SLA, dalla ricerca nuova possibile cura
La Sclerosi Laterale Amiotrofica è una malattia degenerativa che in Italia colpisce 6mila persone, secondo le stime. Provoca una paralisi progressiva di tutta la muscolatura scheletrica che porta all’immobilità degli arti, il blocco della parola e della deglutizione e, infine, la perdita del respiro. Ai devastanti effetti sul corpo si aggiungono le conseguenze sugli aspetti sociali, economici, psicologici che si abbattono sull’ammalato e su tutto il gruppo familiare. La complessa assistenza di malati che hanno difficoltà a respirare e a nutrirsi spesso non trova i dovuti riscontri e il senso di abbandono si insinua ad amplificare sofferenze già enormi. “La ricerca sulle cause e i meccanismi di malattia rappresenta l’unica via per arrivare a individuare una terapia efficace”. – Ha detto il professor Mario Sabatelli, docente di neurologia all’Università Cattolica campus di Roma, Direttore Centro Clinico Nemo Adulti- Policlinico Gemelli e Presidente della Commissione Medico Scientifica di AISLA. “Negli ultimi anni – ha raccontato in occasione della Giornata Mondiale della SLA – la ricerca in campo genetico ha presentato un impressionante sviluppo e uno studio pubblicato lo scorso anno sulla prestigiosa rivista “New England Journal of Medicine”, sta animando i pensieri e le speranze del mondo scientifico.
Nel 10% dei casi la SLA è familiare, mentre nel restante 90% dei casi la malattia si manifesta come forma sporadica. Dei tanti geni identificati fino a oggi, il gene SOD1, è responsabile di circa il 2% delle SLA.
Possibile cura per le persone affette da SLA con mutazioni nel gene SOD1. Lo studio
Nel luglio 2020 è stato pubblicato sul NEJM uno studio sull’uso del Tofersen (noto anche come BIIB067), un oligonucleotide antisenso in grado di legarsi specificamente all’RNA messaggero di SOD1, come possibile trattamento per le persone affette da SLA con mutazioni nel gene SOD1(Miller et al.).
È uno studio condotto su un piccolo numero (50) persone con SLA da mutazione SOD1. La dose di 100 mg ha determinato una riduzione significativa della concentrazione della proteina tossica nel liquor e l’analisi del decorso clinico, effettuato mediante scale standard, ha mostrato una differenza tra placebo e pazienti che hanno ricevuto il farmaco. La differenza era molto marcata nel sottogruppo di ammalati con una mutazione associata a una forma aggressiva di malattia (fast progressors). In questo gruppo, in chi ha ricevuto il farmaco la scala ALS-FRS è rimasta invariata a 85 giorni e la misurazione della respirazione ha mostrato una perdita media di 5 punti percentuali a fronte di un caduta severa dei valori nelle persone che hanno ricevuto placebo.
“Nonostante il piccolo numero di pazienti incluso nello studio e il breve follow-up impongano una necessaria cautela nel fare considerazioni conclusive, i dati pubblicati appaiono di straordinaria importanza. “Innanzitutto – ha sottolineato l’esperto – per la prima volta si utilizza un farmaco con un razionale molto solido in un contesto di medicina di precisione: la causa (mutazione SOD1) e il meccanismo patogenetico (effetto tossico della proteina mutata) non sono ipotesi ma evidenze dimostrate. Inoltre l’effetto clinico osservato appare rilevante perché le forme di SLA a rapida progressione da mutazione SOD1 hanno un decorso stereotipato, invariabilmente molto aggressivo. Entro pochissimi mesi avremo il risultato del secondo studio attualmente in corso e in questa previsione pochi giorni fa è stato avviato il programma di accesso a tale terapia che si svolgerà tra luglio e novembre in due tappe, dando priorità agli ammalati con forme rapidamente progressive. Anche se, va ribadito ancora una volta con chiarezza, non vi è ancora certezza dei risultati e la terapia potrà interessare solo il 2% delle persone con SLA, cioè quelli con mutazione del gene SOD1, questo è un momento importante nella storia di questa malattia nella speranza che un primo successo possa determinare una sorta di effetto a cascata sulla ricerca di altri farmaci”.