Tempo di lettura: 2 minutiUn’alterazione cromosomica è coinvolta nello sviluppo dell’osteosarcoma. Si tratta di un tumore delle ossa ancora poco curabile. Si manifesta quando manca o è alterata una piccola proteina chiamata Profilina 1. I risultati emergono da una ricerca sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, condotta all’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati-Traverso” del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igb) di Napoli. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Communications Biology
L’osteosarcoma
L’osteosarcoma è un tumore osseo ancora difficile da curare. Colpisce prevalentemente i bambini e gli adolescenti oppure può insorgere in età più avanzata, a circa 50 anni, in persone affette dalla malattia ossea di Paget. Si tratta di una patologia caratterizzata da una generazione di nuove cellule ossee più veloce del normale, con la conseguenza per i pazienti di avere ossa più fragili, dolore, deformità e fratture.
Tra i sintomi più comuni dell’osteosarcoma vi sono dolore all’osso colpito, gonfiore e tumefazione. Con il tempo la situazione in genere peggiora e possono comparire fratture a causa dell’alterata e indebolita struttura ossea. Tra le caratteristiche molecolari di questo tumore, per cui mancano ancora terapie efficaci, vi è una notevole instabilità genomica delle cellule mutate. L’individuazione delle cause di tale instabilità sono, dunque, una priorità per lo sviluppo di possibili nuovi trattamenti.
Il meccanismo cellulare implicato nell’osteosarcoma
“I risultati ottenuti hanno portato a identificare una piccola proteina che, quando è assente o alterata, non permette una corretta ripartizione dei cromosomi tra le due cellule figlie durante la divisione cellulare”, spiega Gianfrancesco. “Come conseguenza, le cellule che sono prodotte in tale divisione e in quelle successive presentano alterazioni cromosomiche tutte diverse tra loro. Questa vasta eterogeneità impedisce la messa a punto di terapie farmacologiche mirate a una specifica alterazione”. Esistono però altre strategie che si potrebbero tentare, facendo tesoro anche dei risultati ottenuti in precedenza.
“Mediante tecniche di sequenziamento di ultima generazione abbiamo identificato una mutazione genetica nel gene PFN1, responsabile di una forma molto severa della malattia ossea di Paget che determina anche l’insorgenza di osteosarcoma nelle ossa colpite”, evidenzia Federica Scotto di Carlo, ricercatrice postdoc del Cnr-Igb e prima autrice dell’articolo. Lo studio fa seguito a un importante risultato ottenuto 2 anni fa dallo stesso Istituto.
“Con lo studio attuale abbiamo espanso le nostre conoscenze circa la proteina prodotta dal gene PFN1, la Profilina 1, e abbiamo identificato il meccanismo alterato alla base del tumore. La Profilina 1 è essenziale per una corretta divisione cellulare. Mediante tecniche di imaging ad alta risoluzione, abbiamo verificato che la mancanza della Profilina 1 determina molteplici difetti mitotici, con perdita di frammenti cromosomici o di interi cromosomi nelle cellule figlie. Questi difetti nella mitosi, la divisione cellulare tipica delle cellule somatiche, si manifestano con cromosomi disallineati, ponti cromosomici e perdita di materiale genetico”.
Il futuro
Avere compreso questo meccanismo è importante perché si può tentare di sviluppare un approccio terapeutico basato sulla cosiddetta “letalità sintetica”. Si parla di letalità sintetica quando mutazioni in due geni diversi, insieme provocano la morte cellulare, ma non lo fanno singolarmente. “Utilizzando questo approccio, più che correggere il difetto genetico nel gene PFN1, vogliamo rendere ancora più vulnerabile la cellula cancerosa. Se la mancanza di Profilina 1 genera una cellula alterata, individuando e alterando un gene per una seconda proteina implicata, possiamo indurre nella cellula la cosiddetta morte cellulare programmata o apoptosi”, conclude Gianfrancesco.
In questo modo, sfruttando le differenze genetiche fra le cellule tumorali e le cellule sane, si potrebbero colpire in maniera mirata soltanto quelle malate, risparmiando le altre.
Diabete: tre mesi di digiuno intermettente per guarire
Alimentazione, Benessere, One healthIl diabete si può controllare a tavola, senza farmaci. Lo conferma un nuovo studio che si aggiunge ad altri precedenti. Secondo gli ultimi risultati, infatti, il digiuno intermittente dopo tre mesi può portare alla remissione completa della patologia. Nel mondo sono oltre 537 milioni gli adulti che soffrono di diabete.
