Tempo di lettura: 3 minutiIl virus provocherebbe danni al DNA della cellula e le impedirebbe di ripararli. Porterebbe, quindi, senescenza cellulare ed infiammazione cronica. Lo studio sugli effetti gravi del Covid è stato pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Cell Biology. Pone le premesse conoscitive per sviluppare in prospettiva nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di SARS-CoV-2. Il lavoro è stato realizzato dai ricercatori dell’Ifom di Milano e dell’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia (Cnr-Igm), con il contributo dei virologi dell’Icgeb di Trieste. Gli studiosi hanno identificato le basi molecolari dell’aggressività e degli effetti deleteri di SARS-CoV-2.
La ricerca sul long-Covid
Da dicembre 2019 ad oggi sono stati fatti progressi in termini di diagnosi, cura e prevenzione. Tuttavia non è ancora chiaro perché il Covid abbia un impatto cosí grave sulla salute umana rispetto ad altri virus respiratori. Il gruppo IFOM è stato guidato da Fabrizio d’Adda di Fagagna, specializzato da 20 anni nello studio della risposta al danno al DNA. Si tratta di un processo fondamentale attraverso cui le cellule del nostro corpo ci proteggono dagli effetti deleteri di vari processi fisiologici e patologici, compresi tumori e infezioni virali. Il team ha scoperto uno dei motivi che rendono questo virus particolarmente aggressivo.
“Tutti i virus, si sa, sono parassiti”, spiega Fabrizio d’Adda di Fagagna, responsabile del laboratorio Ifom “Risposta al danno al DNA e Senescenza Cellulare” e Dirigente di ricerca al Cnr-Igm di Pavia. “Entrano in una cellula e iniziano a sfruttare tutto quello messo a disposizione dalla cellula infettata per replicarsi e diffondersi. E il SARS-CoV-2 è un virus particolarmente avido e abile. Nel nostro laboratorio ci siamo chiesti come avvenga questa operazione di ‘hackeraggio’ da parte del virus e se vi possa essere una connessione con quei processi che studiamo quotidianamente in ambiti patologici solo apparentemente distanti, quali tumori, malattie genetiche e condizione legate all’invecchiamento: tutti eventi accomunati dall’accumulo di danno al DNA”.
I risultati dello studio
Partendo da queste premesse i primi autori di questo studio, i ricercatori di Ifom Ubaldo Gioia e Sara Tavella, hanno individuato, attraverso l’uso di diversi sistemi cellulari in vitro, le cause molecolari alla base degli effetti deleteri del Covid-19. Ne hanno trovato conferma in vivo, sia in sistemi modello murini di infezione, sia in tessuti post-mortem derivati da pazienti affetti da Covid-19.
“Quello che abbiamo osservato”, illustrano Gioia e Tavella, “è che SARS-CoV-2, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali, costringendola a smettere di produrre deossinucleotidi, i “mattoni” del DNA, per farle produrre i ribonucleotidi ovvero i “mattoni” che servono a sintetizzare l’RNA della cellula e, soprattutto, quello del virus. È proprio questa alterazione del processo cellulare operata dal virus a proprio vantaggio a consentire l’esplosiva replicazione virale all’interno della cellula infetta da SARS-CoV-2”.
Una conseguenza drammatica di tale sfruttamento dei meccanismi cellulari da parte del virus risulta essere la carenza di deossinucleotidi: “La cellula non riesce a replicare adeguatamente il proprio DNA e accumula danni nel suo genoma”, proseguono Gioia e Tavella. “Inoltre, abbiamo scoperto che il virus, oltre a causare la rottura del DNA per mancanza di deossinucleotidi, interferisce anche con i meccanismi cellulari di riparazione di questo DNA danneggiato, inibendo la proteina 53BP1 essenziale per il processo di riparazione”.
Questi due eventi, danneggiamento del DNA e inibizione della sua riparazione, hanno effetti drammatici sulla cellula infetta da SARS-CoV-2 e sui pazienti. “Tra questi sicuramente il precoce invecchiamento delle cellule, detto senescenza cellulare, e l’associata produzione di citochine infiammatorie”, commenta d’Adda di Fagagna. “Non a caso, la principale causa dei sintomi più gravi nei pazienti affetti da Covid-19 è proprio un’eccessiva produzione di citochine infiammatorie, nota anche come ‘tempesta di citochine’. In base ai risultati ottenuti abbiamo evidenziato come l’accumulo di danno al DNA, l’unico componente insostituibile delle nostre cellule, possa dare un contributo importante alla tempesta infiammatoria scatenata dal virus”. Ma i ricercatori non si sono fermati a questa osservazione. “Fornendo alle cellule infettate un supplemento di deossinucleotidi – spiegano Gioia e Tavella – abbiamo dimostrato che, riducendo il danno al DNA causato dal virus, abbattiamo anche i livelli di infiammazione”.
I processi di invecchiamento
“È importante sottolineare che senescenza cellulare e infiammazione cronica sono alla base dei processi di invecchiamento, che esso sia fisiologico o patologico, e infatti molti scienziati stanno scoprendo sempre più frequentemente evidenze di un invecchiamento accelerato in casi di gravi di Covid-19″, precisa d’Adda di Fagagna. “In questo senso, sarà importante studiare anche la correlazione tra queste nostre nuove scoperte e condizioni quali il cosiddetto long Covid, per sviluppare nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di tale patologia.”
