Uno studio condotto sul farmaco lecanemab apre una nuova strada per la cura dell’Alzheimer. I dati dello studio sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine. Il medicinale ha dimostrato un rallentamento del declino della memoria del 27% in 18 mesi.
In passato, altri studi con anticorpi monoclonali avevano ottenuto il rallentamento della formazione di placche. Questo studio fa un passo oltre e dimostra che con un trattamento di 18 mesi i pazienti hanno migliorato – seppur in forma lieve – le funzioni cognitive.
Alzheimer: anticorpo monoclonale rallenta il declino
Lo studio peer-reviewed è stato condotto dal professor Christopher van Dyck, direttore dell’Unità di ricerca sul morbo di Alzheimer dell’Università di Yale, USA. Sono stati coinvolti 1.795 pazienti di età compresa tra 50 e 90 anni a cui era stato diagnosticato un Alzheimer precoce. Metà dei partecipanti hanno assunto il lecanemab, l’altra metà un placebo.
La gravità della loro demenza è stata valutata utilizzando una scala clinica che ha tenuto conto di diversi sintomi tra cui dimenticanze, difficoltà relazionali, capacità di risoluzione dei problemi e di vivere in modo indipendente. Sebbene la malattia sia progredita in entrambi i gruppi nei 18 mesi di studio, è peggiorata molto meno rapidamente in quelli che assumevano il lecanemab.
Effetti collaterali
Dai dati è emerso che il lecanemab è associato a diversi effetti collaterali, tra cui mal di testa e microsanguinamenti nel cervello. Circa il 6,9% dei partecipanti allo studio nel gruppo lecanemab ha interrotto lo studio a causa di eventi avversi, rispetto al 2,9% di quelli nel gruppo placebo.
In totale, gli eventi avversi gravi hanno interessato il 14% dei partecipanti del gruppo lecanemab e l’11,3% del gruppo placebo. I più comuni nel primo gruppo sono stati le reazioni alle infusioni endovenose e anomalie nelle risonanze magnetiche, come gonfiore cerebrale ed emorragia cerebrale chiamate anomalie di imaging correlate all’amiloide o ARIA. L’emorragia cerebrale ARIA è stata osservata nel 17,3% di coloro che hanno ricevuto lecanemab e nel 9% di quelli nel gruppo placebo. Il gonfiore cerebrale ARIA è stato documentato nel 12,6% con lecanemab e nell’1,7% con placebo, secondo i dati dello studio.
Per quanto riguarda i decessi, circa lo 0,7% dei partecipanti al gruppo lecanemab e lo 0,8% di quelli del gruppo placebo sono morti. Si tratta di sei decessi documentati nel gruppo lecanemab e sette nel gruppo placebo. Tuttavia, nessun decesso è stato considerato dagli studiosi correlato al lecanemab o verificatosi con ARIA.
Le cause dell’Alzheimer
Sempre ricercatori di Yale hanno realizzato un altro studio per indagare i processi all’origine dell’Alzheimer. Dai dati è emerso che il gonfiore causato da un sottoprodotto delle placche amiloidi nel cervello, un segno distintivo dell’Alzheimer, potrebbe essere la vera causa dei sintomi debilitanti della malattia. I ricercatori hanno identificato un biomarcatore che potrebbe aiutare i medici a diagnosticare meglio l’Alzheimer e fornire un bersaglio per terapie future. La notizia è stata riportata sulla rivista Nature.
In sostanza, ogni formazione di placca può causare un accumulo di rigonfiamenti a forma di sferoide lungo centinaia di assoni – i sottili fili cellulari che collegano i neuroni del cervello – vicino ai depositi di placca amiloide. I rigonfiamenti sono causati dal graduale accumulo di organelli all’interno delle cellule note come lisosomi. Questi ultimi hanno la funzione di digerire i rifiuti cellulari. Man mano che i rigonfiamenti si ingrandiscono possono attenuare la trasmissione dei normali segnali elettrici da una regione del cervello a un’altra. Questo accumulo di sferoidi provoca gonfiore lungo gli assoni, che a sua volta innesca gli effetti devastanti della demenza.
Secondo i ricercatori, una proteina nei lisosomi chiamata PLD3 causa la crescita e l’aggregazione di questi organelli lungo gli assoni, portando infine al rigonfiamento degli assoni e alla rottura della conduzione elettrica. Durante lo studio hanno usato la terapia genica per rimuovere il PLD3 dai neuroni nei topi con una condizione simile al morbo di Alzheimer. Ciò ha portato a una drastica riduzione del gonfiore assonale. Questo, a sua volta, ha normalizzato la conduzione elettrica degli assoni e migliorato la funzione dei neuroni nelle regioni cerebrali collegate da questi assoni. Secondo gli studiosi, il PLD3 può essere utilizzato come marcatore nella diagnosi del rischio di malattia di Alzheimer.
Un potenziale meccanismo di genesi della malattia
Un altro potenziale meccanismo di genesi della malattia è stato individuato dai ricercatori della NYU Grossman School of Medicine and Icahn School of Medicine al Mount Sinai. Lo studio ha evidenziato un cambiamento nel codice del DNA di un gene che svolge un ruolo chiave nelle difese immunitarie del cervello e che potrebbe dare corso alla malattia. I loro risultati sono stati pubblicati su Alzheimer’s and Dementia: The Journal of the Alzheimer’s Association.
Le nuove scoperte potrebbero offrire un potenziale bersaglio per le terapie in grado di influenzare direttamente le mutazioni genetiche, secondo gli autori dello studio. Il gene in questione, l’inositolo polifosfato-5-fosfatasi D (INPP5D), contiene istruzioni per la costruzione di enzimi che spingono le cellule immunitarie a fagocitare placche, pezzi danneggiati di cellule cerebrali, nonché batteri e virus. Nel caso di un suo malfunzionamento questo meccanismo di “pulizia” agirebbe con minor efficienza spianando la strada al morbo.