Tecnologia medica in urologia, importanza della prevenzione e biologia molecolare: tanti i progressi fatti nell’affrontare il tumore che colpisce la prostata. «La rivoluzione in chirurgia urologica si chiama Robot Da Vinci. Una rivoluzione, oramai realtà, che sta di fatto riducendo il ricorso alla laparoscopia, ormai superata da questa tecnologia: il Da Vinci permette una visione tridimensionale immersiva in grado di moltiplicare fino a 10 volte la normale visione dell’occhio umano, una maggiore facilità di accesso alle anatomie più complesse, una precisione maggiore e anche una diminuzione del tempo di degenza e degli effetti collaterali».
A spiegarlo è Vincenzo Mirone, professore ordinario di Urologia presso l’Università “Federico II” di Napoli, che aggiunge: «Resta insostituibile però la presenza umana: il chirurgo gestisce l’operazione da una console quasi sempre a due postazioni. La tecnologia minimizza l’impatto del tremore fisiologico delle mani, il carrello del paziente è fornito di quattro braccia movimentabili e interscambiabili e dell’attrezzatura che consente libertà di movimento su 7 assi e una rotazione di circa 540°. Il robot diventa dunque uno strumento che amplifica le mani del chirurgo, migliorandone notevolmente la precisione». Molteplici, poi, i trattamenti per la recidiva del tumore prostatico, «in molti casi si tratta di farmaci che vanno ad interferire con l’attività e con i livelli sierici di testosterone endogeno. Infatti, questo ormone è il “nutrimento” delle cellule tumorali e per questo un blocco della sua funzione può “affamare” le cellule che cominciano a rallentare e a morire. In particolare esistono formulazioni semestrali e nuovi antiandrogeni di seconda generazione utilizzabili negli stadi più avanzati».
I DATI
Parte dalla triste realtà dei numeri Sara Antonia Allegretta, direttore medico UPMC Hillman Cancer Center presso Villa Maria, a Mirabella Eclano: «In Italia nel 2019 sono stati diagnosticati 37.000 nuovi casi di tumore prostatico, che rappresenta il 22% di tutti i tumori maschili. Negli ultimi anni i casi registrati sono notevolmente cresciuti. Ciò dipende dall’aumento dell’età media e dalla diffusione del test PSA. Ma la mortalità per questo tipo di neoplasia si sta riducendo costantemente». La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per il cancro alla prostata è del 91%, una tra le più alte per le patologie oncologiche. La ragione è nella prevenzione e, quindi, nella diagnosi precoce con lo screening spontaneo del test PSA e con la visita urologica. «Le opzioni terapeutiche per il trattamento del cancro alla prostata sono molteplici – afferma Allegretta – e vanno scelte e personalizzate in base all’età del paziente, al suo stato di salute generale, all’estensione della neoplasia e alla sua eventuale diffusione extra-prostatica. La radioterapia svolge un ruolo fondamentale nel trattamento del carcinoma prostatico in tutti gli stadi, da quelli iniziali a quelli localmente avanzati. Può essere erogata come trattamento esclusivo o dopo la chirurgia, in presenza di specifici fattori di rischio, oppure per la comparsa di recidiva biochimica (progressivo rialzo del PSA) o di recidiva locale macroscopica. Nel tumore localizzato, il paziente può essere candidato a trattamento radioterapico ultraipofrazionato sulla prostata, cioè somministrato in sole 5 sedute a giorni alterni. La tecnica utilizzata consente di trattare il tumore con altissima precisione e il risultato è paragonabile a quello ottenibile con la chirurgia, ma l’invasività e gli eventuali effetti collaterali sono ridotti al minimo. Inoltre, la breve durata del trattamento rispetto alla radioterapia convenzionale migliora sensibilmente la qualità di vita del paziente». I pazienti con tumore della prostata oligometastatico, cioè con un numero limitato di metastasi, possono essere sottoposti a trattamento di radioterapia stereotassica in possibile associazione con terapia ormonale. Numerosi studi hanno dimostrato che per questo tipo di neoplasie, la radioterapia consente di rallentare la progressione di malattia. Anche in questo caso, l’obiettivo è quello di migliorare l’efficacia del trattamento e al tempo stesso di garantire un’elevata qualità di vita per il paziente.
TERAPIE A BERSAGLIO
«L’avvento delle tecniche di biologia molecolare avanzate e gli studi clinici condotti nell’ambito del carcinoma della prostata, basati sulla collaborazione tra biologi molecolari e clinici, hanno fatto fare passi da gigante nell’ambito della definizione di questo tumore – traspare ottimismo dalle parole di Michele Caraglia, professore ordinario di Biochimica presso l’Università della Campania “Luigi Vanvitelli”, Dipartimento di Medicina di Precisione -. Caratterizzare un tumore significa fare la carta d’identità alla malattia stessa comprendendo qual è il livello di pericolosità e di “cattiveria” di questo “bandito” che può aggredire il nostro corpo facendoci, in alcuni casi, morire tra le sofferenze».
La medicina rende possibile, oggi, capire se il tumore ha differenziazione neuroendocrina, una caratteristica che ne peggiora l’aggressività, e classificare il carcinoma della prostata in base al rischio di recidivare o dare metastasi. «Questo può guidare il clinico nell’essere più aggressivo nei trattamenti adiuvanti e nel follow-up dopo l’intervento chirurgico. Analogamente è possibile oggi avere il sospetto di un carcinoma della prostata con un semplice prelievo di sangue o di urine attraverso la ricerca di marcatori molecolari circolanti. Infine, l’avvento delle terapie basate su bersagli specifici espressi nel tumore ha coinvolto negli ultimi anni anche il carcinoma della prostata. Infatti, la ricerca di mutazioni in geni presenti nella crescita del tumore è essenziale per decidere se il paziente sia sensibile o meno all’attività anti-tumorale di alcuni farmaci. Insomma, siamo di fronte ad una rivoluzione nella diagnosi e nel trattamento di questo cancro, che cambierà completamente gli scenari futuri e contribuirà a limitare sempre di più la mortalità del tumore alla prostata», conclude Caraglia. cancro