“Questo studio – conclude il ricercatore – non sarebbe stato possibile senza l’indispensabile collaborazione dei laboratori dell’Icgeb di Trieste condotti dai colleghi Alessandro Marcello e Serena Zacchigna che hanno compiuto gli esperimenti di infezione virale e analisi di materiale da pazienti”. Oltre all’Icgeb hanno collaborato allo studio di Ifom il San Raffaele di Milano (Matteo Iannacone), l’Università degli Studi di Padova (Chiara Rampazzo), l’Istituto Neurologico Besta (Paola Cavalcante) e l’Università degli Studi di Palermo (Claudio Tripodo).
Alcol e tumori, Airc smaschera la disinformazione
Benessere, Medicina funzionale, News PresaL’alcol aumenta il rischio di sviluppare vari tipi di tumore, inclusi quello del fegato e del seno. Lo conferma la scienza. Tuttavia, in un sondaggio condotto negli Stati Uniti, un intervistato su dieci pensa che bere vino riduca il rischio di avere un tumore. Inoltre più di uno su due non sa se le bevande alcoliche influenzino o meno la probabilità di ammalarsi di cancro. L’indagine è partita da un gruppo di ricerca che voleva indagare la consapevolezza sul tema.
“Tutti i tipi di bevande alcoliche, vino incluso, aumentano il rischio di andare incontro a un tumore” chiarisce subito William Klein, direttore del Programma di ricerca comportamentale del National Cancer Institute (NCI) di Bethesda, Maryland, e coordinatore dello studio. In particolare, ribadiscono anche gli esperti di AIRC, l’alcol non aumenta solo la probabilità di sviluppare un tumore del fegato negli alcolisti cronici. Il rischio aumenta anche per molti altri tipi di tumore, tra cui quello del seno, nelle donne e negli uomini.
Alcol e tumori, i risultati sulla consapevolezza
I ricercatori hanno analizzato le risposte di quasi 4 mila partecipanti all’Health Information National Trends Survey (HINTS), un’indagine periodica sponsorizzata dall’NCI su quanto la popolazione sia informata sul cancro e adotti comportamenti che aiutino a prevenirlo.
Il 31,2 per cento degli intervistati – che hanno risposto alle domande – pensava che i liquori aumentassero il rischio di ammalarsi di cancro. Tuttavia, a ritenere pericolosi la birra e il vino erano rispettivamente il 24,9 e il 20,3 dei rispondenti.
Secondo il 10,3 per cento degli intervistati il vino riduce invece il rischio di sviluppare un cancro, una percentuale decisamente più alta di quella di chi ha attribuito proprietà protettive alla birra (2,2 per cento) o ai liquori (1,7 per cento). Più del 50 per cento dei partecipanti ha infine riferito di non sapere rispondere se le probabilità di ammalarsi fossero influenzate dal consumo di alcol.
L’alcol della birra è lo stesso alcol del liquore
L’alcol è sempre alcol – sottolineano gli esperti – indipendentemente dal liquido con cui viene introdotto nell’organismo. Da qui l’esigenza di ragionare in termini di unità alcoliche, al fine di avere un’idea più precisa della quantità di alcol che si sta assumendo. Un’unità alcolica (UA) corrisponde a 12 grammi di etanolo (il nome chimico del tipo di alcol contenuto nelle bevande alcoliche). In altre parole, chi beve 6 lattine di birra assume la stessa quantità di alcol di chi finisce da solo una bottiglia di vino di media gradazione
Le evidenze scientifiche indicano che il vino, rispetto alla birra e ai liquori, possa avere alcuni effetti positivi sulle coronarie. Tuttavia, si tratta di un falso mito. Anche a dosi moderate, il vino aumenta il rischio di andare incontro ad altri eventi cardiovascolari, per cui non può in ogni caso essere considerato salutare – mette in guardia Airc.
Rischio aumenta con fumo
Da oltre trent’anni l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) di Lione ha classificato l’alcol come agente cancerogeno. “Moltissime ricerche – scrive AIRC – hanno infatti dimostrato una chiara associazione tra l’alcol e numerose malattie neoplastiche: tumore del fegato, dell’esofago, del colon-retto, della mammella e tumori del distretto testa-collo (in particolare tumori del cavo orale, della faringe e della laringe). Il rischio di sviluppare un tumore è proporzionale all’esposizione: più si beve e per più tempo si beve, e più elevato è il rischio. Il rischio è ancora maggiore per chi beve e fuma: alcol e tabacco hanno infatti un effetto sinergico”.
Gli esperti si sono spinti oltre, calcolando il numero di morti che si potrebbero evitare ogni anno in Italia, eliminando l’abuso di alcol.