Digiuno intermittente per guarire dal diabete
Le ricerche dimostrano che il digiuno intermittente può ridurre il rischio di diabete e di malattie cardiache. L’ultimo studio è stato pubblicato sul Journal of Clinical Endocrinology & Metabolism. Nel lavoro i ricercatori hanno coinvolto 36 persone con diabete per 3 mesi. Dai risultati emerge che quasi il 90% dei partecipanti, compresi quelli che assumevano farmaci per abbassare la glicemia e insulina, ha ridotto l’assunzione di farmaci per il diabete dopo aver praticato il digiuno intermittente. Per il 55% di queste persone la malattia è andata in remissione, consentendo di interrompere del tutto l’assunzione di farmaci. La piena guarigione è definita come un livello di emoglobina glicata (un parametro usato per stimare la glicemia media a lungo termine) inferiore al 6,5% almeno un anno dopo l’interruzione dei farmaci per il diabete.
In cosa consiste il digiuno intermittente
Il diabete di tipo 2 non è necessariamente una malattia cronica, che dura tutta la vita, hanno sottolineato i ricercatori. Perdere peso e modificare le abitudini alimentari e di esercizio può portare alla remissione completa. Il digiuno intermittente può essere una buona arma. Consiste nel mangiare solo durante una finestra di tempo molto rigida. In altre parole, significa digiunare per un certo numero di ore al giorno. In generale, consumare un solo pasto per un paio di giorni alla settimana può aiutare l’organismo a bruciare i grassi.
In Italia aumentano i disturbi legati alla sfera sessuale
PsicologiaSono sempre di più e sempre più gravi i problemi della sfera sessuale che nel nostro paese coinvolgono adulti e giovani. Per Claudia Spadazzi, psicoanalista, sessuologa e ginecologa «è forse giunto il momento di un approccio neuropsicoanalitico alla sessualità. Oggi assistiamo a nuove e complesse forme di sessualità e a crescenti richieste di terapia per le disfunzioni sessuali. Lo sviluppo della sessuologia e la possibilità della sua integrazione con la psicoanalisi e le neuroscienze apre nuove prospettive su questo argomento». Anche per questo, a Roma, i maggiori esperti si ritroveranno a discutere du questi temi in occasione della conferenza “Sex, Lies and Neuroscience”, organizzata dall’Associazione italiana e internazionale di psiconoanalisi e da Italian Psycoanalitic Dialogues.
I DATI
Stando agli ultimi dati disponibili, oltre ai disturbi legati alla sfera sessuale, sono in aumento anche le problematiche legate alla disforia di genere. Le donne, nelle quali vi è una maggiore consapevolezza sul tema, si rivolgono agli specialisti perché non riescono a raggiungere il piacere sessuale. Anche vulvodinia e vaginismo, legati al dolore durante il rapporto sessuale, sono in forte crescita. Nei ragazzi giovani, uomini e donne, è forte il tema dell’identità di genere, mentre negli uomini adulti i disturbi sono legati a disfunzioni erettili e a un piacere raggiunto troppo in fretta, un’ansia da prestazione che è specchio di quella sociale.
VIRTUALE
Una delle maggiori difficoltà legate al progresso delle tecnologie e all’inevitabile cambiamento nelle abitudini di tutti è l’immersione ormai costante in un mondo fatto di relazioni virtuali, mediate da tablet e cellulari, oltre che il venir meno di ogni forma di attesa per un desiderio. Un trend che, avvertono gli esperti, non potrà fare altro che peggiorare e per il quale occorrerà definire al più presto strategie efficaci.
Glutine, soltanto una persona su 100 deve eliminarlo davvero
AlimentazioneDal supermercato al ristorante, oggi gli alimenti senza glutine si possono trovare facilmente un po’ ovunque. I numeri, però, mostrano che le quantità consumate superano di gran lunga quelle che sarebbero realmente necessarie. Infatti, secondo i dati dell’Istituto superiore di sanità, in Italia è celiaca una persona ogni cento. Il glutine è una proteina contenuta in alcuni cereali come grano, segale e orzo. Solo le persone affette da celiachia necessitano di eliminarlo dalla dieta.
Infatti, le persone che hanno una vera e propria celiachia vedono aumentare il rischio di sviluppare un tumore all’apparato digerente. La motivazione è nell’intolleranza alla proteina che quindi fa sviluppare una reazione infiammatoria che passa solo se il glutine viene tolto dalla dieta.
