Tagli su braccia e gambe. Allarme giovani: 200 mila vittime del cutting
Le stime sono preoccupanti: in Italia sarebbero almeno 200mila i ragazzi che praticano il cutting, ossia hanno l’abitudine di praticarsi tagli sul corpo, soprattutto su braccia e gambe.
Di questi, molto pochi arrivano a chiedere aiuto: questo accade perché il ricorso a comportamenti automutilanti rappresenta l’estremo tentativo di rendere tangibili sensazioni ed emozioni indefinite e angoscianti.
Nell’impossibilità di trovare “le parole per dirlo”, il ricorso a un’azione concreta, ancorché dolorosa e incomprensibile per un osservatore esterno, è comunque preferibile all’angoscia di qualcosa che non si riesce a capire e nemmeno controllare.
Al dolore fisico, così ben identificabile e condivisibile, è riconosciuta una dignità che al dolore mentale è ancora negata, essendo questo troppo spesso associato ora alla debolezza, ora alla psicopatologia.
La sofferenza psichica, in vero, non si identifica necessariamente né nell’una né nell’altra cosa, ma nel vissuto comune persiste l’abitudine ad associarlo a imbarazzo e persino vergogna; qualcosa da respingere, nascondere e, se proprio non c’è altro da fare, da sostituire con un dolore fisico, afferrabile e controllabile.
Scrive Marilee Strong nel suo “Un urlo rosso sangue”: «[Tagliarsi] è un meccanismo per affrontare i problemi […]. Mi aiuta a gestire le forti emozioni che non so gestire».
Al contrario di quanto si possa credere, tagliarsi non ha nulla a che fare con il suicidio. In chi pratica il cutting la morte, nei rari casi in cui essa si verifica, è per lo più un incidente, dovuto a tagli involontariamente troppo profondi.
Il desiderio di chi si taglia è anzi opposto alla morte: è l’estremo tentativo di recuperare il controllo sulla propria vita.
Tagliarsi ha a che fare con il desiderio di liberarsi del dolore. Nell’impossibilità di farlo, si cerca almeno di trasformarlo nella forma di dolore più gestibile e controllabile. Così tutte quelle emozioni e angosce che non trovano forma a parole, trovano forma di ferita e in quanto tali sono persino medicabili, quasi curabili, almeno per un poco.
Gli adolescenti che si tagliano non sono necessariamente afflitti da qualche disturbo mentale, anzi questi sembrano essere una minoranza.
Il cutting, semmai, apre la strada ad altre forme disfunzionali e pericolose di gestione dei propri stati emotivi, come l’isolamento, la depressione, il cercare rifugio nell’uso di sostanze, avviando un circolo vizioso che si aggrava e cronicizza nel tempo.
Per questa ragione l’intervento precoce è fondamentale ed è importante che un genitore presti attenzione ad alcuni comportamenti dei propri figli, come l’indossare abiti inappropriati alla stagione, soprattutto in estate, il ritrovamento di macchie di sangue sui vestiti di cui non ci siano ragioni plausibili, il possesso di oggetti taglienti come temperini o coltellini, l’abitudine a isolarsi in casa, in particolar modo in bagno.
Soprattutto è importante che un genitore non reagisca giudicando oppure manifestando rabbia, paura o disgusto. E’ necessario che tenga a mente che, per quanto gli appaia incomprensibile, questo è l’unico modo che il figlio o la figlia hanno trovato per fronteggiare un periodo difficile.
Alternative più funzionali al ferirsi, naturalmente, esistono: ma la loro costruzione non è una ricetta preconfezionata e il loro utilizzo di certo non scontato o immediato.
Per questo la strada da intraprendere prevede che a mettersi in gioco sia tutta la famiglia e non solo chi è diventato portatore esplicito della sofferenza.
Lo psicologo può aiutare la famiglia a trovare le parole per il dolore del giovane sofferente e può aiutare la famiglia a proteggere chi è in un momento di fragilità dai fattori di rischio a cui è esposto e dal pericolo della cronicizzazione.
Un percorso familiare, soprattutto, mette tutta la famiglia in condizione di trovare nuove letture, nuovi equilibri e soprattutto una nuova resilienza per affrontare le sfide della vita.