Tempo di lettura: 2 minutiA 20 anni esatti dalla legge che sancì i primi divieti per il fumo, potrebbe arrivare in Italia un’altra svolta importante per la salute pubblica. Ad annunciarlo è il ministro della Salute Orazio Schillaci che potrebbe legare il suo nome a un “aggiornamento”, come lo ha definito lo stesso ministro ieri alla Camera. In particolare, prevede di introdurre regole più stringenti e soprattutto equiparare alle sigarette tradizionali quelle elettroniche e a tabacco riscaldato.
Il punto di arrivo lo ha fissato il Piano europeo contro il cancro, che invita i Paesi a lavorare affinché nel 2040 fumi meno del 5% della popolazione. L’obiettivo è arrivare a una “generazione libera dal tabacco”.
I rischi del fumo
“Vista la preoccupante diffusione di stili di vita non salutari”, ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci in audizione in Commissione Affari sociali della Camera, “intendo affrontare il contrasto del tabagismo, che è tuttora la principale causa di morbosità e mortalità prevenibile in Italia” per “conseguire l’obiettivo del Piano Europeo contro il Cancro 2021 di creare una ‘generazione libera dal tabacco’ entro il 2040”. Le misure dovranno tenere conto “della crescente diffusione di nuovi prodotti, come sigarette elettroniche e prodotti del tabacco senza combustione, e delle sempre più numerose evidenze sui possibili effetti dannosi per la salute”.
Infatti, “il fumo non è responsabile del solo tumore del polmone, ma è anche il principale fattore di rischio per le malattie respiratorie e cardiovascolari” ricorda l’Istituto superiore di sanità (Iss). Al punto che, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), entro il 2030 il fumo provocherà 8 milioni di morti l’anno nel mondo.
La stretta
Schillaci ha annunciato le ipotesi: “intendo proporre l’aggiornamento e l’ampliamento della legge 3/2003 per estendere il divieto di fumo in altri luoghi all’aperto in presenza di minori e donne in gravidanza; eliminare la possibilità di attrezzare sale fumatori in locali chiusi; estendere il divieto anche alle emissioni dei nuovi prodotti come sigarette elettroniche e prodotti del tabacco riscaldato; estendere il divieto di pubblicità ai nuovi prodotti con nicotina“. Inoltre “è necessario e strategico” anche “il recepimento entro il 23 luglio 2023 della direttiva della Commissione Europea sull’eliminazione di alcune esenzioni che riguardano i prodotti del tabacco riscaldato”, per “consentirne l’entrata in vigore dal 23 ottobre 2023”.
L’intenzione del ministro, professore ordinario di Medicina Nucleare all’Università di Tor Vergata, è che “i molteplici interessi correlati ai prodotti del tabacco, che coinvolgono i Dicasteri economici, non prevalgano sulla tutela della salute”.
La legge Sirchia
Girolamo Sirchia, il 16 gennaio 2003, ottenne l’approvazione della legge che vietava per la prima volta in Italia il fumo nei luoghi pubblici. Dopo le polemiche iniziali, entrò in vigore il 10 gennaio 2005 e poi venne accolta con successo. In 10 anni, come certificato da Istat, portò alla riduzione dei ricoveri per infarto del 5% ogni anno e alla diminuzione del 25% delle vendite dei prodotti del tabacco.
Un altro passo in avanti nella lotta al tabagismo arrivò nel 2015, con il Decreto Legislativo che recepiva la Direttiva europea 2014/40. Nel pacchetto dell’allora ministro Beatrice Lorenzin, vi erano anche l’obbligo di foto dei danni da fumo sui pacchetti unito al Numero Verde per aiutare a smettere (800.554.088), il divieto di additivi che rendono più attrattivo il tabacco e l’abolizione dei pacchetti da 10.