“I decessi causati da tumori della bocca e della faringe si ridurrebbero di circa il 70 per cento negli uomini e del 50 per cento nelle donne. Quelli causati da tumori della laringe e dell’esofago diminuirebbero di circa il 50 per cento negli uomini e del 30 per cento nelle donne. Quelli provocati da tumori del fegato e del colon-retto si ridurrebbero di circa il 30 per cento negli uomini e del 15 per cento nelle donne. Eliminando l’alcol si potrebbe inoltre potenzialmente evitare il 17 per cento dei decessi provocati dal tumore del seno nel sesso femminile e il 27 per cento dei decessi per tumore del seno nel sesso maschile“.
Cibo: uno su due lo usa per relazionarsi, ma è anche moda
Alimentazione, News PresaQuasi un italiano su due usa il cibo per relazionarsi con i propri cari. Si tratta del 45%, invece per oltre un connazionale su cinque il cibo è soprattutto “questione di salute”. In sostanza, le scelte alimentari non sono legate solo alla necessità nutrirsi, ma sono un mezzo per restare in forma e in salute.
Uno studio svolto presso l’EngageMinds HUB, il Centro di ricerca dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha indagato il legame degli italiani con il cibo. Il lavoro, diretto dalla professoressa Guendalina Graffigna, ha sviluppato e validato su un primo campione un indice di misura del rapporto con il cibo. Si tratta di una nuova scala di coinvolgimento alimentare (Psychological Food Involvement Scale, o PFIS).
«Il ruolo del cibo nella vita delle persone è cambiato radicalmente negli ultimi anni – sottolineano la professoressa Graffigna e la dottoressa Greta Castellini che ha condotto lo studio pubblicato sulla rivista scientifica Food Quality and Preference.
Il cibo non è considerato solo una fonte di sostentamento per gli italiani. Con il passare degli anni cresce il valore simbolico e soggettivo. Tuttavia, non esistono studi empirici volti a esplorare e approfondire questo.
La dimensione simbolica del cibo
«Il nostro indice – spiegano le ricercatrici della Cattolica – vuole essere uno strumento obiettivo per esplorare qualitativamente i significati personali che i consumatori attribuiscono al cibo».
L’indice Psychological Food Involvement Scale, o PFIS è in grado di comprendere non solo in che modo le persone siano coinvolte sul cibo, ma anche le motivazioni spesso inespresse che stanno dietro ad alcune scelte di consumi alimentari.
In questo studio sono stati raccolti 512 questionari compilati da un analogo numero di individui. I risultati hanno dimostrato che la scala PFIS è valida e affidabile nella misurazione della dimensione simbolica del cibo e del coinvolgimento alimentare di ciascuno.
«La scala indaga diverse e nuove dimensioni psicologiche relative alle nostre scelte alimentari – spiega la dottoressa Castellini – per esempio indaga quanto il cibo è considerato dal singolo come un mezzo attraverso il quale provare emozioni positive e raggiungere un benessere psicofisico; ma esplora anche quanto il cibo e in particolare le scelte alimentari siano un mezzo importante per esprimere se stessi e la propria personalità; infine valuta quanto il cibo e le scelte alimentari siano considerate dal singolo come un mezzo attraverso cui essere accettati dagli altri e quanto il cibo sia considerato dal singolo come un tramite grazie al quale prendersi cura dei propri cari e rafforzare i legami familiari».
«I risultati preliminari con l’uso di questa scala – spiega la professoressa Graffigna – hanno mostrato che circa il 16% del campione ha un forte coinvolgimento verso l’alimentazione. In particolare, per il 45% il cibo rappresenta un mezzo attraverso il quale rafforzare il legame affettivo con le persone care, mentre per il 40% grazie all’alimentazione si può raggiungere una condizione di benessere psico-fisico».
Consumo di latte e bevande sostitutive come una “moda”
Infatti dallo studio emerge che le persone che totalizzano punteggi elevati su questa nuova scala di valutazione tendono a seguire una dieta salubre che le porta a fare scelte alimentari più sane rispetto a chi assegna al cibo un minore valore simbolico. Inoltre, la PFIS è in grado di spiegare alcune tendenze alimentari di crescente successo, come, il consumo di bevande vegetali e di latte senza lattosio, evidenziandone proprio il valore simbolico.
L’influenza sociale, e quindi il desiderio di affermazione sociale, gioca un ruolo fondamentale nel decidere di acquistare e consumare latte vaccino senza lattosio. Ciò dimostra come tale scelta sia spesso connotabile come una “moda”, cioè un vero e proprio consumo “di tendenza”. «Il consumo di bevande vegetali – considera Graffigna – non solo è determinato dal bisogno di affermarsi socialmente ma anche dalla necessità di esprimere il proprio sé. Tali scelte di consumo, infatti, vengono fatte al fine di mostrare i propri valori e le proprie idee in tema di sostenibilità, come il rispetto per gli animali e per l’ambiente».
«La ricerca mostra, quindi, come questo nuovo indicatore di coinvolgimento psicologico verso l’alimentazione permetta di profilare e differenziare i consumatori. In particolare, individua le motivazioni profonde ed emotive che connotano le scelte alimentari, leve su cui puntare al fine di generare cambiamenti comportamentali che favoriscano consumi sani e campagne di comunicazione ed educazione efficaci», aggiunge la professoressa Graffigna.
