L’emergenza COVID-19 ha posto al centro dell’attenzione dei massimi esperti internazionali l’epidemiologia della malattia, ossia lo studio delle modalità di insorgenza, diffusione e frequenza della stessa in rapporto alle condizioni dell’organismo, dell’ambiente e della popolazione.
In particolare, gli studi si sono concentrati sulla ricerca di una possibile relazione fra smog e trasmissione del virus. L’ipotesi che l’inquinamento potesse essere responsabile di un aumento della possibilità di contagio deriva dall’enorme diffusione del Coronavirus in Pianura Padana, un’area ad altissimo tasso di inquinamento e ad alta densità abitativa, che ha presentato nei mesi scorsi un’elevato picco nei contagi.
I risultati di questi studi internazionali, ad oggi, smentiscono questa ipotesi, confermando che lo smog è un ‘alleato’ del virus, ma non contribuisce alla sua trasmissione: l’inquinamento non è dunque un vettore della malattia, non trasporta il virus nell’aria, ma, indebolendo l’organismo di chi vive in luoghi molto esposti allo smog, rende più serio il decorso della malattia e le complicanze in caso di contagio.
L’esposizione a lungo termine ad agenti atmosferici inquinanti riduce infatti in maniera sostanziale la funzione polmonare e aumenta la probabilità di insorgenza di malattie respiratorie, metaboliche e cardiovascolari. Anche il calo drastico delle infezioni a seguito del lockdown e delle misure di distanziamento sociale suggerisce che nella trasmissione del virus il particolato non sia decisivo, perché altrimenti sarebbe rimasto nell’aria per settimane e avrebbe potuto distribuirsi per chilometri.
I recenti studi, dunque, hanno dimostrato che la qualità dell’aria è uno dei fattori che possono influire sul decorso più o meno grave della malattia: il particolato atmosferico può veicolare particelle biologiche come batteri, spore, pollini e anche virus, ma sembra improbabile che il Coronavirus possa mantenere intatte le sue proprietà infettive dopo una permanenza più o meno prolungata all’esterno perché temperatura, essiccamento e raggi UV danneggiano l’involucro del virus e quindi la sua capacità di infettare. Perciò, ad oggi, non può essere confermata una relazione tra le variazioni giornaliere del particolato atmosferico e il numero dei contagi.
Per arrivare a dati conclusivi certi saranno comunque necessari studi epidemiologici rigorosi, con un’adeguata raccolta dei dati clinici ed ambientali su base individuale il più possibile omogenea su tutto il territorio nazionale così da studiare le possibili associazioni tra inquinamento e diffusione e decorso del COVID-19.
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