer precoce. Metà dei partecipanti hanno assunto il lecanemab, l’altra metà un placebo.
La gravità della loro demenza è stata valutata utilizzando una scala clinica che ha tenuto conto di diversi sintomi tra cui dimenticanze, difficoltà relazionali, capacità di risoluzione dei problemi e di vivere in modo indipendente. Sebbene la malattia sia progredita in entrambi i gruppi nei 18 mesi di studio, è peggiorata molto meno rapidamente in quelli che assumevano il lecanemab.
Effetti collaterali
Dai dati è emerso che il lecanemab è associato a diversi effetti collaterali, tra cui mal di testa e microsanguinamenti nel cervello. Circa il 6,9% dei partecipanti allo studio nel gruppo lecanemab ha interrotto lo studio a causa di eventi avversi, rispetto al 2,9% di quelli nel gruppo placebo.
In totale, gli eventi avversi gravi hanno interessato il 14% dei partecipanti del gruppo lecanemab e l’11,3% del gruppo placebo. I più comuni nel primo gruppo sono stati le reazioni alle infusioni endovenose e anomalie nelle risonanze magnetiche, come gonfiore cerebrale ed emorragia cerebrale chiamate anomalie di imaging correlate all’amiloide o ARIA. L’emorragia cerebrale ARIA è stata osservata nel 17,3% di coloro che hanno ricevuto lecanemab e nel 9% di quelli nel gruppo placebo. Il gonfiore cerebrale ARIA è stato documentato nel 12,6% con lecanemab e nell’1,7% con placebo, secondo i dati dello studio.
Per quanto riguarda i decessi, circa lo 0,7% dei partecipanti al gruppo lecanemab e lo 0,8% di quelli del gruppo placebo sono morti. Si tratta di sei decessi documentati nel gruppo lecanemab e sette nel gruppo placebo. Tuttavia, nessun decesso è stato considerato dagli studiosi correlato al lecanemab o verificatosi con ARIA.
Le cause dell’Alzheimer
Sempre ricercatori di Yale hanno realizzato un altro studio per indagare i processi all’origine dell’Alzheimer. Dai dati è emerso che il gonfiore causato da un sottoprodotto delle placche amiloidi nel cervello, un segno distintivo dell’Alzheimer, potrebbe essere la vera causa dei sintomi debilitanti della malattia. I ricercatori hanno identificato un biomarcatore che potrebbe aiutare i medici a diagnosticare meglio l’Alzheimer e fornire un bersaglio per terapie future. La notizia è stata riportata sulla rivista Nature.
In sostanza, ogni formazione di placca può causare un accumulo di rigonfiamenti a forma di sferoide lungo centinaia di assoni – i sottili fili cellulari che collegano i neuroni del cervello – vicino ai depositi di placca amiloide. I rigonfiamenti sono causati dal graduale accumulo di organelli all’interno delle cellule note come lisosomi. Questi ultimi hanno la funzione di digerire i rifiuti cellulari. Man mano che i rigonfiamenti si ingrandiscono possono attenuare la trasmissione dei normali segnali elettrici da una regione del cervello a un’altra. Questo accumulo di sferoidi provoca gonfiore lungo gli assoni, che a sua volta innesca gli effetti devastanti della demenza.
Secondo i ricercatori, una proteina nei lisosomi chiamata PLD3 causa la crescita e l’aggregazione di questi organelli lungo gli assoni, portando infine al rigonfiamento degli assoni e alla rottura della conduzione elettrica. Durante lo studio hanno usato la terapia genica per rimuovere il PLD3 dai neuroni nei topi con una condizione simile al morbo di Alzheimer. Ciò ha portato a una drastica riduzione del gonfiore assonale. Questo, a sua volta, ha normalizzato la conduzione elettrica degli assoni e migliorato la funzione dei neuroni nelle regioni cerebrali collegate da questi assoni. Secondo gli studiosi, il PLD3 può essere utilizzato come marcatore nella diagnosi del rischio di malattia di Alzheimer.
Un potenziale meccanismo di genesi della malattia
Un altro potenziale meccanismo di genesi della malattia è stato individuato dai ricercatori della NYU Grossman School of Medicine and Icahn School of Medicine al Mount Sinai. Lo studio ha evidenziato un cambiamento nel codice del DNA di un gene che svolge un ruolo chiave nelle difese immunitarie del cervello e che potrebbe dare corso alla malattia. I loro risultati sono stati pubblicati su Alzheimer’s and Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.
Le nuove scoperte potrebbero offrire un potenziale bersaglio per le terapie in grado di influenzare direttamente le mutazioni genetiche, secondo gli autori dello studio. Il gene in questione, l’inositolo polifosfato-5-fosfatasi D (INPP5D), contiene istruzioni per la costruzione di enzimi che spingono le cellule immunitarie a fagocitare placche, pezzi danneggiati di cellule cerebrali, nonché batteri e virus. Nel caso di un suo malfunzionamento questo meccanismo di “pulizia” agirebbe con minor efficienza spianando la strada al morbo.
