Cuore e rene sembrano due organi distanti, ma hanno un legame strettissimo. La patologia di uno può indurre conseguenze nell’altro. Un’associazione di tipo fisiopatologico a livello cardiorenale fu descritta per la prima volta nel 1951, ma solo nel 2008, durante la conferenza promossa dall’ADQI (Acute Dialysis Quality Initiative), a Venezia è stata realizzata una classificazione con criteri diagnostici, strategie di prevenzione e gestione della sindrome cardiorenale 1. Quella di tipo II, invece, è una patologia estremamente comune nella popolazione, infatti problemi cardiaci cronici e insufficienza renale cronica coesistono spesso. Interessa tra il 20 e il 40% dei pazienti con scompenso cardiaco, mentre l’insufficienza renale è presente nel 45-63% dei soggetti con insufficienza cardiaca. I dati ottenuti rispecchiano i valori di due studi: il primo effettuato valutando i pazienti ammessi al ricovero per scompenso cardiaco acuto (ADHERE study) ed il secondo esaminando pazienti affetti da scompenso cardiaco cronico in regime di controllo ambulatoriale (DIG trial ).
Lo studio
Nello studio ADHERE , la malattia renale cronica era presente nel 63% dei pazienti (di cui 43% con disfunzione moderata, 31% con disfunzione severa, 7% con GFR<15 ml/min/m2) ed il suo grado era direttamente proporzionale al peggioramento delle condizioni del paziente. Nel DIG trial i soggetti affetti erano il 45% e presentavano un aumentato rischio di ospedalizzazione e mortalità. Le malattie cardiovascolari, renali e metaboliche condividono spesso gli stessi fattori di rischio; nell’ultimo Congresso dell’American Heart Association del 2018 è emerso sempre più chiaro questo evidente ‘matrimonio di interesse’.
“Danni renali acuti sono largamente rappresentati nei pazienti ricoverati, specialmente nelle unità di terapia intensiva (ICU). L’incidenza è del 70% nei ricoverati nelle ICU con una quota tra il 5 e il 25% che sviluppa una forma di compromissione severa tale da rendere necessaria la terapia sostitutiva della funzione renale (dialisi e trapianto). Forte anche il pegno in termini di mortalità che si aggira tra il 50 e l’80% –precisa il Prof. Claudio Ronco Direttore del reparto di Nefrologia dell’ospedale San Bortolo (Vicenza) – questa specifica forma di sindrome cardio renale, precisamente la 3, è associata ad una cascata di eventi proinfiammatori che ricadono sul muscolo cardiaco provocando ipertrofia miocardica ed accelerando il processo di aterosclerosi. Una valanga di citochine, chemochine, interferoni, interleuchine e Tumor Necrosis Factor sino ad un nuovo peptide, da poco indagato, chiamato TWEAK (Tumor Necrosis Factor-like weak inducer of apoptosis) potrebbero rappresentare nuovi target terapeutici”.
“Matrimonio che diventa triangolo o meglio un circolo vizioso quando insorge l’anemia, secondaria a malattie renali o cardiache. In queste ultime un calo dei livelli di emoglobina è presente in una percentuale variabile (a seconda degli studi) del 10-25% sino al 40-60% – spiega il Dottor Luca Di Lullo, Responsabile Scientifico del Congresso Cardionefrologia 2019 tenutosi a Roma nelle scorse settimane. “Quando entra in ballo la carenza di ferro e di emoglobina – continua – rapporti si fanno ancora più promiscui e interdipendenti: lo scompenso cardiaco può portare ad anemia secondaria (a causa delle produzione di sostanze infiammatorie che diminuiscono la produzione di eritropoietina ed a causa dell’emodiluizione dovuta al sovraccarico idrico), la malattia renale peggiora l’insufficienza cardiaca a causa dell’anemia e l’anemia peggiora lo stato di entrambe le condizioni. A livello cardiaco, in particolare, la carenza di ossigeno dovuta alla riduzione dei livelli di emoglobina provoca un deciso aumento del lavoro cardiaco ed aumenta il rischio di infarto”. Nei pazienti affetti da sindrome cardiorenale ed anemia secondaria, il trattamento con eritropoietina e con ferro per via endovenosa gioca un ruolo di primo piano nella gestione dei pazienti coinvolti.