Il lavoro precario alla lunga provoca effetti dannosi per la salute. A questa conclusione sono arrivati gli studiosi di Aberdeen che hanno analizzato la vita lavorativa di 2.300 lavoratori inglesi per capire se periodi prolungati di precarietà incidano sul benessere fisico. «I risultati sono impressionanti e coerenti», scrivono. È emerso che – per ogni parametro di salute esaminato – più tempo un lavoratore ha trascorso con un contratto flessibile più ha avuto problemi, in una percentuale decisamente superiore a quella dei lavoratori con contratto stabile.
Insomma, il lavoro iperflessibile non è sinonimo di benessere e Ioannis Theodossiou e Keith Bender dell’università di Aberdeen lo hanno provato scientificamente nel loro studio The Unintended Consequences of Flexicurity: The Health Consequences of Flexible Employment.
L’ufficio nazionale di statistica ha calcolato che in Inghilterra più di 900 mila persone ormai lavorano con i cosiddetti zero-hours contracts, i contratti a zero ore, che non prevedono nemmeno un minino orario settimanale. Introdotti per andare incontro alle esigenze di flessibilità delle imprese, stanno diventando la forma più diffusa di nuova occupazione, tema molto discusso anche durante l’ultima campagna elettorale.
L’incertezza a cui sono sottoposti questi lavoratori provoca forti livelli di stress, con conseguenze negative sul loro stato di salute.
I risultati
A partire dall’ottavo anno di occupazione, le persone che hanno lavorato per almeno il 50% del tempo con contratti flessibili, hanno manifestato un peggioramento generale delle loro condizioni di salute. Per i ricercatori, le conseguenze sulla salute pubblica dell’incremento esponenziale della precarietà lavorativa potrebbero essere costose e molto deleterie per tutta la società.
Secondo gli studiosi, l’iperflessibilità comporta un alto prezzo in termini di aumento della spesa pubblica per la sanità e il crollo della produttività.