Al contrario, i risultati di un recente studio mostrano che, per chi non è celiaco, il glutine non aumenta il rischio di sviluppare un tumore dell’apparato digerente. Quindi non c’è alcun motivo di eliminare il glutine senza avere la patologia. I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla rivista Clinical Gastroenterology and Hepatology.
Negli ultimi decenni il consumo di prodotti senza glutine è cresciuto rapidamente, poiché questi alimenti sono ritenuti più salutari, anche grazie a intense operazioni di marketing, sottolineano i ricercatori.
Lo studio sugli effetti del glutine
Per capire se il glutine influisce sul rischio di sviluppare un cancro delle persone sane, gli scienziati hanno analizzato i dati di oltre 200.000 individui non celiaci. Queste persone avevano partecipato a tre lunghi studi epidemiologici condotti negli Stati Uniti e iniziati negli anni Settanta e Ottanta. I ricercatori hanno quindi stimato il consumo, analizzando i tipi di alimenti consumati e concentrandosi nello specifico su prodotti come segale, grano, orzo, couscous e birra.
Nel corso dello studio sono stati registrati 6.231 casi di cancro all’apparato digerente (orofaringeo, dell’esofago, dello stomaco, dell’intestino tenue, del colon-retto, del pancreas, della cistifellea e del fegato). I risultati confermano che il consumo di glutine non influenza per nulla il rischio di ammalarsi. E i risultati non cambiano neanche quando si considerano separatamente le diverse fonti di glutine, quali cereali integrali o raffinati. Nell’analisi i ricercatori hanno tenuto conto anche di fattori di rischio diversi, tra cui l’indice di massa corporea, l’apporto energetico totale, la qualità della dieta e l’abitudine al fumo. In altre parole, assumere meno glutine per le persone non celiache non aiuta a prevenire il cancro.
Cos’è e come si affronta la sindrome delle gambe senza riposo
News PresaSe le notti passano insonni a causa di un costante fastidio alle gambe è possibile che si soffra della Sindrome delle gambe senza riposo. Di cosa si tratta? È un disturbo neurologico legato ai momenti di relax. Il fastidio che rende impossibile un riposo pieno e ristoratore si presenta infatti prima dell’addormentamento o al risveglio.
SINTOMI
Vista la particolarità di questo disturbo, una diagnosi arriva spesso dopo un colloquio con il medico. Difficile per il paziente spiegare la sensazione di fastidio che si prova, solitamente si tratta di irrequietezza, della necessità irrefrenabile di muovere in continuazione le gambe, ma anche prurito e formicolii. A causare questa sindrome sono spesso fattori ereditari. Ma la sindrome delle gambe senza riposo può essere anche causata da artrite reumatoide, celiachia, diabete, carenza di folati e di ferro, malattia di Lyme, malattie renali, Parkinson e uremia.
DIAGNOSI
Benché ancora non esista un test diagnostico specifico per rilevare con certezza assoluta la sindrome delle gambe senza riposo, esistono dei criteri diagnostici osservabili, comuni a tutti i pazienti colpiti. Talvolta il medico per scrupolo prescrive le analisi del sangue, per scartare altre possibili e sospettabili patologie concomitanti. Solo di rado, viene richiesto un test per la valutazione del sonno. Dunque, come agire? Il primo passo è sempre una visita del medico di famiglia, sarà lui ad indirizzare al meglio il paziente. Va detto che non esiste ancora una terapia risolutiva per la sindrome delle gambe senza riposo. Spesso sono prescritti ferro, vitamina B9 e B12. Molto utili possono essere esercizi di stretching, massaggi specifici e i bagni caldi. Di certo anche l’alimentazione può essere una valida alleata, meglio evitare alimenti o bevande contenenti caffeina (es. caffè, tè, cacao, cioccolato e bibite tipo cola) e certamente sono da evitare alcol e fumo di sigaretta, perché i loro effetti possono aggravare i sintomi.
Dona polmone al figlio di 5 anni, primo trapianto da vivente
Genitorialità, News Presa, PediatriaIl primo trapianto di polmone da vivente in Italia è stato eseguito all’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo. Il donatore è un uomo che ha deciso di dare parte di un polmone al figlio di 5 anni. Il bambino, affetto da talassemia, in passato aveva già ricevuto dal padre il midollo, proprio a causa di questa malattia.
