Se l’esofago si restringe e s’infiamma
L’esofagite eosinofila è una malattia dell’esofago che sino a qualche tempo fa si considerava rara, oggi sappiamo invece che le diagnosi sono in costante crescita, anche se molto spesso la malattia resta “nascosta” a lungo prima che si riesca ad individuarla. Proviamo a conoscerla meglio avvalendoci dell’esperienza della professoressa Caterina Strisciuglio (dipartimento della Donna e del Bambino – Università della Campania Luigi Vanvitelli di Napoli).
Corto circuito
“L’esofagite eosinofila – ci spiega – è un’infiammazione immunomediata, una malattia infiammatoria cronica e progressiva dell’esofago, caratterizzata dall’infiltrazione di quelle cellule che, appunto, si chiamano eosinofili“. Semplificando, la malattia è legata ad una sorta di “corto circuito” del sistema immunitario (un’infiammazione definita di tipo 2) che causa fibrosi e restringimento dell’esofago. “A lungo andare l’esofago perde la sua naturale elasticità rendendo molto difficile, a volte impossibile, la deglutizione”. Purtroppo, ancora oggi c’è un ritardo diagnostico che in molti casi arriva anche ad un anno dalla comparsa dei primi sintomi. “Non è facile individuare l’esofagite eosinofila – prosegue la specialista – perché è comunque, ancora oggi, una malattia emergente, che spesso ha manifestazioni sintomatologiche molto generiche e subdole”.
Comportamenti adattivi
Contribuiscono a ritardare il sospetto diagnostico anche i comportamenti adattivi che, quasi istintivamente, i pazienti adottano. “Accade spesso che i bambini e gli adolescenti che soffrono di questa malattia tendono a bere molto durante i pasti, a masticare a lungo e mangiare lentamente. Così i mesi passano, fino a quando non si arriva ad al punto limite. Non di rado la prima diagnosi avviene in pronto soccorso, quando i medici sono costretti ad intervenire in emergenza per rimuovere il bolo alimentare dall’esofago”. Facile comprendere perché una diagnosi precoce possa fare la differenza. Ma a che età si ha il picco di incidenza? “Comunemente – chiarisce la professoressa Strisciuglio -nella seconda decade, ma osserviamo sempre più spesso casi di bambini che non hanno ancora compiuto 10 anni. Parlo di bambini, e non di bambine, perché la malattia è decisamente più frequente nel sesso maschile”.
Danni all’esofago e sintomi
Esistono dei campanelli d’allarme che un genitore possa cercare di cogliere? “Sì, ma parliamo sempre di sintomi che possono essere attribuiti ad altre patologie. Di certo il vomito dopo i 18 mesi, se frequente, o un ostinato rifiuto del cibo deve mettere in allarme”. Così, ancora una volta, torna centrale il tema della diagnosi. “Oltre a riconoscere i sintomi, cosa che non è sempre facile, è essenziale eseguire un esame endoscopico “esofago-gastro-duodenoscopia” nel corso del quale devono essere eseguite alcune biopsie dell’esofago che consentono di individuare la presenza degli eosinofili; benché si tratti di un esame invasivo è decisivo per evitare di diagnosticare la malattia in una fase avanzata”. Come molte malattie con un’infiammazione di tipo 2 alla base, l’esofagite eosinofila richiede un controllo prolungato e a lungo termine della patologia, non limitato al controllo dei sintomi.
Terapie
Quanto alle terapie, “nonostante la disponibilità di opzioni, una quota di pazienti continua – ad oggi – ad avere un forte bisogno insoddisfatto di nuovi approcci di gestione della malattia. Le persone affette da esofagite eosinofila spesso devono seguire diete alimentari rigide e restrittive e nei casi più gravi possono essere necessari un tubo per l’alimentazione o un’operazione di dilatazione dell’esofago per fronteggiarne il restringimento”. L’innovazione nella gestione del paziente con esofagite eosinofila arriva con lo sviluppo di nuovi farmaci biologici che ad oggi sono disponibili e approvati anche nell’Unione Europea per il trattamento di pazienti di almeno 12 anni nei quali i trattamenti “convenzionali” non abbiano dato i risultati sperati. “La malattia – conclude Caterina Strisciuglio – ha certamente un forte impatto sulla qualità di vita dei pazienti, ecco perché è essenziale che fare il massimo per affrontarla quanto prima e nel miglior modo possibile”.