Tuttavia ancora oggi il numero di fumatori resta alto. Nel 2022, secondo i dati Iss, quasi un italiano su 4 (il 24% della popolazione) era un fumatore, con un trend in ripresa dopo anni di calo. Nel frattempo, aumenta costantemente, soprattutto fra i giovanissimi, l’uso di sigarette a tabacco riscaldato: 3,3% del 2022 rispetto al 1,1% del 2019.
Dall’Endometriosi al Parkinson, quali sono le patologie più ricercate on-line del 2022
News PresaEndometriosi al Parkinson. Sia per il Covid, sia per una maggiore attenzione che ormai riguarda un po’ tutta la popolazione, il tema della salute è centrale nella vita degli Italiani. Sono in molti a sottoporsi regolarmente a controlli di routine e la parola “prevenzione” ha assunto un tono più familiare. Ma quali sono state le patologie più ricercate in rete nell’anno appena concluso? A dircelo è una ricerca della piattaforma MioDottore, che ha tracciato una classifica delle patologie che più ci hanno stressato e di quelle che, al contrario, sono state meno ricercate.
Endometriosi e Parkinson. IN SALITA E IN DISCESA
L’endometriosi resta la patologia più cercata, mentre la menopausa e l’acne preoccupano sempre meno. Anche nel 2022 ad aprire la graduatoria delle 30 malattie più cercate sono l’endometriosi, capofila per il terzo anno consecutivo, e la fibromialgia, che conferma il 2° posto ottenuto nel 2021. Al contrario, si osservano cambiamenti sul gradino più basso del podio: l’acufene guadagna ben otto posizioni in soli dodici mesi, divenendo il 3° disturbo più cliccato e scalzando l’acne, che scivola al 27° posto. Ma l’acne non è la sola patologia a destare meno curiosità: infatti, per la prima volta negli ultimi cinque anni, la menopausa abbandona la parte alta della classifica. Dopo aver mantenuto dal 2017 al 2020 una presenza stabile nella top 3 dei termini medici più indagati, già nel 2021 questo momento fisiologico femminile si era fermato al 4° posto ed è proprio negli scorsi mesi che ha perso ulteriore terreno, finendo 16° in graduatoria. Ciò non significa che la sfera intimo-sessuale abbia smesso di generare domande nel Bel Paese, quanto che negli ultimi anni sono cambiati i dubbi a essa connessi. A diminuire non sono solo le ricerche che riguardano menopausa, ma anche quelle riferite all’ovaio policistico e alla cistite: dopo quattro anni queste due patologie sono uscite dalla top 30 lasciando spazio a infertilità (7°) e la vulvodinia (8°).
ORTOPEDIA E NEUROLOGIA
Le patologie più ricercate nel 2022 sono state quelle ortopediche (30%) e neurologiche (20%). Nello specifico, il 30% delle ricerche totali ha riguardato i disturbi relativi alla struttura scheletrica, con particolare attenzione alla colonna vertebrale. Oltre a patologie e fastidi che avevano già interessato lo Stivale negli anni passati – come ernia del disco (10°), mal di schiena (20°) e scoliosi (24°) – negli ultimi dodici mesi sono cresciute le ricerche relative a lesioni spinali (11°), cervicalgia (12°) e coxartrosi (13°), che entrano per la prima volta nel ranking. Ma nel 2022 è sensibilmente aumentato anche l’interesse verso le malattie connesse al sistema nervoso, che hanno rappresentato il 20% delle ricerche totali effettuate nel 2022. A destare la curiosità degli italiani sono state soprattutto Alzheimer (14°), cefalea (18°), epilessia (19°) e Parkinson (30°), ma anche possibili sintomi quali le vertigini (29°). Diversamente, l’ambito dermatologico sembra suscitare meno apprensione: sebbene si cerchi ancora qualche spiegazione su come trattare il lipoma (23°) e l’acne (27°), sono usciti dalla top 30 disturbi come alopecia, verruche e psoriasi.