Tuttavia, dopo la donazione precedente, si era scatenata la cosiddetta malattia da trapianto contro l’ospite. Quando si verifica, le cellule trapiantate attaccano gli organi del ricevente. In questo caso, il rigetto aveva causato al bambino un danno polmonare irreversibile. Entrambi, padre e figlio sono ora ricoverati in prognosi riservata all’ospedale di Bergamo, ma i medici sono fiduciosi.
Trapianto di polmone da vivente per la prima volta
L’utilizzo del lobo polmonare del padre, spiegano dal centro, è un importante vantaggio immunologico. I precedenti in Europa sono rarissimi e sporadici. I medici sottolineano che si tratta di un intervento estremamente complesso. Il centro ha infatti grande esperienza nel trapianto pediatrico e di polmone. “Occorre ancora molta cautela – sottolinea il direttore del Centro nazionale trapianti Massimo Cardillo – in attesa che venga sciolta la prognosi del piccolo ricevente e del suo donatore, ma tutto sta andando come era nelle aspettative”.
“Nonostante da 10 anni la legge italiana preveda la possibilità di donare in vita il lobo polmonare – continua – per questo primo tentativo è servita un’autorizzazione specifica da parte del Cnt. In ogni caso, trovo altamente simbolico che a realizzarlo sia stato il Centro trapianti della città simbolo della lotta al Covid, un vero e proprio ‘trapianto di respiro’ dopo un lungo periodo di emergenza per il Servizio sanitario e per tutto il Paese”.
Napoli, un gesto d’amore per il Congo
News PresaUna donazione del valore di 180.000 euro in favore del Congo. A realizzare questo gesto di grande altruismo è stato l’Ordine dei Farmacisti di Napoli, presieduto da Vincenzo Santagada, che ha disposto l’invio di un carico di farmaci all’Ospedale congolese Panzi diretto dal Premio Nobel per la Pace 2018, Denis Mukwege, simbolo internazionale della lotta contro la violenza sulle donne. I farmaci, donati dal popolo napoletano nell’ ambito dell’iniziativa “Un farmaco per tutti”, permetteranno a Mukwege di continuare il suo lavoro di assistenza socio-sanitaria alle donne vittime di violenza sessuale nella Repubblica democratica del Congo. Inoltre, è stato siglato anche un protocollo d’intesa per raggiungere a fine anno quota 500 mila euro di farmaci devoluti alla nazione africana.
NUOVA SFIDA
Il Console Angelo Melone si è detto «commosso per l’altruismo dei napoletani. Napoli si conferma ancora una volta capitale della solidarietà». Dopo i farmaci e presidi sanitari raccolti per l’Ucraina, per un valore di oltre un milione di euro, l’Ordine si è posto dunque un’altra grande sfida: aiutare il popolo congolese e i suoi medici e farmacisti che operano in grande emergenza. Come sottolineato proprio dai protagonisti di questa donazione, va così avanti una virtuosa catena umana di aiuto e solidarietà, che si alimenta non di buoni propositi ma di azioni concrete, che sono anche tempestive e monitorabili per risultati.
AL FIANCO DELLE DONNE
L’Ospedale Panzi opera nella regione del Sud-Kivu, nella città di Bukavu. Il direttore, Denis Mukwege, è conosciuto in tutto il mondo come il “medico che ripara le donne”, poiché ha dedicato la propria vita a soccorrere ed a curare le donne vittime della violenza che, nei decenni scorsi, ha insanguinato la RDC. Nel 2018 ha ricevuto il Premio Nobel per la Pace per “i suoi sforzi per mettere fine alle violenze sessuali nei conflitti armati e nelle guerre”.
Veganuary, la “sfida” globale che sta conquistando anche gli italiani
AlimentazioneAvete mai provato a mangiare vegano? Se la risposta è no, l’occasione di fare almeno una prova potrebbe arrivare proprio adesso. Approfittando di un movimento no profit che spopola anche sui social. Veganuary, il nome deriva dall’unione delle parole “vegetarian”o e “gennaio”, è una sorta di sfida globale che, già dal 2014, invita a provare un’alimentazione vegana per tutto il mese di gennaio. Approfittando proprio dell’esigenza di smaltire qualche chilo di troppo messo durante le festività.
TESTIMONIAL
Per cercare di invogliare quante più persone possibile, i creatori di questa sfida hanno coinvolto negli anni tanti testimolial d’eccezione, tra i quali Joaquin Phoenix, Billie Eilish, Famke Janssen, Chris Smalling, solo per citarne alcuni. La sfida è un po’ il pretesto per far conoscere questo tipo di alimentazione e dimostrare che vegano non significa privo di gusto. Anzi, molte ricette sono propongono alimenti che già conosciamo, ma rivisti in modo alternativo.