Questo studio dimostra, dunque, l’importanza della psicologia nello spiegare e prevedere anche le condotte alimentari. Alla luce di questo dato è in partenza un nuovo corso di Laurea Magistrale internazionale intitolato Consumer Behaviour: Psychology Appliead to Food, health and Environment, il primo per la Facoltà di Psicologia dell’Università Cattolica nel campus di Cremona dedicato a formare futuri psicologici capaci di comprendere e modificare i comportamenti nell’ambito della salute, delle condotte alimentari e dei comportamenti pro-sostenibilità ambientale in un’ottica One Health.
Malattie cardiovascolari: in UE hanno ucciso più del Covid
Benessere, Medicina funzionale, News Presa, One healthNel primo anno di pandemia sono state 1,7 milioni le morti per malattie cardiovascolari in Europa. Si confermano, quindi, la prima causa di perdite di vita. Il Covid, invece, è stata la terza principale causa di morte, con un totale di quasi 439mila decessi.
Malattie cardiovascolari, i numeri in Europa
Le principali cause di morte tra gli abitanti dell’Unione Europea nel 2020 sono state le malattie del sistema circolatorio e il cancro. Ogni anno in Europa si registrano oltre 4 milioni di decessi per malattie cardiovascolari. Di cui oltre 224mila in Italia e circa 47mila di questi sono collegabili al mancato controllo del colesterolo. Quest’ultimo è uno dei fattori di rischio più importanti per l’insorgenza di queste patologie. Inoltre, pesano per il servizio sanitario nazionale con una spesa sanitaria diretta ed indiretta di circa 16 miliardi di euro all’anno. Per richiamare l’attenzione sui rischi legati alle malattie cardiovascolari Motore Sanità ha organizzato una serie di incontri in tutta Italia. L’ente no-profit opera nell’ambito della ricerca scientifica e della divulgazione sanitaria. Gli eventi si sono svolti in più tappe itineranti da nord a sud. La tappa di chiusura si è tenuta al Palazzo Pirelli di Milano dal titolo ‘Pnrr, ipercolesterolemia, rischio cardiovascolare.
Calciatori: fino al 50% di rischio in più di malattie neurodegenerative
News PresaI calciatori professionisti potrebbero rischiare fino al 50% in più di sviluppare malattie neurodegenerative durante la vita. Il dato emerge da una ricerca coordinata dal Karolinska Institutet di Stoccolma e pubblicato sulla rivista Lancet Public Health.
La scienza indaga da tempo su quale sia il legame tra il gioco del calcio e l’aumento di rischio di malattie neurodegenerative.
Secondo lo studio, i responsabili dell’aumento di rischio sarebbero i micro-traumi subiti durante le partite. Questi ultimi possono non dare sintomi nel corso della vita.
Calciatori e rischio di malattie neurodegenerative
La ricerca, ha osservato le stesse dinamiche nel football americano o nel rugby. Analizzando i dati di oltre 6mila calciatori che hanno giocato nei principali campionati svedesi tra il 1924 e il 2019, il rischio saliva del 50% più alto rispetto alla popolazione generale. L’aumento del rischio riguardava soprattutto l’Alzheimer (+62%); per il Parkinson è stata osservata invece una riduzione del rischio (-32%), mentre non sono stati trovati legami con malattie del motoneurone, come la Sla. Il fenomeno, inoltre, non riguardava i portieri.
Tuttavia, sebbene il rischio di sviluppare malattie neurodegenerative fosse più alto, i calciatori avevano una mortalità più bassa.
In altre parole, la loro salute generale era migliore rispetto alla popolazione generale, perché si mantenevano in buona forma fisica. Una buona forma fisica potrebbe diminuire il rischio di Parkinson.
Trapianti da viventi, nessuno se lo sarebbe aspettato
Benessere, News Presa, One healthTrapianti da viventi,il dato è in divenire e si dovrà consolidare. Ma intanto, per la prima volta nella trapiantologia campana, la quota dei trapianti da donatore vivente ha superato quella da donatore deceduto nei primi due mesi e mezzo del 2023. La notizia arriva dal Centro Trapianti Renali dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli, dove in questo inizio d’anno sono stati effettuati 7 trapianti di rene, di cui 4 da vivente (dato aggiornato ad oggi 17/03/2023).
NUMERI IN CRESCITA
Il programma di trapianto da donatore vivente ha avuto un’ampia accelerazione a seguito di una riorganizzazione e grazie all’utilizzo della chirurgia mininvasiva per i donatori. Questo ha permesso anche di abbattere i tempi per la valutazione delle coppie donatori-riceventi, oggi stimato intorno ai 2 mesi rispetto ad una media nazionale che supera i 5. A dirigere l’U.O.C. di Chirurgia Epato-bilio-pancreatica Mininvasiva-Robotica e dei Trapianti di Rene dell’Azienda federiciana èil professor Roberto Troisi. Ed è lui a spiegare che l’approccio mininvasivo robotico offre il miglior risultato possibile. Il dolore è ridottissimo e si può contare su una rapida ripresa funzionale e fisica del donatore, a fronte di un ricovero ospedaliero di 48-72 ore. Inoltre, il rischio di mortalità per il donatore è talmente basso da risultare trascurabile.