I rischi del fumo. Fumo, verso divieti per e-cig al chiuso e sigarette all’aperto
Benessere, One health, Prevenzione, Stili di vitaA 20 anni esatti dalla legge che sancì i primi divieti per il fumo, potrebbe arrivare in Italia un’altra svolta importante per la salute pubblica. Ad annunciarlo è il ministro della Salute Orazio Schillaci che potrebbe legare il suo nome a un “aggiornamento”, come lo ha definito lo stesso ministro ieri alla Camera. In particolare, prevede di introdurre regole più stringenti e soprattutto equiparare alle sigarette tradizionali quelle elettroniche e a tabacco riscaldato.
Il punto di arrivo lo ha fissato il Piano europeo contro il cancro, che invita i Paesi a lavorare affinché nel 2040 fumi meno del 5% della popolazione. L’obiettivo è arrivare a una “generazione libera dal tabacco”.
I rischi del fumo
“Vista la preoccupante diffusione di stili di vita non salutari”, ha detto il ministro della Salute Orazio Schillaci in audizione in Commissione Affari sociali della Camera, “intendo affrontare il contrasto del tabagismo, che è tuttora la principale causa di morbosità e mortalità prevenibile in Italia” per “conseguire l’obiettivo del Piano Europeo contro il Cancro 2021 di creare una ‘generazione libera dal tabacco’ entro il 2040”. Le misure dovranno tenere conto “della crescente diffusione di nuovi prodotti, come sigarette elettroniche e prodotti del tabacco senza combustione, e delle sempre più numerose evidenze sui possibili effetti dannosi per la salute”.
Infatti, “il fumo non è responsabile del solo tumore del polmone, ma è anche il principale fattore di rischio per le malattie respiratorie e cardiovascolari” ricorda l’Istituto superiore di sanità (Iss). Al punto che, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità (Oms), entro il 2030 il fumo provocherà 8 milioni di morti l’anno nel mondo.
La stretta
Schillaci ha annunciato le ipotesi: “intendo proporre l’aggiornamento e l’ampliamento della legge 3/2003 per estendere il divieto di fumo in altri luoghi all’aperto in presenza di minori e donne in gravidanza; eliminare la possibilità di attrezzare sale fumatori in locali chiusi; estendere il divieto anche alle emissioni dei nuovi prodotti come sigarette elettroniche e prodotti del tabacco riscaldato; estendere il divieto di pubblicità ai nuovi prodotti con nicotina“. Inoltre “è necessario e strategico” anche “il recepimento entro il 23 luglio 2023 della direttiva della Commissione Europea sull’eliminazione di alcune esenzioni che riguardano i prodotti del tabacco riscaldato”, per “consentirne l’entrata in vigore dal 23 ottobre 2023”.
L’intenzione del ministro, professore ordinario di Medicina Nucleare all’Università di Tor Vergata, è che “i molteplici interessi correlati ai prodotti del tabacco, che coinvolgono i Dicasteri economici, non prevalgano sulla tutela della salute”.
La legge Sirchia
Girolamo Sirchia, il 16 gennaio 2003, ottenne l’approvazione della legge che vietava per la prima volta in Italia il fumo nei luoghi pubblici. Dopo le polemiche iniziali, entrò in vigore il 10 gennaio 2005 e poi venne accolta con successo. In 10 anni, come certificato da Istat, portò alla riduzione dei ricoveri per infarto del 5% ogni anno e alla diminuzione del 25% delle vendite dei prodotti del tabacco.
Un altro passo in avanti nella lotta al tabagismo arrivò nel 2015, con il Decreto Legislativo che recepiva la Direttiva europea 2014/40. Nel pacchetto dell’allora ministro Beatrice Lorenzin, vi erano anche l’obbligo di foto dei danni da fumo sui pacchetti unito al Numero Verde per aiutare a smettere (800.554.088), il divieto di additivi che rendono più attrattivo il tabacco e l’abolizione dei pacchetti da 10.
Tuttavia ancora oggi il numero di fumatori resta alto. Nel 2022, secondo i dati Iss, quasi un italiano su 4 (il 24% della popolazione) era un fumatore, con un trend in ripresa dopo anni di calo. Nel frattempo, aumenta costantemente, soprattutto fra i giovanissimi, l’uso di sigarette a tabacco riscaldato: 3,3% del 2022 rispetto al 1,1% del 2019.