Malattia di Crohn perianale, funziona l’uso di staminali autologhe
Ricerca innovazioneLa malattia di Crohn si caratterizza per la formazione di aree d’infiammazione lungo tutto il tratto digerente. Si estendono dalla bocca all’ano e non sono escluse possibili localizzazioni perianali e del tratto esofago-gastrico (malattia di Crohn perianale). Si tratta di una patologia cronica, quindi non si può guarire. Tuttavia, grazie alle terapie a disposizione, la malattia può andare incontro ad una remissione prolungata.
Le stime più recenti parlano di 130mila persone affette in Italia. Di queste, il 25% manifesta anche la malattia perianale, vale a dire oltre 32mila. La maggior parte sono pazienti giovani che vivono l’esordio dei sintomi fra i 20-30 anni. Le conseguenze sono invalidanti sulla vita sociale, relazionale e lavorativa. Oggi si registrano dei passi in avanti sia nella chirurgia sia nel trattamento farmacologico, grazie all’uso dei biologici.
Gli ultimi progressi nella gestione chirurgica e medico-farmacologica della malattia di Crohn perianale sono stati al centro della quarta sessione del XIII Congresso nazionale dell’Italian Group For The Study Of Inflammatory Bowel Disease (IG-IBD), nei giorni scorsi a Riccione.
Malattia di Crohn perianale, lo studio sulle cellule staminali
La novità più recente per il trattamento della malattia di Crohn perianale «è rappresentata dall’uso delle cellule staminali autologhe ed eterologhe». Lo ha spiegato il professor Gilberto Poggioli, Direttore del Dipartimento Medico chirurgico delle malattie digestive, epatiche ed endocrino-metaboliche dell’IRCCS Sant’Orsola e ordinario dell’Università degli Studi “Alma Mater” di Bologna. “Le autologhe, che vengono prelevate da tessuto adiposo dell’addome, poi frazionate e iniettate localmente dove ha origine la fistola, ci hanno dato risultati finora eccellenti”. I dati sono “confermati da risonanza magnetica, su 90 pazienti e abbiamo già registrato un follow-up di quattro anni in cui le recidive sono limitate.
Per quanto riguarda le eterologhe, invece, abbiamo usato un farmaco ad uso compassionevole (data la mancata autorizzazione) su un numero più ristretto di pazienti che avevano un pregresso di diversi interventi chirurgici non risolutivi. Gli outcome sono buoni in termini di efficacia, perché le fistole sono state completamente chiuse nella maggior parte dei casi. Il farmaco appare promettente ma per ottenere un’evidenza tuttavia occorrerà aspettare”.
In generale, negli ultimi due decenni, la chirurgia e la farmacologia hanno apportato dei cambiamenti radicali per la condizione di vita dei pazienti. “Oggi – osserva il professor Poggioli – è possibile chiudere le fistole e sostenere la formazione di tessuto cicatriziale. In passato era possibile solo controllare lo stato dell’infezione. La chirurgia, in particolare nei pazienti che non manifestano malattia a livello del retto, risolve nel 90% delle fistole. Nella malattia del retto, invece, il rischio delle recidive è alto e nel 30-40% dei casi è necessario togliere il retto e procedere con una stomia”.
Farmaci e cura
“La terapia farmacologica della malattia perianale ha l’obiettivo di determinare la chiusura delle fistole complesse dopo bonifica chirurgica della sepsi. Ad oggi, i farmaci che hanno dimostrato maggiore efficacia rimangono gli anti-TNF Alpha, in particolare l’infliximab”, osserva Sara Renna, medico gastroenterologo dell’unità operativa di malattie infiammatorie croniche dell’intestino dell’Az. Ospedaliera Villa Sofia-Cervello di Palermo.
La malattia di Crohn perianale va affrontata con approccio multidisciplinare, secondo il professor Paolo Gionchetti, Direttore della SSD Malattie infiammatorie croniche intestinali dell’IRCCS Sant’Orsola e associato di Medicina interna dell’Università degli Studi “Alma Mater” di Bologna.
“Va gestita in primo luogo dal medico gastroenterologo e dal chirurgo – commenta il professor Gionchetti – che discutono delle strategie migliori, ma anche dal radiologo, capace di eseguire delle risonanze magnetiche pelviche. La malattia perianale può alterare in maniera significativa la qualità della vita dei pazienti. Possono essere interessati da questa complicanza fino al 25% dei pazienti che presentano dolore anale. Spesso fanno fatica a stare seduti e a muoversi, creando grossi problemi ad avere una normale vita sociale e relazionale”.
“Come equipe – continua – seguiamo i pazienti in un ambulatorio congiunto medico-chirurgico. Il primo passo è quello di bonificare l’area perianale con intervento chirurgico che dreni l’infezione e determini l’assenza di infezione residua. Successivamente si decide la strategia migliore, che nel caso di una malattia luminale spenta può consistere nel tentativo di riparazione chirurgica diretta (flap mucoso di avanzamento, uso di protesi biologiche etc.). Nel caso ci sia malattia luminale attiva allora la scelta cadrà sulla terapia con farmaci biologici che possono controllare sia la malattia perianale che quella luminale. Se anche con i biologici non si ottiene la chiusura delle fistole, allora, si possono utilizzare tecniche innovative con l’impiego delle cellule staminali”.
