La sanità italiana in questi drammatici mesi di emergenza Covid si è mostrata con le sue reali sembianze: bella, ma per certi versi impossibile. Piani di rientro, commissariamenti, 37 miliardi di tagli alla spesa negli ultimi dieci anni, criticità ed eredità storiche che hanno portato a modestissimi risultati, aumentando invece i bisogni di salute e accentuando le disparità in termini di accesso alle cure su base regionale. Le tragedie, del resto, non fanno altro che accelerare processi ormai inevitabili, e il Covid-19 è bene ribadirlo senza girarci attorno – segna il definitivo superamento, e in certi casi il fallimento dei sistemi sanitari regionali che in questo periodo emergenziale hanno mostrato i limiti dell’assenza di una catena decisionale univoca con continui rimbalzi di responsabilità tra governo e regioni. Con un susseguirsi di delibere, Dpcm, ordinanze spesso in contrasto tra loro. Un caos istituzionale che, come sta accadendo, finirà soltanto in un aula di tribunale.
I sistemi sanitari regionali del resto hanno generato non solo una sanità a due velocità in termini squisitamente geografici, ma hanno accentuato ancora di più lo storico scollamento tra ospedale e territorio. Esempio lampante, la Lombardia, dove ha prevalso una politica sanitaria «ospedalocentrica» con diverse eccellenze, principalmente in campo oncologico, molte delle quali nella sanità privata convenzionata. Di qui un progressivo depotenziamento in termini di investimenti nel territorio (inteso come distretti sanitari, poliambulatori pubblici, centri vaccinali e medici di famiglia) che invece è fondamentale nella gestione delle epidemie (e non solo). Ma gli effetti negativi della pandemia, purtroppo, non si esauriscono con essa. A dircelo sono le migliaia di mancate diagnosi in campo oncologico e liste di attesa, ormai ingestibili con le risorse a disposizione. In quest’ottica deve essere certamente modificato il meccanismo di accesso alle innovazioni (quelle vere), sia per i farmaci che per i medical device, superando l’arcaica logica di «costo» e considerando le innovazioni come investimento nel medio lungo termine sulla salute globale. Va scardinata la logica dei «silos budget» che inquadra la spesa in farmaci e dispositivi soltanto nello specifico comparto dei cosiddetti costi diretti sanitari. Senza considerare che le cure innovative contribuiscono, principalmente per le patologie ad alto impatto invalidante, a una notevole riduzione dei costi indiretti sanitari sostenuti da Inps (invalidità, inabilità), Inail e sulla perdita di produttività (giornate di assenza al lavoro per malattia). Si potrebbero così generare notevoli risparmi e liberare risorse da investire ancora di più in prevenzione. Si badi in questo campo, l’Italia continua a essere sotto la media europea in termini di percentuale di Pil investito (8,9 per cento). Non è più eticamente tollerabile che le innovazioni che stanno rivoluzionando il paradigma delle cure, una volta approvate a livello europeo e nazionale (Ema e Aifa) debbano seguire un estenuante iter approvativo regionale che grida giustamente vendetta dalle associazioni di pazienti.
Fin qui le ombre. La pandemia ci consegna però anche un paese che si scopre tecnologico, suo malgrado. Fino a qualche mese fa la telemedicina era qualcosa di vuoto, un termine da utilizzare nei progetti di ricerca o negli speech congressuali. Oggi la visita virtuale è una realtà e va certamente incentivata con apposite risorse a partire dalle sentinelle della salute: i nostri medici di famiglia. Ma quest’emergenza ci conferma, se mai ce ne fosse bisogno, chi sono le vere eccellenze italiane: gli operatori della sanità. I medici, gli infermieri, gli anestesisti rianimatori, gli infettivologi, i medici del lavoro, gli igienisti. Tutti. Medici che hanno sopportato anni di frustrazione di fronte all’impotenza organizzativa di determinate realtà sanitarie. Medici che hanno svolto e svolgono un ruolo eccellente, nonostante gli stipendi tra i più bassi d’Europa, nonostante gli imbarazzanti rinnovi contrattuali e gli ancor più imbarazzanti tavoli di contrattazione che ritualmente si susseguono negli anni. I medici italiani (non il governo o le regioni) hanno evitato che la tragedia diventasse ancor più grande. E, da Nord a Sud, tranne qualche poco edificante polemica, hanno contribuito a salvare il nostro Paese. Ricordiamocelo.
di Marco Trabucco Aurilio
Fonte: Il Mattino – Speciale Salute & Prevenzione