Digiuno, come modifica il cervello e influenza l’orologio biologico
Alimentazione, Benessere, Stili di vitaNon mangiare a lungo modifica il cervello. Il digiuno, infatti, è un potente regolatore dei livelli di espressione genica nel sistema nervoso centrale. Lo dimostra uno studio pubblicato sulla rivista Cellular and Molecular Life Sciences, e coordinato dall’Università di Pisa. Questa ricerca apre nuovi scenari nell’utilizzo della nutrizione o dei supplementi alimentari come strategie per il trattamento di disturbi del neurosviluppo o neuropsichiatrici.
Come cambia il cervello con il digiuno
Negli ultimi anni si parla molto degli effetti del digiuno. Sebbene spesso lo si metta in pratichi per moda, sono noti alcuni effetti positivi sulla longevità. Tuttavia, gli studi precedenti non avevamo spiegato cosa accade alle cellule del cervello a seguito di uno scarso apporto di cibo. Lo studio dell’Ateneo pisano rivela che l’assenza di cibo provoca alterazioni nell’espressione genica della corteccia cerebrale, andando a influire in particolare sull’orologio biologico. Lo studio è stato coordinato da Paola Tognini, ricercatrice del dipartimento di Ricerca traslazionale dell’Università di Pisa (Unità di Fisiologia).
I risultati della ricerca sono frutto di una collaborazione tra Università di Pisa, University of California Irvine (Stati Uniti), Scuola Normale Superiore di Pisa, Istituto di Neuroscienze e Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifc) e Irccs Fondazione Stella Maris. Il team di ricercatori ha dimostrato come il beta-idrossibutirrato, prodotto dall’organismo umano durante il digiuno, abbia la capacità di alterare la cromatina e l’espressione genica nella corteccia cerebrale.
Come agisce sull’orologio biologico
Attraverso tecniche di spettrometria di massa ad alta risoluzione sono state misurate le concentrazioni di beta-idrossibutirrato nel fegato dove viene principalmente prodotto, nel plasma (dove viene rilasciato) e nel cervello. Emerge come le cellule cerebrali lo sfruttino anche come donatore chimico, causando alterazioni nella struttura di proteine, in particolare quelle che si trovano nel nucleo delle cellule e che sono in contatto con il Dna. Ciò provoca: “drammatici cambiamenti nell’espressione genica del cervello, a cominciare dall’orologio circadiano, che regola i processi biologici in sincronia con l’alternanza del giorno e della notte lungo le 24 ore”.
I ricercatori hanno osservato che i principali cambiamenti nell’espressione dei geni riguardano l’orologio circadiano. Si tratta del sistema che regola i processi biologici in sincronia con l’alternanza del giorno e della notte lungo le 24 ore. “I nostri esperimenti hanno dimostrato che non solo i livelli dei geni dell’orologio erano alterati – evidenzia Sara Cornuti, dottoranda della Normale di Pisa e prima autrice dell’articolo – ma anche che l’attività locomotoria subisce dei cambiamenti. Inoltre queste variazioni di ritmo si mantengono anche dopo la reintroduzione del cibo, suggerendo l’esistenza di una traccia di memoria nei circuiti implicati nel controllo di tali ritmi.
Pronto soccorso sotto pressione? Durante la partita stanno tutti bene.
News Presa«Devo immaginare che tutti i medici di famiglia presenti a Napoli non siano appassionati di calcio, o magari tifino per altre squadre». È una battuta, ma a pensarci non può far sorridere, quella con la quale il segretario generale Fimmg Silvestro Scotti rispedisce al mittente le accuse rivolte alla medicina di famiglia. Scotti, che per anni si è dedicato alla continuità assistenziale, e lo ha fatto proprio nell’area a ridosso dell’allora stadio San Paolo (oggi Diego Armando Maradona), commenta un dato che lascia almeno perplessi: durante le partite del Napoli gli accessi di pronto soccorso crollano. È sempre successo ed è stato addirittura eclatante durante l’ultima super sfida tra Napoli e Juventus, fa notare il leader Fimmg a pochi giorni dalle festività per l’Epifania. Periodo durante il quale alcuni hanno collegato l’iperafflusso ai pronto soccorso a carenze della medicina territoriale.
