La povertà diventa una malattia. Cala di due anni l’aspettativa di vita
Essere poveri può accorciare la vita di due anni. Un calo dell’aspettativa dell’esistenza paragonabile a quella di chi fuma, beve, fa poca attività fisica o soffre di diabete. Lo rivela uno studio condotto da Lifepath e pubblicato sulla rivista The Lancet che ha seguito lo stato di salute di quasi due milioni di individui, in tutta Europa, per 13 anni.
Insomma, vivere in condizioni sociali ed economiche precarie accorcia la vita, in media, di 2,1 anni. Per avere un’idea più chiara di quanto un’esistenza ai limiti della sopravvivenza possa essere dannosa, basta guardare le altre statistiche: un fumatore ha un’aspettativa di vita più bassa di quasi 5 anni, un malato di diabete di quattro e una persona fin troppo sedentaria di due anni e mezzo. La ricerca fa parte di un progetto, finanziato dalla Commissione Europea, che ha l’obiettivo di individuare i meccanismi biologici che stanno alla base delle differenze sociali nella salute. “Ci siamo sorpresi quando abbiamo scoperto che vivere in condizioni sociali ed economiche povere può costare caro quanto altri potenti fattori di rischio come il fumo, l’obesità e l’ipertensione – ha affermato Silvia Stringhini, ricercatrice all’University Hospital di Losanna, in Svizzera, e coordinatrice dello studio – Queste circostanze possono essere modificate con interventi politici e sociali mirati, per questo dovrebbero essere incluse fra i fattori di rischio su cui si concentrano le strategie globali di salute pubblica”.
“È noto – ha spiegato Mika Kivimaki, professore all’University College London e co-autore dello studio – che educazione, reddito e lavoro possono influire sulla salute, ma pochi studi avevano cercato di valutare quale fosse il peso effettivo di questi fattori. Per questo abbiamo deciso di confrontare l’impatto dello status socioeconomico sulla salute mettendolo a confronto con quello di sei fra i principali fattori di rischio”.
I ricercatori hanno analizzato la salute di più di 1,7 milioni di persone che vivono in tutta Europa, tra Gran Bretagna, Italia, Portogallo, Stati Uniti, Australia, Svizzera e Francia. La vita di queste persone è rimasta sotto la lente degli scienziati per 13 anni. I dati ottenuti da questa lunga fase di osservazione sono stati analizzati con appositi metodi statistici e confrontati con quelli relativi ad alcuni dei principali fattori di rischio inclusi nel piano strategico globale dell’Oms chiamato “25×25”.
In conclusione, estendere la prevenzione anche a fattori come il lavoro o l’educazione infantile, può migliorare la salute globale. “Lo status socioeconomico è importante perché include l’esposizione a diverse circostanze e comportamenti potenzialmente dannosi, che non si limitano ai classici fattori di rischio come fumo o obesità, sui quali si concentrano le politiche sanitarie – ha concluso Paolo Vineis, professore all’Imperial College London e coordinatore di Lifepath – L’obiettivo principale del nostro progetto è quello di capire attraverso quali processi biologici le disuguaglianze sociali si traducono in disuguaglianze per la salute. Così facendo potremo fornire accurate prove scientifiche a istituzioni sanitare e decisori politici, che a loro volta potranno migliorare l’efficacia delle loro strategie di intervento sulla salute pubblica”.