Dalla diagnosi al percorso terapeutico, l’importanza del sostegno psicologico
Nonostante se ne parli spesso male, evidentemente anche per una naturale inclinazione all’autocritica, il nostro sistema sanitario resta uno dei migliori al mondo. Carente, in alcuni casi, in quella che si definisce “umanizzazione delle cure. Dell’importanza del dialogo e di un sostegno psicologico ai pazienti abbiamo parlato con la professoressa Francesca Romana De Gregorio, psicologa e psicoterapeuta del Centro studi di terapia familiare e relazionale di Roma. «La comunicazione di una diagnosi – spiega De Gregorio è sempre un evento traumatico. Se poi la diagnosi riguarda una malattia rara il dramma è duplice. Un sostegno psicologico sarebbe sempre fondamentale».
Ritiene che oggi la rete possa colmare questo gap?
«Un paziente che riceve una diagnosi, se non assistito in modo corretto, rischia di essere fagocitato dal web. Un mondo ricco di informazioni ma anche di fake news».
Rispetto alla presa in carico, sotto il profilo psicologico, come valuta la situazione dell’Italia?
«Nel nostro Paese si alternano, a macchia di leopardo, situazioni molto diverse. A zone di eccellenza si susseguono territori dove c’è poco o nulla. Siamo un Paese all’avanguardia sotto molti profili, ma a volte ci si trova in territori che sono sprovvisti anche di un minimo di risorse».
Convivere con una malattia è sempre ragione di stress emotivo, lo è ancor più per una patologia rara?
«Pur non essendo esperta in malattie rare mi sento di dire di sì. La medicina non è scienza esatta, si va per tentativi ed errori, e le malattie più diffuse sono quelle che riusciamo ad affrontare meglio. Se una malattia è rara probabilmente non esistono protocolli rodati, non c’è una casistica che possa suffragare dati certi. Talvolta non ci sono le terapie ed è difficile anche solo arrivare alla diagnosi. In queste condizioni i pazienti si possono sentire ancor più soli»
Anche le famiglie hanno bisogno di sostegno emotivo?
«La presa in carico della famiglia e della rete sociale è fondamentale. Da tre anni mi occupo di approfondire pratiche dialogiche e soprattutto del dialogo aperto, che si usa molto negli esordi psichiatrici o nella tutela dei minori. Penso sia fondamentale cercare di coinvolgere nel sostegno dei pazienti anche tutti gli attori che fanno parte della rete sociale e familiare. È l’unico modo di vincere la solitudine. Inoltre, la stessa rete deve essere supportata, perché assistere un paziente che soffre significa dover sopportare un forte carico emotivo».
Che ruolo giocano i medici in questo senso?
«Un ruolo centrale. Purtroppo alcune volte capita che siano poco inclini al dialogo. In alcuni casi ci sarebbe bisogno di un approccio molto empatico e compassionevole. Senza dubbio il medico è colui che ha strumenti scientifici per aiutare il paziente, ma questo non basta, serve una presa in carico anche emotiva sin dall’esordio della malattia».
Rispetto al sostegno psicologico di questi pazienti, ritiene che esistano approcci più efficaci di altri?
«Io non credo che si possa parlare di un approccio migliore di altri. Gli approcci sono tantissimi, da quelli cognitivo-comportamentali a quelli psicodinamici. La cosa importante è il dialogo, non ci si deve mai dimenticare che ogni paziente è prima di tutto una persona».