FALSE EMERGENZE
«Se la responsabilità della pressione sui pronto soccorso dipendesse da una mancata risposta della medicina generale, e nel corso delle partite del Napoli i pronto soccorso ricevono pochissime emergenze, le ipotesi sono due: o i medici di famiglia diventano iperattivi nel corso delle partite, vedi mai che siano tutti non tifosi o disinteressati dal Napoli SSC, o le ragioni sarebbero da cercare altrove». Per Scotti, non ha senso ragionare sul primato di una sola branca della medicina, nell’ambito di un sistema sanitario nazionale che «funziona solo se tutte le diverse aree collaborano nell’interesse del paziente». Guardando ai dati, anche a quelli di accesso alle prestazioni di continuità assistenziale, è storicamente dimostrato che durante le partite a Napoli scompaiono tutte le richieste di assistenza. A prescindere che ci si trovi o meno in periodo di picco influenzale.
ESCAMOTAGE
Il problema della pressione sui pronto soccorso è, forse, più legato all’abitudini di alcuni cittadini di bypassare i normali step assistenziali per fare prima e per risparmiare su ticket. I dati lo dimostrano, basta guardare non solo il numero di accessi, ma anche le prestazioni che seguono l’accesso (consulenze specialistiche, diagnostica e così via). «Sia chiaro – prosegue Scotti – che non si deve mai banalizzare il tema dell’assistenza ai pazienti, molti dei quali soffrono per carenze ataviche del Servizio sanitario nazionale, che si stanno amplificando nell’epoca post-Covid per scelte economiche nazionali nei riparti regionali che nei decenni sono state molto penalizzanti per il Sud. In questo senso, la medicina di famiglia si è sempre battuta per garantire il rispetto dei LEA ed è tra le branche che più ha pagato il prezzo della pandemia. Fatta questa premessa, non possiamo ignorare il principio del rasoio di Occam. Vale a dire che, a parità di tutte le altre condizioni, è sempre da preferire la spiegazione più semplice. Quindi, se durante le partite del Napoli le emergenze da pronto soccorso crollano a parità di periodo e di condizioni epidemiologiche, evidentemente molti di quegli accessi non sono propriamente indifferibili è certamente non sono responsabilità della Medicina Generale».
PIÙ RISORSE
Per Scotti serve dunque una riflessione seria su come intervenire, partendo da un’analisi reale delle cause. «Colpevolizzare questa o quell’area della medicina non ha senso», dice. «L’unico interesse della medicina generale è quello di garantire un’assistenza di prossimità e una corretta gestione delle cronicità per evitarne complicazioni e scompenso. Noi attendiamo ancora gli strumenti che ci consentirebbero di attrezzare i nostri studi di tutte le tecnologie per attuare un’efficace diagnostica di primo livello, insieme a investimenti per il personale. Questo sì che consentirebbe alla medicina di famiglia di ridurre ancor più il carico dei pronto soccorso, abbattendo gli accessi impropri. Altrimenti, per poter rispondere a chi ci scarica addosso la responsabilità degli accessi impropri in pronto soccorso, forse dovremmo trasmettere in loop la replica delle partite del Napoli nelle nostre sale d’attesa», conclude sarcastico il segretario generale Fimmg.
Sindrome di Rett: diagnosi precoce con l’intelligenza artificiale
Bambini, PediatriaGli algoritmi dell’intelligenza artificiale possono riconoscere i neonati a rischio di sviluppare la sindrome di Rett (RTT). Infatti, in base alla presenza di anomalie fenotipiche – anche vaghe e lievi – è possibile anticiparne la diagnosi. Inoltre, si possono definire i fattori che determinano la variabilità clinica, consentendo una gestione della patologia a misura del paziente. Sono questi gli obiettivi del progetto coordinato dall’Azienda ospedaliero-universitaria Senese (Aous) che ha ricevuto un finanziamento di 1 milione di euro, suddiviso tra i centri partecipanti.