RICETTE
L’iscrizione alla sfida non prevede alcun costo. Registrandosi sul sito italiano, organizzato in collaborazione con l’associazione Essere Animali, ogni giorno si riceve una newsletter che propone tante ricette, menù settimanali, consigli e approfondimenti. Un modo, insomma, per iniziare a modificare la propria alimentazione eliminando togliendo carne, pesce, latticini e uova. Piccola curiosità, esiste anche un Ricettario Vip, con le ricette vegane donate al movimento da personaggi famosi: dal trio di frullati di della campionessa Venus Williams al chilli di fagioli neri di Bryan Adams. Come sempre, il consiglio è di evitare le estremizzazioni. Si può intraprendere questa sfida un po’ alla volta, con tanta curiosità e altrettanto buon senso.
Depressione, primo impianto cerebrale per trattarla
Psicologia, Ricerca innovazioneUna specie di pillola digitale, grande quanto un centesimo, viene impiantata sotto la pelle. Rilascia minuscoli impulsi elettrici alla regione del cervello colpita dalla malattia. Così inizia la sperimentazione umana del primo impianto cerebrale per il trattamento della depressione.
Lo ha realizzato la società di neurotecnologie Inner Cosmos ed è progettato in due parti. La prima consiste in un elettrodo che si trova sotto la pelle, la seconda è il “pod” che si aggancia ai capelli degli utenti per alimentare il dispositivo. Lo strumento invia minuscoli impulsi elettrici alla regione del cervello colpita da depressione, la corteccia prefrontale dorsolaterale sinistra. Il trattamento viene svolto una volta al giorno per 15 minuti.
Il dispositivo contro la depressione
Inner Cosmos ha impiantato per la prima volta il dispositivo per un anno in un paziente di St Louise, nel Missouri. Una seconda sperimentazione umana partirà il mese prossimo. Si tratta della tecnologia più piccola e meno invasiva ottenuta fino ad oggi.
L’intervento per l’impianto richiede 30 minuti in una struttura ambulatoriale. Inner Cosmos è stata fondata dall’imprenditore Meron Gribetz, a cui è stato diagnosticato un disturbo da deficit di attenzione da bambino. L’obiettivo è individuare un “trattamento efficace” per la depressione che sia una valida alternativa ai farmaci. Inoltre, in futuro si pensa di estendere la cura anche ad altri disturbi cognitivi. “La nostra missione è creare un mondo che ripristini il potere cognitivo dell’umanità riequilibrando la mente umana”, ha affermato Gribetz”.
Osteosarcoma: identificato meccanismo responsabile
Ricerca innovazioneUn’alterazione cromosomica è coinvolta nello sviluppo dell’osteosarcoma. Si tratta di un tumore delle ossa ancora poco curabile. Si manifesta quando manca o è alterata una piccola proteina chiamata Profilina 1. I risultati emergono da una ricerca sostenuta da Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro, condotta all’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati-Traverso” del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igb) di Napoli. Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Communications Biology
L’osteosarcoma
L’osteosarcoma è un tumore osseo ancora difficile da curare. Colpisce prevalentemente i bambini e gli adolescenti oppure può insorgere in età più avanzata, a circa 50 anni, in persone affette dalla malattia ossea di Paget. Si tratta di una patologia caratterizzata da una generazione di nuove cellule ossee più veloce del normale, con la conseguenza per i pazienti di avere ossa più fragili, dolore, deformità e fratture.
Tra i sintomi più comuni dell’osteosarcoma vi sono dolore all’osso colpito, gonfiore e tumefazione. Con il tempo la situazione in genere peggiora e possono comparire fratture a causa dell’alterata e indebolita struttura ossea. Tra le caratteristiche molecolari di questo tumore, per cui mancano ancora terapie efficaci, vi è una notevole instabilità genomica delle cellule mutate. L’individuazione delle cause di tale instabilità sono, dunque, una priorità per lo sviluppo di possibili nuovi trattamenti.
Il meccanismo cellulare implicato nell’osteosarcoma
“I risultati ottenuti hanno portato a identificare una piccola proteina che, quando è assente o alterata, non permette una corretta ripartizione dei cromosomi tra le due cellule figlie durante la divisione cellulare”, spiega Gianfrancesco. “Come conseguenza, le cellule che sono prodotte in tale divisione e in quelle successive presentano alterazioni cromosomiche tutte diverse tra loro. Questa vasta eterogeneità impedisce la messa a punto di terapie farmacologiche mirate a una specifica alterazione”. Esistono però altre strategie che si potrebbero tentare, facendo tesoro anche dei risultati ottenuti in precedenza.