Colon: 1 paziente su 2 non informato sulla colonscopia
PrevenzioneSolamente 1 paziente su 2 ha avuto indicazioni cliniche sulle modalità di preparazione alla colonscopia. L’esame per la prevenzione delle patologie legate al colon-retto. L’informazione agli utenti sembra ricadere solo sul personale sanitario o sugli operatori del centro screening. Sono questi alcuni punti emersi dal Rapporto di Cittadinanzattiva Lazio riferiti all’anno 2022.
“Il Rapporto sul monitoraggio del colon retto – nel Lazio, presentato alcuni giorni fa – ci restituisce una realtà di prevenzione che va sostenuta, ampliata e diffusa. I dati emersi ci indicano tendenze, correzioni e ipotesi di lavoro per il miglioramento dell’accesso e della qualità del servizio offerto”. Questo il primo commento di Elio Rosati segretario regionale di Cittadinanzattiva Lazio.
La colonscopia per la prevenzione secondaria del tumore del colon-retto
La colonscopia è un esame endoscopico, attraverso cui si osserva la superficie interna del colon e del retto. Di conseguenza si utilizza per la diagnosi di malattie infiammatorie croniche, diverticoli, polipi e tumori maligni. La colonscopia è importante anche per la prevenzione secondaria del tumore del colon-retto.
Si tratta del secondo tumore più frequentemente diagnosticato nella popolazione italiana. Solitamente si effettua se il paziente risulta positivo all’esame del sangue occulto fecale. Quest’ultimo rientra nei programmi di screening regionali per la diagnosi precoce dei tumori del colon-retto, indirizzati alla popolazione fra i 50 e i 69 anni.
Centri screening per il monitoraggio del colon retto
Nel Lazio, il 23% dei partecipanti all’indagine ritiene che le persone con fit positivo non siano adeguatamente informate sulla necessità di eseguire l’approfondimento diagnostico. Tuttavia, c’è consapevolezza di quali siano gli standard qualitativi di riferimento per le procedure endoscopiche. La conformità della colonscopia è fondamentale (punteggio 9-10, 93%).
Tra le iniziative per migliorare l’adesione risalta il colloquio con il personale del servizio endoscopico (punteggio 5-6 100%). Subito dopo il colloquio con il Medico di Medicina Generale (punteggio 5-6 84,6%). Questo presume una maggiore preparazione degli specialisti sull’argomento rispetto ai medici di medicina generale (MMG).
Personale sanitario (reparto endoscopico)
Il 30,2% non ha svolto corsi di formazione o di aggiornamento in merito alla prevenzione del CCR – Cancro al Colon Retto. I pazienti sono poco informati sulla colonscopia nel 6% dei casi, sufficientemente nel 54,7 e molto nel 34%. I dati riflettono la necessità che l’informazione stessa sia correttamente implementata da parte dell’azienda sanitaria.
Anche il personale sanitario è a conoscenza di quali siano gli standard delle procedure endoscopiche. Tuttavia, non tutte le ASL hanno messo in atto procedure per la valutazione del servizio endoscopico (58,8% SI 29,4% NO). La conformità della colonscopia è importante (punteggio 9-10 83%). Dato sovrapponibile a quello dei centri screening.
Tra le iniziative per migliorare l’adesione c’è predominanza ai colloqui con gli specialisti del servizio endoscopico (punteggio 6 54,7%), poi un colloquio con il MMG (punteggio 6 34%). Come per i centri screening, il colloquio con il MMG è importante ma risulta preferibile il colloquio con specialisti del settore.
Altro aspetto per migliorare l’adesione alla colonscopia di screening è una preparazione che non interferisca sulla qualità di vita del paziente (punteggio 5-6 75%). Il ruolo del farmacista territoriale è marginale in tutto il processo di adesione allo screening.
I pazienti
Solamente 1 paziente su 2 ha avuto indicazioni sulle modalità per prepararsi all’esame colonscopico dal personale del servizio endoscopico. Questo contrasta con quanto affermato dagli operatori sanitari e dai centri screening, e cioè che debba essere il personale, adeguatamente formato, a dare informazioni chiare al paziente sulle modalità della procedura.
Ciò denota anche una non completa chiarezza sulle modalità di preparazione (14,2%, sotto il punteggio 7). Una non chiara modalità di assunzione del preparato porta a una scarsa pulizia intestinale. Ne consegue una difficoltà per gli operatori di eseguire l’esame endoscopico secondo gli standard qualitativi richiesti.
Quello che scoraggia maggiormente i pazienti a fare l’esame è la preparazione alla colonscopia (54,5%). L’assunzione del lassativo in preparazione dell’esame ha interferito (poco 41%, sufficientemente, 48,4% molto 10,5%) sulla qualità di vita. Qui si può notare una differenza di risposte in relazione del lassativo assunto.
Sulle iniziative che possono migliorare l’adesione all’esame anche qui prevale un colloquio diretto con lo specialista (punteggio 5-6 63%) piuttosto che con il MMG (punteggio 5-6 56,4%).
La Carta della Qualità
“Alla luce delle indicazioni provenienti dal monitoraggio riteniamo che si possano delineare alcune azioni specifiche con un obiettivo generale da raggiungere in modo coordinato con tutte le competenze, professionalità e livelli istituzionali, civici e delle associazioni dei pazienti”, ha commentato Rosati. “Riteniamo infatti che l’obiettivo generale debba essere la costruzione di una Carta della qualità per lo screening del colon retto nel Lazio.