Si tratta dell’Istituto Superiore di Sanità (col Centro di riferimento per le Scienze comportamentali e la Salute mentale), l’Istituto di scienze e tecnologie della cognizione del CNR e l’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico “Associazione oasi Maria SS. Onlus” di Troina. Il progetto, finanziato dall’Unione europea nell’ambito del bando Next Generation EU – PNRR M6C2, è arrivato primo (a pari merito con altri due) tra quelli sulle malattie rare.
La sindrome di Rett
La sindrome di Rett è un disturbo neurologico raro, ad oggi inguaribile. Colpisce circa una su 10/15.000 bambine a causa della comparsa di una mutazione spontanea nel gene MECP2. Le pazienti crescono e si sviluppano normalmente fino a 6-18 mesi, età in cui compaiono vari sintomi, tra cui disfunzioni respiratorie e cardiache, epilessia, difficoltà comunicative, intellettive, di deambulazione e nell’uso intenzionale delle mani.
“Quando i sintomi sono ormai manifesti, il quadro clinico viene confermato da un test genetico – spiega Bianca De Filippis, leader del gruppo ISS che partecipa allo studio. Ciò significa che la diagnosi viene raggiunta dopo i due anni di età nella maggior parte delle bambine, ritardando l’accesso alle poche opzioni terapeutiche di supporto disponibili. Pochissime informazioni sono state raccolte sullo sviluppo dei primissimi mesi di vita delle pazienti RTT. Le indicazioni che abbiamo ci danno tuttavia ragione di credere che esistano alterazioni precoci, seppur lievi, la cui caratterizzazione aiuterebbe ad anticipare i test genetici e ottenere una diagnosi precoce”.
Le cause di un quadro clinico variabile: una ipotesi
Una singola mutazione nel gene MECP2, situato sul cromosoma X, è la causa più comune della sindrome di Rett. Sebbene siano state descritte diverse tipologie di mutazioni, con effetti più o meno marcati sulla funzionalità dell’omonima proteina, non è stata ancora stabilita una chiara correlazione con la sintomatologia. Inoltre, le stesse mutazioni si riscontrano in pazienti con quadri clinici diversi. L’inattivazione del cromosoma X, un normale processo biologico che interessa tutti gli individui di sesso femminile, contribuisce probabilmente a questa variabilità, ma non è sufficiente a spiegarla completamente. Alcuni studi hanno proposto rare varianti in geni diversi da MECP2 come potenziali responsabili delle diverse manifestazioni cliniche, ma manca ancora una validazione approfondita di queste ipotesi. L’obiettivo del progetto è arrivare a fare luce su queste dinamiche.
Tumori, individuati più di mille marcatori per interventi mirati
Benessere, One health, PrevenzioneOltre mille marcatori sono in grado di individuare il tumore della prostata, del polmone e del colon e differenziare le forme più aggressive. Sono stati individuati dai ricercatori dell’Istituto Superiore di Sanità – del Dipartimento di Oncologia e Medicina Molecolare, Core Facilities e centro di Statistica. I risultati, ottenuti in collaborazione con i centri clinici sparsi sul territorio nazionale aprono a nuove possibilità di cura mirate. Lo studio è stato realizzato attraverso l’arruolamento di pazienti, nell’ambito del progetto BiliGect (Biopsie liquide per la gestione clinica dei tumori, finanziato dal MUR).