AL MOMENTO GIUSTO -trapianti da viventi
Negli ultimi sei mesi, sono state effettuate già 50 valutazioni di coppie donatore-ricevente, di cui 23 ritenute idonee e in corso di completamento. In genere, a questa tipologia di trapianto, risultano idonee 4 coppie su 10. La caratteristica principale di questi trapianti è quella di poterli programmare nel miglior momento del ricevente, potendo anche proporli ai pazienti non ancora in dialisi (cosiddetto trapianto preventivo). Inoltre, la qualità dell’organo è perfetta e, in taluni casi, può avere una sopravvivenza di oltre 35 anni.
QUALITÀ DI VITA
Le aspettative di vita del donatore sono fra le più alte rispetto a quelle della popolazione generale proprio per i controlli di routine ai quali sono sottoposti, cosa che permette di anticipare la diagnosi di gravi malattie iniziando precocemente le terapie specifiche. È, inoltre, bassissimo il rischio a lungo termine di perdere il rene rimasto a causa d’insufficienza funzionale.
TECNOLOGIE
Il programma di trapianto di rene da donatore vivente della Federico II, tra le eccellenze della sanità campane, oggi è in grado di coniugare percorsi personalizzati per i pazienti ed innovazione tecnologica per garantire il meglio alle coppie donatori-riceventi in termini di accoglienza e gestione del percorso trapianto.
UN PRIMO PASSO
Per il direttore generale Giuseppe Longo l’aumento dei trapianti da donatore vivente è un ottimo risultato per la trapiantologia campana e rappresenta un primo importante passo verso l’obiettivo finale, sperando nel prossimo futuro di poter invertire la rotta considerando sempre più ampio e strutturato il percorso di donazione da vivente ma dobbiamo continuare a lavorare molto sugli aspetti di comunicazione e sensibilizzazione per garantire un’ampia conoscenza delle possibilità offerte ai cittadini, così che si possano compiere scelte libere e consapevoli».
Medicina di famiglia e continuità assistenziale , segnali incoraggianti.
Economia sanitariaMedicina di famiglia.
Segnali di speranza per la medicina generane, con il nuovo corso del governo forse qualcosa potrebbe cambiare. La fumata bianca è arrivata dal primo incontro che il Segretario Nazionale Fimmg Continuità Assistenziale, Tommasa Maio, ha avuto con l’Onorevole Francesco Zaffini (presidente della Commissione Lavoro e Sanità). La Maio ha infatti parlato di un incontro proficuo e molto concreto, nel corso del quale sono stati affrontati in modo puntuale i problemi veri che da troppo tempo affliggono la nostra categoria.
QUESTIONI CONCRETE
Un dato che fa certamente ben sperare è legato alla concretezza dell’incontro. Non un faccia a faccia di circostanza, bensì un lungo confronto, durato più di un’ora, nel corso del quale il Segretario Nazionale di Fimmg Continuità Assistenziale ha potuto condividere con il presidente Zaffini i timori per le grandi difficoltà presenti, ma ha anche avuto modo di ragionare sulle proposte di intervento che potrebbero risollevare le sorti di una categoria che rappresenta il primo baluardo a tutela della salute dei cittadini.
LE ISTANZE
Fimmg Continuità Assistenziale parla di un interlocutore estremamente attento, in primis ai bisogni di salute dei cittadini, ma anche alle istanze della categoria. Maio sottolinea con favore come nel corso dell’incontro il presidente Zaffini abbia dimostrato non solo di essere ben consapevole dei grandi problemi sorti negli anni, ma anche pronto a mettere in campo sia soluzioni immediate che strutturali. Tema, questo, tutt’altro che banale, visto che per lungo tempo e da più parti si sono inseguite proposte di facciata.
IL TEMA DELLA DIPENDENZA
Una su tutte, il passaggio alla dipendenza dei medici di medicina generale, che in molti hanno spacciato come panacea di ogni male. Finalmente – prosegue Maio – si discute di soluzioni che valorizzano il ruolo dei professionisti. C’è ampia condivisione con il presidente Zaffini sul fatto che l’aumento e il miglioramento della capacità assistenziale possa nascere solo dall’innovazione del modello organizzativo e dagli strumenti messi a disposizione dei professionisti, non dal loro mero inquadramento contrattuale.
VISIONE DI SISTEMA
Insomma, quella mostrata è una visione di sistema, con Zaffini che finalmente apre alla possibilità di guardare oltre i provvedimenti di emergenza, che pure sono serviti, andando a definire interventi strutturali. Per Maio vanno bene gli interventi sulla permanenza in servizio dei medici sino a 72 anni, così come l’aumento del numero degli assistiti per i medici in formazione, ma in particolare siamo soddisfatti della possibilità di andare finalmente oltre.
NUOVO CORSO
La Maio si dice fiduciosa del fatto che questa strada di confronto possa portare alle soluzioni che da tempo la continuità assistenziale attende. Il presidente Zaffini e la parte politica che rappresenta stanno dimostrando di essere nel concreto attenti alla salute dei cittadini e a ciò che serve alla medicina generale per essere sempre più attrattiva e capace di assolvere in pieno al proprio ruolo.