“È necessario avviare questo percorso che potrebbe essere un passo rilevante nella prevenzione, gestione e presa in carico delle problematiche inerenti patologie importanti che impattano sulla qualità di vita delle persone.
Come Cittadinanzattiva Lazio pertanto auspichiamo che nel prossimo futuro con la Regione Lazio, con gli operatori sanitari, con le associazioni dei pazienti si possa aprire un percorso di costruzione della Carta della Qualità.
L’obiettivo è: “aumentare, in modo consapevole, accesso, prevenzione, presa in carico e gestione delle patologie a qualsiasi livello, territoriale o ospedaliero che sia. Con il fine ultimo di avere una qualità di vita soddisfacente, operatori sanitari altamente formati, motivati e in rete con tutto il servizio sanitario regionale” – ha quindi concluso Rosati.
Disabilità, Giornata internazionale. Il diritto all’inclusione in ogni settore
Ricerca innovazioneLa giornata, infatti, nasce per sostenere iniziative che facciano sì che tutte le persone con disabilità possano godere di condizioni di vita pari a quelle degli altri cittadini. Partecipando alla vita della società in ogni suo aspetto.
In occasione di questa giornata, è stata presentata anche un’iniziativa per rendere il settore dell’agricoltura accessibile alle persone con disabilità. Si tratta di una macchina a trazione elettrica realizzata da CREA e Inail.
Disabilità: il prototipo Libera 2
Il progetto di ricerca del prototipo Libera 2 è finanziato con il bando Bric 2019 dell’Istituto. L’obiettivo è permettere anche a chi non può usare gli arti inferiori di spostarsi per accedere ai campi. Rendere il settore più accessibile. Consentire, quindi, di svolgere in autonomia attività come il monitoraggio delle colture, la raccolta, il controllo e il coordinamento tecnico-logistico delle attività aziendali.
Si tratta di una macchina a trazione elettrica messa a punto dai ricercatori del CREA Ingegneria e Trasformazioni Agroalimentari. È realizzata in collaborazione con il Laboratorio sicurezza nei settori ad alto indice infortunistico – cantieristica e agricoloforestale del Dipartimento innovazioni tecnologiche (Dit) dell’Inail.
Mobilità rurale anche per chi ha disabilità
Il progetto MOBI.RU.D. (mobilità rurale per soggetti disabili) è stato finanziato dall’Inail con il bando di ricerca in collaborazione Bric 2019. L’Istituto, infatti, valorizza e implementa la propria rete scientifica, mediante l’affidamento di progetti in collaborazione di durata biennale.
Il veicolo è stato presentato la scorsa settimana nell’area espositiva del Forum della ricerca “Made in Inail” al Gazometro di Roma. Si tratta di un dispositivo mobile a trazione elettrica integrale che rappresenta l’evoluzione di Libera, il primo prototipo, sempre a trazione elettrica, sviluppato dal CREA nel 2016.
Nella nuova progettazione si è tenuto conto di quanto richiesto esplicitamente dalle persone con disabilità. Può accogliere a bordo del mezzo il conduttore con la sua carrozzina, evitando di farlo trasferire al sedile del conducente.
“Grazie a questa macchina – dichiara Mauro Pagano, ricercatore del CREA Ingegneria e Trasformazioni Agroalimentari e responsabile scientifico del progetto – la persona disabile potrà essere inserita o reinserita nelle attività lavorative aziendali, potendosi spostare in sicurezza negli ambienti rurali tipici delle realtà agricole”.
In futuro potrebbe essere inserito nel car-sharing
“Le innovazioni di questo prototipo – sottolinea Fabio Pera, dirigente tecnologo del Dit Inail – sono frutto delle più sofisticate tecnologie e hanno il duplice obiettivo di facilitare il reinserimento lavorativo e di rispettare gli standard di sicurezza”.
Gli agriturismi, le fattorie didattiche e le aziende agricole potranno acquisire il mezzo per favorire l’inserimento e il reinserimento lavorativo di persone con disabilità. Il veicolo, inoltre, potrebbe dar vita a startup tecnologiche per la produzione in serie. Inoltre, se messo a punto e opportunamente adattato per la mobilità urbana, potrebbe essere inserito nelle flotte dei car-sharing idonei alla conduzione da parte di persone disabili.
Pnrr, digitalizzazione e sostenibilità. Le sfide post-pandemia
News PresaLa missione “Salute” del PNRR rappresenta una sfida per il futuro del SSN. Di come cambia la sanità italiana, anche alla luce della prossima legge di bilancio, si è parlato all’undicesimo Healthcare Summit de Il Sole 24 Ore. Il dibattito è stato aperto dal Ministro della Salute Orazio Schillaci.
Nel suo intervento, il ministro ha affermato che, nonostante una situazione economica complicata dovuta alla post pandemia, alla guerra in Ucraina e alla crisi energetica, il Governo ha stanziato per la sanità 2,2 miliardi di euro in più rispetto a quanto previsto per il 2023, con una chiara inversione di tendenza rispetto al passato.
In merito al Pnrr, il ministro ha ricordato i 7 miliardi di euro di investimenti per la riorganizzazione della rete territoriale e la telemedicina destinati a costruire le infrastrutture. Dovranno, però, essere popolate di professionisti della sanità e di tecnologie in modo che i cittadini abbiano risposte concrete ai bisogni di salute.