“Mediante tecniche di sequenziamento di ultima generazione abbiamo identificato una mutazione genetica nel gene PFN1, responsabile di una forma molto severa della malattia ossea di Paget che determina anche l’insorgenza di osteosarcoma nelle ossa colpite”, evidenzia Federica Scotto di Carlo, ricercatrice postdoc del Cnr-Igb e prima autrice dell’articolo. Lo studio fa seguito a un importante risultato ottenuto 2 anni fa dallo stesso Istituto.
“Con lo studio attuale abbiamo espanso le nostre conoscenze circa la proteina prodotta dal gene PFN1, la Profilina 1, e abbiamo identificato il meccanismo alterato alla base del tumore. La Profilina 1 è essenziale per una corretta divisione cellulare. Mediante tecniche di imaging ad alta risoluzione, abbiamo verificato che la mancanza della Profilina 1 determina molteplici difetti mitotici, con perdita di frammenti cromosomici o di interi cromosomi nelle cellule figlie. Questi difetti nella mitosi, la divisione cellulare tipica delle cellule somatiche, si manifestano con cromosomi disallineati, ponti cromosomici e perdita di materiale genetico”.
Il futuro
Avere compreso questo meccanismo è importante perché si può tentare di sviluppare un approccio terapeutico basato sulla cosiddetta “letalità sintetica”. Si parla di letalità sintetica quando mutazioni in due geni diversi, insieme provocano la morte cellulare, ma non lo fanno singolarmente. “Utilizzando questo approccio, più che correggere il difetto genetico nel gene PFN1, vogliamo rendere ancora più vulnerabile la cellula cancerosa. Se la mancanza di Profilina 1 genera una cellula alterata, individuando e alterando un gene per una seconda proteina implicata, possiamo indurre nella cellula la cosiddetta morte cellulare programmata o apoptosi”, conclude Gianfrancesco.
In questo modo, sfruttando le differenze genetiche fra le cellule tumorali e le cellule sane, si potrebbero colpire in maniera mirata soltanto quelle malate, risparmiando le altre.
Trombosi e Covid, ricercatori italiani scoprono le cause di questa relazione pericolosa
Benessere, Covid, One healthTrombosi e Covid. C’è un collegamento tra il Covid è la formazione di trombi potenzialmente letali. Ad individuare le cause di questa “relazione pericolosa” è uno studio tutto italiano, coordinato dall’Università Sapienza di Roma. Sotto la lente dei ricercatori c’è finito un recettore, che a quanto pare gioca un ruolo chiave per la formazione di coaguli a rischio di infarto e ictus e apre nuove prospettive di cura.
Trombosi e Covid. RISCHI SECONDARI
Se è vero che il Covid è diventato tristemente noto per la sua capacità di causare polmoniti bilaterali spesso fatali, altrettanto vero è che per molti sono state letali le complicanze di embolie polmonari, infarto del miocardio e ictus. Nei casi più gravi, circa il 20% dei pazienti ospedalizzati può avere conseguenze cardiovascolari. Sebbene l’uso di eparina abbia ridotto l’entità di queste complicanze, il rischio rimane ancora elevato.
NUOVE SPERANZE
Nello studio guidato dal professore emerito Francesco Violi, attraverso l’esame di circa 50 pazienti, gli autori hanno dimostrato che la proteina Spike del coronavirus Sars-CoV-2 si lega al recettore TLR4 delle piastrine, causandone l’attivazione e la trombosi. I ricercatori sono arrivati a capirlo usando il sangue prelevato dai pazienti e tre differenti metodologie, tutte concordanti sul legame tra proteina Spike e TLR4 piastrinico. Il fatto che la trombosi mediata dalle piastrine sia stata bloccata da un inibitore del TLR4 apre prospettive cliniche importanti nel trattamento dei pazienti Covid-19. Questo inibitore potrebbe essere usato per la prevenzione e la cura durante la fase acuta della malattia come farmaco antitrombotico. Per agevolare l’immediata sperimentazione clinica, il gruppo ricerca e la rettrice della Sapienza Antonella Polimeni – si legge in una nota dell’ateneo – hanno scelto di non brevettare la scoperta e quindi favorire la libera circolazione nella comunità scientifica dei risultati dello studio, a beneficio della salute e della sicurezza collettiva.