Hikikomori, giovani che vivono isolati e non vogliono uscire
Adolescenti, News Presa, PediatriaHikikomori
Il fenomeno dei cosiddetti “Hikikomori” consiste nell’isolamento volontario negli adolescenti. Il termine giapponese in italiano si può tradurre come “ritirati sociali”. In particolare indica la tendenza, nei giovani o giovanissimi, di smettere di uscire di casa, di frequentare scuola e amici, per chiudersi nelle proprie stanze e limitare al minimo i rapporti con l’esterno, mantenendo i contatti solo attraverso Internet.
L’età più a rischio dai 15 ai 17 anni
L’età che si rivela maggiormente a rischio per la scelta di ritiro è quella che va dai 15 ai 17 anni. Un’incubazione delle cause del comportamento di auto-reclusione avviene già nel periodo della scuola media.
Le differenze di genere si rivelano nella percezione del ritiro. I maschi sono la maggioranza fra i ritirati effettivi. Invece, le femmine si attribuiscono più facilmente la definizione di Hikikomori. Le differenze sono anche nell’utilizzo del tempo, con le ragazze più propense al sonno, alla lettura e alla tv, mentre i ragazzi al gaming online.
Il fenomeno degli hikikomori, sul quale ci sono finora pochi dati analitici, è ora oggetto di uno studio promosso dal Gruppo Abele in collaborazione con l’Università della Strada. L’obiettivo è definire una prima stima quantitativa attendibile. Il report integrale è disponibile sul sito web della onlus. Il primo studio nazionale per una stima quantitativa è stato realizzato dall’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Cnr-Ifc).
Le cause
Fra le cause dell’isolamento, assume un peso determinante il senso di inadeguatezza rispetto ai compagni: “L’aver subito episodi di bullismo, contrariamente a quanto si possa ritenere, non è fra le ragioni più frequenti della scelta. Mentre si evince una fatica diffusa nei rapporti coi coetanei, caratterizzati da frustrazione e auto-svalutazione”, spiega Sonia Cerrai (Cnr-Ifc). “Un altro dato parzialmente sorprendente riguarda la reazione delle famiglie: più di un intervistato su 4, fra coloro che si definiscono ritirati, dichiara infatti che i genitori avrebbero accettato la cosa apparentemente senza porsi domande. Il dato è simile quando si parla degli insegnanti”.
Di fronte ai dati emersi, il Gruppo Abele intende stimolare una riflessione approfondita, anche con un seminario per operatori, educatori e insegnanti, in programma a Torino il 5 maggio prossimo. Prosegue intanto con un intervento educativo sperimentale, iniziato nel 2020. Spiega Milena Primavera, responsabile del percorso: “Il progetto Nove ¾ – vincitore di un premio dell’Accademia dei Lincei che ha finanziato anche lo studio in oggetto – si è fatto finora carico di una quarantina fra ragazzi e ragazze le cui famiglie non trovavano risposta alla chiusura e all’isolamento dei loro figli.
Per loro si è attivato un affiancamento a domicilio, con la possibilità di frequentare un centro laboratoriale dedicato, dove si svolgono attività individuali o in piccolo gruppo con “maestri di mestiere” a partire dagli interessi espressi dai ragazzi. Ai genitori è offerto, in parallelo, un sostegno psicologico volto ad acquisire maggiori strumenti per gestire le difficoltà dei figli. Una prima sperimentazione, in rete con il sistema scolastico e i servizi socio-sanitari, per tentare di accompagnare i ragazzi isolati dal mondo a un diverso progetto di vita”.
Lo studio sul fenomeno hikikomori
La ricerca ha preso le mosse dallo studio ESPAD®Italia (European School Survey Project on Alcohol and Other Drugs, condotto annualmente dal Cnr-Ifc rispetto al consumo di sostanze psicoattive), coinvolgendo un campione di oltre 12.000 studenti rappresentativo della popolazione studentesca italiana fra i 15 e i 19 anni.
I ragazzi sono stati intervistati attraverso un apposito set di domande volte a intercettare sia i comportamenti che le loro cause percepite: i risultati si basano sull’autovalutazione dei partecipanti stessi. “Il 2,1% del campione attribuisce a sé stesso la definizione di Hikikomori: proiettando il dato sulla popolazione studentesca (dato del 2018; fonte Ministero dell’Istruzione) 15-19enne a livello nazionale, si può quindi stimare che circa 54.000 studenti italiani di scuola superiore si identifichino in una situazione di ritiro sociale”, afferma Sabrina Molinaro, ricercatrice del Cnr-Ifc.
“Questo dato appare confermato dalle risposte sui periodi di ritiro effettivo: il 18,7% degli intervistati afferma, infatti, di non essere uscito per un tempo significativo, escludendo i periodi di lockdown, e di questi l’8,2% non è uscito per un tempo da 1 a 6 mesi e oltre: in quest’area si collocano sia le situazioni più gravi (oltre 6 mesi di chiusura), sia quelle a maggiore rischio (da 3 a 6 mesi). Le proiezioni ci parlano di circa l’1,7% degli studenti totali (44.000 ragazzi a livello nazionale) che si possono definire Hikikomori, mentre il 2,6% (67.000 giovani) sarebbero a rischio grave di diventarlo”.