Per quanto riguarda il personale, il ministro Schillaci ha ribadito di voler anticipare gli incentivi economici previsti per il personale del pronto soccorso. Dovrebbero partire dal 2024, nel quadro di uno sforzo generale mirato a retribuire meglio tutti gli operatori.
Il futuro, tra manovra e PNRR
L’intervento di Alberto De Negri, Partner KPMG, Head of Healthcare per l’Europa, relativo a “Digitalizzazione dei processi e innovazione dei modelli di servizio nella sanità” ha introdotto la tavola rotonda politico – istituzionale intitolata: “Tra manovra e PNRR: la vera sfida della sanità del futuro”.
Al dibattito hanno partecipato Massimiliano Boggetti, Presidente Confindustria Dispositivi Medici, Nino Cartabellotta, Presidente Fondazione Gimbe, Marcello Cattani, Presidente Farmindustria, Enrico Coscioni Presidente Agenas, Fiorenzo Corti, Vicesegretario nazionale FIMMG, Raffaele Donini, Assessore alle Politiche per la Salute Regione Emilia-Romagna, Fabio Torriglia, Vicepresidente Egualia, Barbara Mangiacavalli, Presidente FNOPI, Giovanni Migliore, Presidente Fiaso.
Nella tavola rotonda Marcello Cattani, presidente di Farmindustria ha affermato come sia necessaria una programmazione ed una visione strategica in grado di legare la salute alla filiera industriale. Dal punto di vista della governance, secondo Cattani va superato il meccanismo dei tetti, nato 15 anni fa e che genera un payback insostenibile per le aziende e per il quale si rende indispensabile una soluzione.
Anche Massimiliano Boggetti, presidente di Confindustria Dispositivi Medici ha criticato il sistema del Payback. In particolare, ha sottolineato la necessità di superare uno strumento che nasce dalla farmaceutica ma che è inapplicabile per i dispositivi medici.
Boggetti ha poi richiamato l’importanza dell’innovazione senza la quale le professioni mediche e sanitarie non possono esercitare la propria opera e sulla quale è necessario investire per sostenere la competitività. Inoltre, ha lanciato un allarme sulla questione delle materie prime il cui approvvigionamento può mettere a rischio molte aziende.
Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, ha richiamato l’attenzione sulla necessità di una coraggiosa riforma del sistema sanitario nazionale che dia piena attuazione all’ articolo 32 della Costituzione. Cartabellotta ha richiamato il sistema politico ad assumere decisioni coraggiose, coerenti e ragionevoli sulla sanità per preservare efficienza ed efficacia del sistema.
La trasformazione digitale
La missione 6 “Salute” del PNRR, la sfida della digitalizzazione e dell’innovazione tecnologica per conciliare efficienza ed efficacia del SSN sono state affrontare da Andrea Celli, Amministratore Delegato Philips Italia e Managing Director Philips Italia, Israele e Grecia nell’intervento “L’innovazione come leva di sviluppo per una Sanità 4.0”.
“La trasformazione digitale dell’ecosistema sanitario” è stato il titolo dell’intervento conclusivo di Elena Bottinelli, Head of Digital Transition and Transformation del Gruppo San Donato.
Celli ha ricordato l’importanza di spendere nel modo più efficace possibile i 20 miliardi che il PNRR destina all’innovazione del sistema sanitario nazionale. Si tratta dell 10% del valore complessivo, in uno scenario nazionale nel quale tra il 2030 e il 2035 più del 35% della popolazione sarà over 65. Celli ha inoltre ricordato le sfide che le aziende legate alla sanità devono fronteggiare, connesse in particolare all’inflazione, alla mancanza di materie prime e di componentistica elettronica e alle dinamiche geopolitiche. In relazione a questo, è fondamentale per Celli prorogare dal 30 giugno al 31 dicembre del prossimo anno la scadenza per l’installazione e il funzionamento delle infrastrutture e delle apparecchiature legate a sanità 4.0.
Per Elena Bottinelli è necessario inserire tutte le soluzioni digitali all’interno di un percorso completo del paziente, lavorando con un partner tecnologico per creare una piattaforma omnicanale e prevedendo una formazione adeguata per i pazienti.
Non è possibile, infatti, copiare quello che avviene nel mondo analogico e trasferirlo in digitale. Elena Bottinelli ha inoltre auspicato una revisione delle tariffe visto che una televisita ha lo stesso costo di una visita in presenza, nonostante i grandi investimenti necessari su ambiti quali la cybersecurity.
Sanità del futuro: ricerca, innovazione e accesso alle terapie tra i temi del convegno Mesit
Eventi d'interesse, Eventi PreSa-Mesit, News PresaRicerca scientifica, accesso alle terapie innovative e corretta informazione: sono alcuni dei temi che la Sanità italiana si trova ad affrontare. Il punto sulle sfide più urgenti, in vista del nuovo anno, è stato fatto al convegno “Salute e sanità: Le sfide per l’Italia nello scenario globale”. L’evento è stato promosso dalla Fondazione Mesit, e sostenuto dalle Università di Tor Vergata, di Roma Tre e da Crispel.
