Credere che le malattie rare siano “poco diffuse” sarebbe un errore, sono malattie che singolarmente colpiscono “poche” persone, ma globalmente creano un universo ampio e molto frastagliato. Francesco Papadia, direttore dell’Unità malattie metaboliche e genetiche del Giovanni XXIII di Bari fa un’ulteriore distinzione: «Tra le malattie rare, quelle da accumulo lisosomiale ci mettono troppo spesso di fronte ai limiti che oggi si riscontrano sul territorio sul tema degli screening neonatali. Nei casi per i quali ci sono delle terapie efficaci si dovrebbe poter intervenire rapidamente, purtroppo però questo in molti casi non avviene». Facciamo un passo indietro.
Difetto genetico
Quando si parla di malattie da accumulo lisosomiale ci si riferisce a malattie legate ad un difetto enzimatico che determina accumulo di metaboliti o sostanze in una parte della cellula che si chiama “lisosoma”. In altri termini, è come se il meccanismo che permette alle cellule di liberarsi di alcune sostanze di scarto non funzionasse in maniera corretta, creando quindi un accumulo che finisce col compromettere la funzione di alcuni organi o dei muscoli. L’unità operativa che Papadia dirige è anche centro di riferimento regionale ed europeo (ERNS) per queste malattie. «Non essendoci uno screening neonatale – spiega l’esperto – ci si deve affidare ad uno screening puramente clinico. Questo però implica una conoscenza specifica che i medici di medicina generale spesso non hanno, in quanto è molto difficile sospettare clinicamente una malattia rara che non ha sintomi specifici».
Diagnosi tardiva
E qui il grande gap al quale si dovrebbe porre rimedio. Le malattie rare, anche quelle da accumulo lisosomiale, spesso presentano i sintomi più disparati. O magari non presentano alcun sintomo sino a quando non iniziano a prodursi dei danni. «In presenza di un sospetto si procede con un esame enzimatico su goccia di sangue assorbita su cartoncino (DBS). La diagnosi viene poi confermata dalla genetica e si procede a “stadiare” la malattia. Solo a questo punto si procede con la terapia». Le malattie da accumulo lisosomiale sono oltre 50 e solo per 8 esiste una terapia specifica basata su un enzima sostitutivo somministrato per via endovenosa (ERT). Per queste ultime arrivare ad una diagnosi precoce sarebbe fondamentale, perché la somministrazione dell’enzima può evitare che si producano danni, ma non può certo riparare gli organi o far regredire le lesioni già esistenti.
«La mucopolisaccaridosi 1 grave – spiega con un esempio Papadia – se non trattata per tempo ha una mortalità a 15 anni. È una malattia subdola, i genitori vedono un figlio nato apparentemente sano regredire nello sviluppo psicomotorio e deformarsi progressivamente. Si può intervenire con il trapianto di midollo, ma la diagnosi deve arrivare entro i 2 anni, non devono esserci lesioni cerebrali e ci dev’essere stato uno sviluppo psicomotorio adeguato. La verità è che spesso arriviamo tardi».
Chiaramente si tratta di semplificazioni, perché molto dipende dalle malattie e dalle forme, dall’espressività clinica. Insomma, gli aspetti da valutare sono moltissimi, ma la cosa certa è che intervenire quando ormai è tardi significa negare una chance di vita al paziente.
Nuove terapie
Un aspetto, quello della diagnosi precoce, sul quale Papadia si è sempre battuto: «Anche il miglior centro di riferimento, da solo, non risolve il problema. Ancora oggi abbiamo pazienti non diagnosticati o tardivamente diagnosticati. L’unica soluzione sarebbe avviare lo screening neonatale per le forme trattabili». Variabili e comunque non sempre significative sono anche le statistiche che descrivono l’epidemiologia di queste malattie. «La Puglia ha circa 50 o 60 pazienti affetti dal gruppo delle malattie lisosomiali trattabili al momento. Ma i dati non sempre ci dicono la verità, basti pensare che statisticamente la malattia di Fabry si presenta in 1 caso su 8.000, quindi la Puglia dovrebbe contare circa 4 casi l’anno e non è così». Una speranza per i pazienti affetti da un numero crescente di malattie rare lisosomiali (e non solo) arriva dalle nuove terapie e dalla ricerca: «I progressi sono molti e continui. Chiaramente in questo campo l’orizzonte temporale è ampio, ma il futuro ci appare incoraggiante. Credo che la politica dovrebbe lavorare sodo in questi anni per fare in modo che il territorio possa trovarsi pronto e stare al passo con i progressi della ricerca».