Un indice svela il nostro rapporto con il cibo
AlimentazioneUn indice svela il nostro rapporto con il cibo. Si chiama PFIS ed è l’acronimo di Psychological Food Involvement Scale; in italiano parleremmo di scala di coinvolgimento psicologico alimentare. Uno strumento che rivela quale rapporto abbiamo con il cibo e che, in questo modo, ci aiuta a migliorare.
SOCIALE E SALUTARE
Per un italiano su due il cibo è una via per relazionarsi con i propri cari, mentre per oltre un italiano su cinque è un mezzo per mantenersi in salute. Questo perché il mangiare è una vera e propria terapia con la quale possiamo mantenerci in forma. I dati sono quelli di uno studio svolto presso l’EngageMinds HUB, il Centro di ricerca dell’Università Cattolica, campus di Cremona diretto dalla professoressa Guendalina Graffigna. Ed è proprio con questo studio che è stato sviluppato e validato su un primo campione l’indice PFIS.
VALORE SIMBOLICO
I ricercatori ricordano che il cibo non è considerato solo una fonte di sostentamento, ma sta diventando sempre più simbolico e legato a valori soggettivi. Il nostro indice – spiegano le ricercatrici della Cattolica – vuole essere uno strumento obiettivo per esplorare qualitativamente i significati personali che i consumatori attribuiscono al cibo. Dunque, un indice svela il nostro rapporto con il cibo. Ma come fa? Può aiutarci a comprendere non solo in che modo le persone siano coinvolte sul cibo, ma anche le motivazioni spesso inespresse che stanno dietro ad alcune scelte di consumi alimentari.
COME SIAMO
La scala indaga diverse e nuove dimensioni psicologiche. Per esempio indaga quanto il cibo è considerato dal singolo come un mezzo attraverso il quale provare emozioni positive e raggiungere un benessere psicofisico. Esplora anche quanto il cibo e in particolare le scelte alimentari siano un mezzo importante per esprimere se stessi e la propria personalità. Infine, valuta quanto il cibo e le scelte alimentari siano considerate dal singolo come un mezzo attraverso cui essere accettati dagli altri e quanto il cibo sia considerato dal singolo come un tramite grazie al quale prendersi cura dei propri cari e rafforzare i legami familiari.
I DATI
I risultati preliminari con l’uso di questa scala hanno mostrato che circa il 16% del campione ha un forte coinvolgimento verso l’alimentazione. In particolare, per il 45% il cibo rappresenta un mezzo attraverso il quale rafforzare il legame affettivo con le persone care, mentre per il 40% grazie all’alimentazione si può raggiungere una condizione di benessere psico-fisico.
Covid: danneggia DNA e causa invecchiamento. Lo studio
Benessere, Medicina funzionale, News Presa, One healthIl virus provocherebbe danni al DNA della cellula e le impedirebbe di ripararli. Porterebbe, quindi, senescenza cellulare ed infiammazione cronica. Lo studio sugli effetti gravi del Covid è stato pubblicato sull’autorevole rivista scientifica Nature Cell Biology. Pone le premesse conoscitive per sviluppare in prospettiva nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di SARS-CoV-2. Il lavoro è stato realizzato dai ricercatori dell’Ifom di Milano e dell’Istituto di genetica molecolare del Consiglio nazionale delle ricerche di Pavia (Cnr-Igm), con il contributo dei virologi dell’Icgeb di Trieste. Gli studiosi hanno identificato le basi molecolari dell’aggressività e degli effetti deleteri di SARS-CoV-2.
La ricerca sul long-Covid
Da dicembre 2019 ad oggi sono stati fatti progressi in termini di diagnosi, cura e prevenzione. Tuttavia non è ancora chiaro perché il Covid abbia un impatto cosí grave sulla salute umana rispetto ad altri virus respiratori. Il gruppo IFOM è stato guidato da Fabrizio d’Adda di Fagagna, specializzato da 20 anni nello studio della risposta al danno al DNA. Si tratta di un processo fondamentale attraverso cui le cellule del nostro corpo ci proteggono dagli effetti deleteri di vari processi fisiologici e patologici, compresi tumori e infezioni virali. Il team ha scoperto uno dei motivi che rendono questo virus particolarmente aggressivo.
“Tutti i virus, si sa, sono parassiti”, spiega Fabrizio d’Adda di Fagagna, responsabile del laboratorio Ifom “Risposta al danno al DNA e Senescenza Cellulare” e Dirigente di ricerca al Cnr-Igm di Pavia. “Entrano in una cellula e iniziano a sfruttare tutto quello messo a disposizione dalla cellula infettata per replicarsi e diffondersi. E il SARS-CoV-2 è un virus particolarmente avido e abile. Nel nostro laboratorio ci siamo chiesti come avvenga questa operazione di ‘hackeraggio’ da parte del virus e se vi possa essere una connessione con quei processi che studiamo quotidianamente in ambiti patologici solo apparentemente distanti, quali tumori, malattie genetiche e condizione legate all’invecchiamento: tutti eventi accomunati dall’accumulo di danno al DNA”.