La pandemia ha fatto emergere molte criticità. Una delle riforme più urgenti riguarda “l’accesso a innovazioni terapeutiche che sono in grado di modificare la prognosi e la cura di molte malattie: dai tumori alla sclerosi multipla – sottolinea Marco Trabucco Aurilio, presidente della Fondazione Mesit. Tuttavia, “in Italia il primo ostacolo dei cittadini ad accedervi è la burocrazia, che non è al passo con l’innovazione”.
Sanità: disuguaglianze territoriali e liste d’attesa
Le risorse per la sanità, anche in vista degli investimenti futuri che verranno introdotti con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, sottolinea Francesco Saverio Mennini, presidente Società Italiana Health Technology Assessment (Sitha),”vanno adeguate al fabbisogno”.Oggi “non sono sufficienti a risolvere problemi che spesso hanno radici lontane”. Una delle difficoltà è l’accesso alle cure che varia da regione a regione, anche per quelle oncologiche.
“La conseguenza del ritardo all’accesso a terapie e a prestazioni sanitarie – precisa Mennini – è che i cittadini sono spesso costretti a migrazioni regionali per poter esercitare un diritto riconosciuto dalla Costituzione”. Un fenomeno che si verifica soprattutto dal Sud verso il Nord del Paese.
Le sfide da affrontare nel post pandemia sono tante, ribadisce Guerino Massimo Oscar Fares, professore di diritto della Salute all’Università degli Studi di Roma Tre. Tra cui: “il mancato accesso alle innovazioni in modo uguale da parte di tutti i cittadini, le liste d’attesa cresciute ulteriormente con l’emergenza Covid”. Inoltre, resta “il problema della carenza di personale sanitario nella sanità pubblica. E ancora la lotta all’antibiotico resistenza”. Per vincere le sfide, “è necessario aumentare il finanziamento della sanità e portarlo ai livello di altri grandi paesi europei”.
Italia leader nel settore farmaceutico
L’Italia è leader nella produzione di farmaci davanti alla Germania. Tuttavia, per mantenere il primato, il nostro Paese deve superare alcune problematiche. “L’aumento del costo delle materie prime e dei prezzi dell’energia sta costituendo un freno. Soprattutto vanno superate alcune misure che regolano la spesa farmaceutica pubblica, come il payback che penalizza fortemente la competitività del settore rispetto all’industria europea”, sottolinea Marcello Cattani, presidente di Farmindustria.
Recepire il regolamento europeo sui trial clinici “è ormai un’urgenza, considerando che gli studi clinici sono un beneficio economico per il Servizio Sanitario nazionale e un beneficio concreto per i cittadini che diventano destinatari del frutto della ricerca scientifica”.
Le aziende farmaceutiche sono driver di produzione e spingono l’export italiano, come confermano i dati Istat. Tuttavia, precisa Cattani, “manca una visione strategica e politica per avere voce in Europa. Senza un salto culturale di visione strategica del settore farmaceutico saremo sempre sfavoriti rispetto a altri Paesi che credono nell’innovazione”.
Per supportare l’innovazione scientifica è essenziale “superare i limiti imposti spesso dalla burocrazia” ma anche “investire in salute uscendo dallo schema della singola legge di bilancio, legata a una programmazione a corto raggio, e invece programmare già ora per i prossimi anni”.
Il nostro Paese, spiega Guido Rasi, già direttore dell’Agenzia europea dei medicinali e dell’Agenzia italiana del farmaco, “sconta la mancata approvazione del regolamento europeo sulle sperimentazioni cliniche, ormai diventata cogente perché ostacola la nostra partecipazione a ricerche scientifiche internazionali”.
Sanità digitale
L’utilizzo dei dati è tra i punti centrali della Sanità del futuro. “La medicina digitale significa molte cose, come telemedicina, farmaci digitali, algoritmi curativi – spiega Andrea Grignolio, docente di Storia della Medicina e Bioetica all’ospedale Vita e Salute San Raffaele di Milano . “La sua implementazione è facilitata dal Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, ma è possibile solo se nella popolazione c’è informazione”. Infatti, “se manca l’alfabetizzazione sanitaria e scientifica, le innovazioni non riescono a prendere e diminuisce anche l’aderenza alle terapie prescritte dal medico”.
Covid-19: è l’età il primo fattore che determina il rischio mortalità
CovidUno studio ha individuato i fattori di rischio associati alla mortalità per Covid-19. Lo hanno realizzato i ricercatori dell’Istituto di tecnologie biomediche del Cnr di Segrate e dell’Unità di Epidemiologia genetica e farmacogenomica della Fondazione Irccs Istituto nazionale dei tumori di Milano. I risultati sono stati pubblicati su “Scientific Reports“, rivista scientifica del gruppo “Nature”.
Si tratta del primo studio pubblicato su tutta la casistica nazionale, messa a disposizione dall’Istituto superiore di sanità. I ricercatori hanno preso in considerazione più di 415 mila i pazienti ricoverati per Covid-19 e più di 127 mila soggetti deceduti. Per i pazienti per i quali erano disponibili età, sesso e data di rilevamento dell’infezione, è stato determinato l’impatto di queste variabili sulla probabilità di sopravvivenza, 30 giorni dopo la data della diagnosi o del ricovero.