Désirée Bonci, il primo ricercatore dell’ISS che ha coordinato il gruppo di lavoro ha spiegato che negli studi precedenti, erano state isolate piccole vescicole (nanovescicole o esosomi). Quest’ultime vanivano rilasciate dai tumori nei liquidi biologici, in particolare nel circolo sanguigno. In questo progetto “abbiamo eseguito l’analisi del contenuto molecolare (proteine, frammenti di DNA e RNA) di queste nano-vescicole, che bene rappresentano il tessuto di origine, quindi le aberrazioni del tumore. Sono stati processati e analizzati oltre 900 campioni di esosomi, in pazienti con tumore della prostata, del polmone e del colon”.
Tumori: il progetto BiliGect per nuovi screening
L’indagine è parte integrante del progetto BiliGect, l’obiettivo è sviluppare nuovi strumenti molecolari funzionali alla biopsia liquida. Si tratta di un approccio non invasivo – spiega il ricercatore – eseguibile ripetutamente nel tempo senza effetti collaterali. Un semplice prelievo di sangue affianca i metodi clinici oggi usati, per migliorare gli screening, la sorveglianza e la scelta del piano terapeutico. A tal fine, “sono anche in corso analisi statistiche e studi per la messa a punto di algoritmi di “deep learning”. Lo scopo è disegnare carte di identità di ogni paziente, che integrino espressione di antigeni e dati clinici, utilizzabili in un approccio personalizzato e di medicina di precisione. Nel contempo, si stanno ottimizzando prototipi sperimentali”.
Ecco perché l’acqua è essenziale per vivere in salute
Benessere, News Presa, Stili di vitaLa quantità d’acqua che beviamo ogni giorno fa la differenza, nel bene o nel male, sulla nostra salute. Al di là di un generico “bere fa bene”, uno studio dei National Institutes of Health USA dimostra che una buona idratazione è essenziale per invecchiare bene, in salute, riduce il rischio di morte precoce. La ricerca, pubblicata su eBioMedicine di Lancet, dimostra che chi da adulto si idrata male o poco è più a rischio di diverse malattie, ad esempio cardiache, negli anni a venire.
SODIO
Ciò nonostante, circa la metà delle persone nel mondo non rispetta le raccomandazioni per l’assunzione giornaliera di acqua totale. Bisognerebbe bere almeno 6 bicchieri (1,5 litri), ma in pochi lo fanno. Utilizzando i dati sanitari raccolti da 11.255 adulti in un periodo di 30 anni, i ricercatori hanno analizzato i legami tra i livelli di sodio nel sangue – che aumentano quando l’assunzione di liquidi diminuisce – e vari indicatori di salute. Hanno scoperto che gli adulti con alti livelli di sodio avevano maggiori probabilità di sviluppare condizioni croniche e mostrare segni tangibili di invecchiamento avanzato rispetto a quelli con livelli di sodio nella fascia media.
INVECCHIAMENTO
Gli adulti con livelli più elevati avevano anche maggiori probabilità di morire in età più giovane. I ricercatori hanno valutato le informazioni che i partecipanti hanno condiviso durante cinque visite mediche – le prime due quando avevano 50 anni e l’ultima quando avevano tra i 70 e i 90 anni. Hanno quindi valutato la correlazione tra i livelli di sodio e l’invecchiamento biologico, valutato attraverso 15 marcatori di salute, fattori come la pressione del sangue, il colesterolo e la glicemia, che fornivano indicazioni sul funzionamento del sistema cardiovascolare, respiratorio, metabolico, renale e immunitario di ogni persona. Hanno scoperto che gli adulti con livelli più elevati di sodio nel sangue mostravano con maggiore probabilità segni di invecchiamento biologico più rapido e avevano un rischio dal 15 al 50% più alto di presentare una età biologica superiore a quella anagrafica.
MALATTIE CARDIACHE
Inoltre, presentavano un aumento del 21% del rischio di morte prematura rispetto a chi aveva quantità di sodio nella norma. Infine, avevano un rischio fino al 64% maggiore di sviluppare malattie croniche come l’insufficienza cardiaca, l’ictus, la fibrillazione atriale e le malattie delle arterie periferiche, oltre a malattie polmonari croniche, diabete e demenza. Al contrario, gli adulti con livelli più bassi di sodio nel sangue avevano il rischio più basso di malattie croniche.