I risultati dello studio
Partendo da queste premesse i primi autori di questo studio, i ricercatori di Ifom Ubaldo Gioia e Sara Tavella, hanno individuato, attraverso l’uso di diversi sistemi cellulari in vitro, le cause molecolari alla base degli effetti deleteri del Covid-19. Ne hanno trovato conferma in vivo, sia in sistemi modello murini di infezione, sia in tessuti post-mortem derivati da pazienti affetti da Covid-19.
“Quello che abbiamo osservato”, illustrano Gioia e Tavella, “è che SARS-CoV-2, una volta entrato nella cellula, ne dirotta i processi fondamentali, costringendola a smettere di produrre deossinucleotidi, i “mattoni” del DNA, per farle produrre i ribonucleotidi ovvero i “mattoni” che servono a sintetizzare l’RNA della cellula e, soprattutto, quello del virus. È proprio questa alterazione del processo cellulare operata dal virus a proprio vantaggio a consentire l’esplosiva replicazione virale all’interno della cellula infetta da SARS-CoV-2”.
Una conseguenza drammatica di tale sfruttamento dei meccanismi cellulari da parte del virus risulta essere la carenza di deossinucleotidi: “La cellula non riesce a replicare adeguatamente il proprio DNA e accumula danni nel suo genoma”, proseguono Gioia e Tavella. “Inoltre, abbiamo scoperto che il virus, oltre a causare la rottura del DNA per mancanza di deossinucleotidi, interferisce anche con i meccanismi cellulari di riparazione di questo DNA danneggiato, inibendo la proteina 53BP1 essenziale per il processo di riparazione”.
Questi due eventi, danneggiamento del DNA e inibizione della sua riparazione, hanno effetti drammatici sulla cellula infetta da SARS-CoV-2 e sui pazienti. “Tra questi sicuramente il precoce invecchiamento delle cellule, detto senescenza cellulare, e l’associata produzione di citochine infiammatorie”, commenta d’Adda di Fagagna. “Non a caso, la principale causa dei sintomi più gravi nei pazienti affetti da Covid-19 è proprio un’eccessiva produzione di citochine infiammatorie, nota anche come ‘tempesta di citochine’. In base ai risultati ottenuti abbiamo evidenziato come l’accumulo di danno al DNA, l’unico componente insostituibile delle nostre cellule, possa dare un contributo importante alla tempesta infiammatoria scatenata dal virus”. Ma i ricercatori non si sono fermati a questa osservazione. “Fornendo alle cellule infettate un supplemento di deossinucleotidi – spiegano Gioia e Tavella – abbiamo dimostrato che, riducendo il danno al DNA causato dal virus, abbattiamo anche i livelli di infiammazione”.
I processi di invecchiamento
“È importante sottolineare che senescenza cellulare e infiammazione cronica sono alla base dei processi di invecchiamento, che esso sia fisiologico o patologico, e infatti molti scienziati stanno scoprendo sempre più frequentemente evidenze di un invecchiamento accelerato in casi di gravi di Covid-19″, precisa d’Adda di Fagagna. “In questo senso, sarà importante studiare anche la correlazione tra queste nostre nuove scoperte e condizioni quali il cosiddetto long Covid, per sviluppare nuovi trattamenti farmacologici che limitino gli effetti di tale patologia.”
“Questo studio – conclude il ricercatore – non sarebbe stato possibile senza l’indispensabile collaborazione dei laboratori dell’Icgeb di Trieste condotti dai colleghi Alessandro Marcello e Serena Zacchigna che hanno compiuto gli esperimenti di infezione virale e analisi di materiale da pazienti”. Oltre all’Icgeb hanno collaborato allo studio di Ifom il San Raffaele di Milano (Matteo Iannacone), l’Università degli Studi di Padova (Chiara Rampazzo), l’Istituto Neurologico Besta (Paola Cavalcante) e l’Università degli Studi di Palermo (Claudio Tripodo).
Così il sonno migliora la salute
Benessere, News Presa, Stili di vitaIl sonno è un vero elisir di lunga vita. A dirlo sono i medici della World Sleep Society, che proprio in questi giorni hanno celebrato la giornata mondiale del sonno 2023. Esattamente come magiare bene o fare sport, il sonno ha il potere di favorire il nostro benessere fisico, mentale e sociale. Anche se solo in pochi si dedicano le giuste ore di sonno.
QUALITÀ
Bisogna però ricordare che dormire molto non significa avere un sonno di qualità. Stare meglio grazie ad un riposo adeguato significa invece prestare grande attenzione a questo aspetto. La giornata mondiale del sonno serve proprio a questo, ricordare l’importanza di un riposo di qualità. Proviamo allora a stilare un decalogo di vantaggi di un buon riposo.
DIECI BUONI MOTIVI
I CENTRI
Pochi lo immaginano o lo sanno, ma in tutta Italia esistono centri pubblici dedicati proprio a chi presenta disturbi del sonno. Si tratta solitamente di unità operative che fanno parte di Aziende ospedaliere e le visite vengono prenotate tramite il servizio sanitario nazionale. Il primo passo per diagnosticare un disturbo del sonno è sempre quello di parlare con il proprio medico curante, sarà lui a prescrivere una visita indirizzandoci nel centro più vicino a noi.