Cosa incide sul rischio di mortalità per Covid-19
Dall’analisi degli oltre 4 milioni di pazienti positivi al virus, della casistica italiana, diagnosticati tra gennaio 2020 e luglio 2021, è emerso come ciascuna delle variabili abbia influito in modo indipendente. In particolare, l’età è risultata essere il principale fattore di rischio di morte per Covid-19.
Nei gruppi di età superiore a 65 anni rispetto a un gruppo di riferimento di 15-44 anni, il rischio è risultato addirittura superiore di cento volte. Un dato che conferma quanto proteggere gli anziani sia una priorità nella gestione della pandemia.
Inoltre, si è osservato un rischio di morte due volte superiore negli uomini rispetto alle donne. Infine, i pazienti infettati dopo la prima ondata pandemica (cioè dopo il 30 giugno 2020) hanno mostrato un rischio di morte circa 3 volte inferiore a quello dei casi durante la prima ondata.
La ricerca in futuro
“Questo risultato – dichiara Francesca Colombo, ricercatrice dell’Istituto di tecnologie biomediche del Cnr e coordinatrice dello studio – conferma e amplia i risultati di studi precedenti, condotti su casistiche di piccole dimensioni.
Tuttavia la mancata disponibilità di altre informazioni cliniche, come ad esempio le co-morbidità dei pazienti o il tipo di trattamento, non ci hanno consentito di valutare l’effetto di altre variabili – oltre all’età, il sesso e il periodo di infezione – sulla sopravvivenza dei pazienti Covid-19. Ciò ha limitato la possibilità di individuare le categorie più a rischio di morte in seguito alla infezione da parte del coronavirus SARS-CoV-2, nella popolazione italiana”.
“I risultati che abbiamo pubblicato evidenziano la necessità e l’urgenza di implementare un database nazionale per la raccolta delle informazioni cliniche e del decorso delle malattie comuni, in particolare di quelle trasmissibili, ma non solo.
Un database nazionale, affiancato da una biobanca, come quelle che altri paesi hanno già implementato, costituirebbero un forte sostegno alla ricerca scientifica e uno strumento in più per il sistema sanitario e la salute pubblica”, afferma Tommaso A. Dragani, già responsabile della s.s.d. Epidemiologia genetica e farmacogenomica dell’Istituto nazionale dei tumori.
HIV: 3 nuovi casi ogni 100 mila residenti. Molte diagnosi tardive
News PresaNel 2021, le nuove diagnosi di infezione da HIV sono state 1770 in Italia. Si tratta di tre nuovi casi per 100 mila residenti. Un’incidenza che pone il nostro Paese al di sotto della media dell’Unione Europea (4,3 nuovi casi per 100.000).
L’infezione risulta più diffusa tra i maschi, nella fascia di età 30-39 anni ed è attribuibile per oltre l’80% dei casi ai rapporti sessuali. Ancora in troppi (63%) scoprono l’infezione in fase avanzata.
Il quadro viene fuori dall’aggiornamento della sorveglianza nazionale delle nuove diagnosi di infezione da HIV e dei casi di AIDS al 31 dicembre 2021, curato dal Centro Operativo AIDS (COA) dell’ISS. Le persone che contraggono il virus HIV (sieropositive) non sono malate di AIDS, ma sono destinate a diventarlo, in assenza di cure adeguate.
HIV: i dati del 2021 in Italia
L’incidenza segue un trend in costante discesa. Dal 2012, infatti (da quando la sorveglianza ha copertura nazionale), le nuove diagnosi di HIV sono diminuite in maniera costante, soprattutto dal 2018, con un declino ulteriore negli ultimi due anni. Il dato riguarda tutte le modalità di trasmissione. Tuttavia, i dati dal 2020 e al 2021 hanno risentito dell’emergenza Covid-19 che potrebbe aver comportato una sottodiagnosi e/o una sottonotifica.
Le fasce di età e i canali più a rischio in Italia
L’incidenza più elevata di nuove diagnosi HIV interessa la fascia di età 30-39 anni ((7,3 nuovi casi ogni 100.000 residenti). Segue la fascia 25-29 anni (6,6 nuovi casi ogni 100.000 residenti). In queste fasce di età l’incidenza nei maschi è 3-4 volte superiore a quelle nelle femmine. In generale, i maschi sono il 79,5% dei nuovi casi. L’età media: 42 anni per gli uomini e 41 per le donne.
Il numero più elevato di diagnosi è attribuibile alla trasmissione sessuale(83,5%). Gli eterosessuali sono il 44% (tra essi i maschi eterosessuali sono il 27,2% e le femmine eterosessuali il 16,8%), i maschi che fanno sesso con maschi il 39,5%. Infine, la modalità di trasmissione riguarda l’uso di sostanze stupefacenti nel 4,2% dei casi.
Dal 2017 si osserva una diminuzione del numero di nuove diagnosi HIV in stranieri, sia maschi che femmine. Nel 2021, gli stranieri costituiscono il 29,2% di tutte le segnalazioni, la proporzione rimane stabile nel tempo con valori intorno al 30%.
Diagnosi HIV tardive
Dal 2015 aumenta la quota di persone a cui viene diagnosticata tardivamente l’infezione da HIV (con bassi CD4 o in AIDS). Nel 2021, 3/4 dei maschi eterosessuali (75,9%) e circa 2/3 delle femmine (62,4%) sono stati diagnosticati con CD4<350 cell/µL.
