Cancro-Trombosi: legame pericoloso, ma sottovalutato
La trombosi è per i pazienti oncologici la seconda causa di morte dopo la neoplasia stessa. Una complicanza frequente e spesso fatale, eppure spesso sconosciuta o sottovalutata dai pazienti rispetto al cancro. Daiichi Sankyo Italia ha presentato ieri alla stampa il rapporto di MediPragma “Cancro e tromboembolismo venoso: il peso della convivenza sui pazienti”, una ricerca realizzata in Italia con interviste ai pazienti oncologici in terapia eparinica per il tromboembolismo venoso. L’obiettivo è comprendere, attraverso testimonianze dirette, l’impatto di questa condizione di co-morbilità sulla vita quotidiana di chi ne è afflitto e le strategie di coping attuate per gestirla.
TEV e cancro
Il cancro viene oggi considerato un fattore di rischio cardiovascolare perché si associa ad una aumentata incidenza di eventi tromboembolici, infatti il TEV è una co-morbilità frequente e ricorrente nel paziente con cancro, con un’incidenza di sei volte superiore rispetto alla popolazione generale, e ne costituisce la seconda causa di morte dopo la neoplasia stessa. Il tromboembolismo venoso (o tromboembolia venosa) insorge con la formazione di un coagulo di sangue all’interno di una vena profonda, di solito negli arti, o nella pelvi (Trombosi Venosa Profonda), e se un frammento del coagulo si stacca e viaggia fino ad ostruire le arterie polmonari determina una embolia polmonare. Studi su pazienti sopravvissuti al cancro hanno dimostrato che circa un terzo di essi muore per malattia cardiovascolare. Di tutti i casi di TEV il 20% si verifica proprio nel paziente oncologico, e ciò dipende da vari fattori quali il tipo di tumore, lo stadio e l’estensione del cancro, l’età, l’immobilizzazione, la chirurgia e alcuni trattamenti chemioterapici.“La correlazione tra queste patologie è ormai al centro dell’attività assistenziale e di ricerca dell’ematologia italiana, soprattutto da quando le nuove terapie hanno cronicizzato la maggior parte delle neoplasie ematologiche prima incurabili, rendendo particolarmente importante il ruolo delle alterazioni coagulative – specialmente la trombosi venosa e l’embolia polmonare- legate alle neoplasie stesse o alla loro terapia”, ha spiegato il Prof. Sergio Siragusa, Vice Presidente S.I.E Società Italiana Ematologia, commentando gli ultimi dati di letteratura scientifica.
Il rischio è maggiore nei primi mesi fino a due anni dopo la diagnosi, e il rischio di recidiva persiste anche successivamente. Inoltre, i pazienti oncologici in trattamento per TEV hanno sopravvivenza minore, prognosi peggiore e costi sanitari più elevati rispetto a coloro che non soffrono di eventi tromboembolici. Inoltre durante la chemioterapia il rischio di TEV è fino a 7 volte maggiore se paragonato ai pazienti senza cancro.
“Per tutte queste ragioni, la conoscenza da parte dei medici e dei pazienti delle problematiche legate al TEV è fondamentale – ha dichiarato il Prof. Antonio Russo, Ordinario di Oncologia Medica presso l’Università degli studi di Palermo – dal momento che queste sono molto correlate con il processo neoplastico poiché ne impattano il management e la prognosi”. Le linee guida ESMO sottolineano da diversi anni che il TEV ha importanti risvolti sia sulla prognosi dei pazienti oncologici sia sulla loro qualità di vita eppure, nonostante sia una complicanza a volte devastante e potenzialmente fatale, gli stessi oncologi spesso sottostimano questo tipo di tossicità e di riflesso molti pazienti non seguono cure adeguate. A sottolineare la necessità di informare e sensibilizzare innanzitutto pazienti e caregiver e in secondo luogo istituzioni e operatori sanitari sui rischi di questa patologia correlata al cancro è stato il Prof. Francesco De Lorenzo, Presidente della Coalizione europea dei pazienti oncologici (ECPC) e Presidente della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (FAVO) il quale ha dichiarato che: “Il rischio di trombosi correlato al cancro è pressoché ignorato non soltanto dai malati italiani, ma anche da quelli di numerosi Paesi europei e a dimostrarlo chiaramente sono i risultati di un sondaggio europeo condotto da ECPC sul livello di consapevolezza dei pazienti oncologici sui rischi della trombosi: il 72% dei pazienti intervistati ha rivelato di non essere consapevole di correre un maggiore rischio di TEV, e per il 28% di coloro che invece ne erano consapevoli, la conoscenza della patologia è avvenuta solo dopo averla sperimentata, ma il livello di comprensione delle implicazioni si è dimostrato comunque basso. Un altro dato rilevante riguarda le modalità con cui ne sono venuti a conoscenza, solo il 13% dei pazienti ha ricevuto informazioni in merito da medici ospedalieri e il 6% dai medici di base, mentre gli altri hanno fatto ricerche personali o si sono confrontati con parenti e amici”.
Cancro e tromboembolismo venoso: il peso della convivenza – La voce dei pazienti
Una scarsa consapevolezza emerge dalla ricerca italiana MediPragma, che rileva come il peso del tromboembolismo venoso e della terapia eparinica giunga come inaspettato per i pazienti oncologici. Spesso non erano stati preventivamente preparati dallo specialista di riferimento. Ne deriva una minimizzazione della gravità del TEV rispetto al cancro, sia da parte del medico che del paziente, che considerano la terapia, rispetto alle preoccupazioni dettate dal cancro, come un fatto transitorio, nonostante emergano le difficoltà di una somministrazione quotidiana di eparina: una terapia percepita come invasiva, definita anche come “scolapasta” per via delle numerose iniezioni che causano ematomi addominali e dolore alla somministrazione che spesso, tra l’altro, richiede l’aiuto di un caregiver. Il conflitto tra le strategie di coping e sottovalutazione e la realtà della gestione della terapia, intaccano ulteriormente la tenuta psicologica e la voglia di combattere del paziente che è già di per sé un paziente fragile che ha dovuto affrontare un percorso ad ostacoli: diagnosi di tumore, chemioterapia e/o radioterapia, diagnosi di TEV, inizio della terapia eparinica.
A ciò si aggiunge la perdita di autonomia del paziente che non riesce più ad uscire da solo e trova difficile svolgere in modo indipendente anche banali attività come salire le scale.
Le interviste delineano dunque un impatto devastante sulla vita dei pazienti e dei loro familiari e caregiver, che ha un prezzo altissimo a livello psicologico, economico e sociale. L’insorgenza del TEV in pazienti con tumore può comportare, infatti, l’allontanamento dal lavoro e l’isolamento sociale, e un conseguente peso sui familiari. L’impossibilità di essere autosufficienti e l’allettamento seppur temporaneo a causa del TEV, faticano ad essere accettati dal paziente in quanto rappresentano inconsciamente una indiretta percezione di sconfitta nei confronti del tumore. Emerge dunque il bisogno di un maggiore supporto da parte dei medici non solo nella preparazione di ciò che devono affrontare ma una vicinanza rassicurante e costante che risolva loro i dubbi sulla gestione pratica della terapia.