Violenza sulle donne lascia cicatrici molecolari. Lo studio
PsicologiaLe donne che hanno subìto violenza hanno impresse vere e proprie cicatrici molecolari. Questa scoperta può aiutare la scienza a identificare strategie per prevenire gli effetti degli abusi, aumentare la resilienza e prevenire possibili malattie croniche nelle donne sopravvissute alle violenze.
Sono queste le principali indicazioni contenute nello studio pilota “Epigenetica per le donne”, Epigenetics for WomEn (EpiWE). Il lavoro è stato condotto in collaborazione con l’Università di Milano e pubblicato su Healthcare. I ricercatori hanno studiato alcuni marcatori epigenetici associati al PTSD nelle donne che sono sopravvissute alla violenza in ambito relazionale e/o sessuale. Lo stress post-traumatico (Post Traumatic Stress Disorder, PTSD), è una forma di disagio mentale che si sviluppa in seguito a esperienze fortemente traumatiche.
I segni molecolari della violenza: lo studio
I ricercatori hanno confrontato un campione di 62 donne che avevano subito violenze con uno di 50 che non l’aveva subite. I risultati mostrano come la violenza provochi l’ipermetilazione di tre geni legati al funzionamento della memoria, dell’apprendimento e della risposta allo stress. In particolare, la riduzione dell’espressione di questi geni è anche collegata alla manifestazione di almeno un sintomo del PTSD.
La violenza contro le donne è un problema di salute pubblica globale e una violazione dei diritti umani. Basta leggere i numeri per capire la portata del problema: il 31,5% delle donne, tra i 16 e i 70 anni, ha subìto nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale. Inoltre, la pandemia da SARS-CoV-2 ha reso la situazione ancora più drammatica. Tra le mura domestiche, mentre tutto il mondo era distratto dall’emergenza pandemica, aumentavano i casi di violenza sulle donne, facendo percepire ancora più difficile la via d’uscita.
Menopausa, terapia ormonale protegge dall’Alzheimer
PrevenzioneLa terapia ormonale sostitutiva per la menopausa può proteggere dall’Alzheimer le donne predisposte a sviluppare la patologia. La riduzione del rischio è stata rilevata da uno studio della University of East Anglia, pubblicato sulla rivista Alzheimer s Research & Therapy.
Menopausa e terapia ormonale
Il team di ricercatori ha osservato come il trattamento fosse più efficace se intrapreso fin dall’inizio, cioè durante la perimenopausa, la fase di passaggio prima di arrivare alla menopausa.
Lo studio si basa sui dati di 1.178 donne di 10 diversi Paesi. Le partecipanti hanno preso parte a un’iniziativa europea per la prevenzione della demenza di Alzheimer. Il progetto ha monitorato la salute cerebrale delle partecipanti nel tempo, registrando le diagnosi di demenza.
I risultati
Dai risultati emerge come l’uso della terapia ormonale sostitutiva sia legato a una migliore memoria, cognizione e maggiori volumi cerebrali in età avanzata tra le donne portatrici del gene APOE4. Quest’ultimo è il gene fattore di rischio più forte per l’Alzheimer.
In futuro servirà un nuovo studio di intervento per confermare l’impatto dell’inizio precoce della terapia ormonale sostitutiva sulla salute del cervello.
Editoria: Speciale Salute e Prevenzione di Gennaio
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazione, SpecialiIn edicola con Il Mattino lo speciale che il network editoriale PreSa dedica ai temi della salute e della prevenzione. Ad aprire lo speciale un approfondimento su una patologia poco nota, ma molto diffusa, l’esofagite eosinofila. Di grande interesse, poi, il focus sulla nuove terapie CAR-T per la lotta a patologie oncologiche che purtroppo, spesso, colpiscono i bambini. Tutto questo, e molto altro ancora, nello speciale che il network PreSa realizza in partnership con Il Mattino.
Clicca qui per leggere lo speciale