Oltre 1/3 delle persone con nuova diagnosi scopre di essere HIV positivo a causa della presenza di sintomi o patologie correlate all’HIV(39,8%). Altri motivi per fare il test sono stati: rapporti sessuali senza preservativo(16,6%), comportamenti a rischio non specificati (9,4%), accertamenti per altra patologia (6,9%), iniziative di screening/campagne informative (6,2%).
Per quanto riguarda le regioni, le incidenze più alte sono state registrate in Lazio, Valle d’ Aosta, Toscana, Emilia Romagna.
I casi di AIDS conclamato
Dall’inizio dell’epidemia (1982) a oggi sono stati segnalati 72.034 casi di AIDS, di cui 46.874 deceduti entro il 2019. Nel 2021 sono stati diagnosticati 382 nuovi casi di AIDS pari a un’incidenza di 0,6 nuovi casi per 100.000 residenti.
L’incidenza di AIDS è in costante diminuzione. Il numero di decessi in persone con AIDS rimane stabile ed è pari a poco più di 500 casi l’anno.
La proporzione di persone con nuova diagnosi di AIDS che ignorava la propria sieropositività e ha scoperto di essere HIV positiva nel semestre precedente la diagnosi di AIDS è aumentata nel 2021 (83%) rispetto al 2020 (80,8%).
È diminuita nel tempo la proporzione di persone che alla diagnosi di AIDS presentava un’infezione fungina, mentre è aumentata la quota di persone con un’infezione virale e quella con tumori.
Nel 2021, il 76,4% delle persone diagnosticate con AIDS non aveva ricevuto una terapia antiretrovirale prima della diagnosi di AIDS.
Nel mondo infezioni in aumento. Il commento di Giovanni Maga (CNR)
“Dalla prima descrizione della malattia e dall’individuazione del virus responsabile avvenuta a metà degli anni ‘80 del secolo scorso, ancora oggi non possiamo dichiarare questa pandemia sconfitta”. Lo sottolinea il direttore dell’Istituto di genetica molecolare (Igm) del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia, Giovanni Maga.
L’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’HIV e l’AIDS (UNAIDS) riporta, infatti, che le nuove infezioni da HIV sono globalmente in aumento. Nel 2021 si sono registrati 1,5 milioni di nuovi casi e 640.000 decessi. “La mortalità – continua – è in diminuzione grazie al fatto che abbiamo una terapia salvavita, ma al costo di dover assumere farmaci tutta la vita, e con la difficoltà di rendere accessibili queste cure alle popolazioni più indigenti. Il virus non risparmia i giovanissimi: 2,7 milioni di persone sotto i 19 anni oggi hanno il virus. Nel 2021 si sono avuti oltre 300.000 nuovi contagi in questa fascia di età.
In Italia il dato positivo è che nel 2021 sono diminuiti i casi di infezione notificati dal SSN: 1770 nuove diagnosi, che comunque ci dicono che in media ogni giorno 5 persone si infettano con HIV. Un numero largamente sottostimato, dato che il 63% delle diagnosi avviene quando si manifestano i primi sintomi della immunodeficienza, ovvero in pazienti prossimi a sviluppare l’AIDS.
Si tratta cioè di persone contagiate anni prima, che inconsapevolmente possono aver contribuito a diffondere l’infezione. Si stima che i casi di infezione ogni anno che non vengono rilevati siano diverse migliaia: per questo è fondamentale scoprire subito se siamo stati contagiati, grazie ai semplici test gratuiti e anonimi oggi disponibili.
Rapporti sessuali maggior veicolo di contagio nel mondo
“I rapporti sessuali – continua il direttore – rimangono il maggior veicolo di contagio: 83,5% dei casi segnalati, con una leggera prevalenza nei rapporti eterosessuali (44%) rispetto a quelli tra persone dello stesso sesso (39,5%). La fascia maggiormente colpita è quella dei giovani adulti: 25-40 anni, a riprova di una generale sottostima del rischio ed una percezione diffusa e sbagliata che l’AIDS non sia più un problema. Per questo l’informazione è fondamentale, fin dall’adolescenza.
Lo strumento più semplice ed efficace per proteggersi da HIV, così come da tutte le malattie sessualmente trasmissibili, è il preservativo: usarlo è una forma di protezione e rispetto per noi e per i nostri partner. Purtroppo, le statistiche ci dicono che meno di un giovane su due usa regolarmente il preservativo: questo, unito ad un sempre più precoce esordio della vita sessuale nei giovani, costituisce terreno fertile per la continua circolazione del virus.
“Non uno stigma, ma condizione medica”
“Essere positivi ad HIV – conclude Maga – non è uno stigma o motivo di vergogna. È una condizione medica al pari di altre infezioni virali. La differenza è che si tratta di una infezione potenzialmente letale se non viene controllata con la terapia. HIV rappresenta un rischio per tutti, uomini e donne, indipendentemente dai propri orientamenti sessuali. E solo tutti insieme lo possiamo sconfiggere. La scienza offrendo terapie sempre più efficaci e, forse presto, un vaccino. Le istituzioni attivando reti di sorveglianza e di assistenza e promuovendo l’informazione a tutti i livelli. I cittadini, rimanendo consapevoli dei rischi e adottando i comportamenti corretti per ridurli”.