Tempo di lettura: 2 minutiLe etichette dei cibi che si dichiarano a basso contenuto di qualcosa potrebbero risultare ingannevoli. È necessario, invece, analizzare l’intero profilo nutrizionale del prodotto e gli ingredienti.
Una semplice scritta, come: “basso contenuto di sale” o “senza grassi” non basta. Le diciture si basano, infatti, su confronti con altri cibi e non rappresentano definizioni standard. A dirlo è uno studio made in Usa, pubblicato sul Journal of the Academy of Nutrition and Dietetics (2017).
“I consumatori dovrebbero capovolgere la confezione e guardare l’intero profilo nutrizionale nonché la lista degli ingredienti per capire meglio se in generale il prodotto è più o meno sano”, afferma Lindsay Smith Taillie della University of North Carolina di Chapel Hill.
Lo studio ha analizzato i dati di più di 80 milioni di acquisti per cibi e bevande effettuati negli USA da 40.000 famiglie dal 2008 al 2012. Le famiglie a più alto reddito tendono ad acquistare prodotti con questo tipo di claim. Ciò conferma che questo tipo di asserzioni hanno più appeal per le persone maggiormente istruite. Il 13% dei cibi e il 35% delle bevande acquistate, durante la ricerca, includevano prodotti con “basso contenuto” di qualcosa. Gli acquisti di prodotti con pochi grassi erano i più comuni, seguiti da quelli con poche calorie, pochi zuccheri e poco sodio. In media, i cibi confezionati con un basso livello di nutrienti avevano il 32% in meno di calorie, l’11% in meno di zuccheri e circa la metà di grassi e sodio rispetto a quelli che non pubblicizzavano niente di simile sulle confezioni.
Tuttavia, alcuni dei prodotti che si definivano a basso contenuto di nutrienti in realtà ne avevano di più dei cibi che non asserivano niente. Inoltre, Smith Taillie ha spiegato che quando un prodotto dice di avere pochi zuccheri, potrebbe contenere meno zuccheri di un prodotto di riferimento o di uno simile, “ma ciò non significa che abbia una qualità nutrizionale complessivamente migliore”. Oppure, “si potrebbe trattare di un cibo con molti zuccheri ma pochi grassi e quindi verrà pubblicizzato come a basso contenuto di grassi sull’etichetta. Ma ciò non significa che sia salutare. Essenzialmente, può essere fuorviante prendere una decisione su un prodotto basandosi solo su ciò che si afferma sulla parte anteriore della confezione”.
La U.S. Food and Drug Administration regola ciò che i prodotti possono asserire – afferma Taillie – Non c’è un errore tecnico nel dichiarare che un prodotto ha un basso contenuto di qualcosa, ma le regole che permettono di farlo variano in base al tipo di affermazione e alla categoria di cibo”.
In conclusione, secondo gli esperti, capire l’etichetta con i valori nutrizionali è più importante del concentrarsi sulle asserzioni di marketing. Le etichette, infatti, possono confondere.
Basta un respiro profondo per ritrovare la serenità
News Presa, Prevenzione, Psicologia, Ricerca innovazioneBasta un respiro profondo per combattere lo stress. È il nostro aiuto a portata di mano, ma spesso lo sottovalutiamo. Il ritmo del respiro, invece, ha un potenziale enorme: è in grado di agire sulla nostra mente, influenzare le emozioni e allontanare l’ansia.
Respirare lentamente per alcuni secondi diffonde immediatamente un senso di calma, così come respirare rapidamente fa salire tensione. È un processo semplice e noto da millenni, ma che finora non aveva mai avuto una spiegazione scientifica. Oggi, finalmente, in uno studio pubblicato su Science, i ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno identificato un gruppo di neuroni che collegano la respirazione agli stati d’animo e sono responsabili della calma, questo spiega anche i benefici della meditazione e il suo ruolo contro lo stress. La respirazione profonda è una componente essenziale di tutte le varietà di meditazione. Il piccolo gruppo di neuroni che collegano la respirazione a rilassamento, attenzione, eccitazione e ansia si trova in profondità nel tronco cerebrale, in una zona scoperta nel 1991 chiamata complesso di pre-Bötzinger. Questa sorta di ‘pacemaker respiratorio’ ha a che fare con molti tipi diversi di respiro associati a diverse emozioni: regolare, rilassato, eccitato, ansimante, singhiozzante, sospirante.
Guidati da Mark Krasnow, i ricercatori si sono quindi chiesti se differenti sottotipi di neuroni all’interno del centro di controllo respiratorio fossero responsabili di generare questi diversi tipi di respiro. Hanno quindi identificato più di 60 sottotipi neuronali presenti nella parte del tronco cerebrale in cui risiede il centro di controllo della respirazione e, per esaminare il loro ruolo nella respirazione, li hanno eliminati eliminanti selettivamente in topi. In particolare si sono concentrati su una sottopopolazione di neuroni che esprimono due marcatori genetici chiamati Cdh9 e DBX1.
Quando li hanno eliminati nei roditori, hanno notato con sorpresa gli animali ancora respiravano normalmente ma con una piccola differenza: lo facevano in modo più lento. Inoltre, osservandone i comportamenti hanno notato che erano straordinariamente calmi, anche in situazioni particolarmente stimolanti, e trascorrevano meno tempo ad esplorare l’ambiente circostante e più tempo fermi.
Tendiamo ad imitare gli altri: pigrizia e impazienza sono contagiose.
News Presa, Psicologia, Ricerca innovazione“Dimmi con chi vai e ti dirò chi sei” diceva un vecchio proverbio. E in effetti, secondo uno studio francese alcuni tratti della personalità sarebbero persino influenzati dalle persone che ci stanno accanto. Insomma, tendiamo a copiare gli altri.
Lo studio pubblicato sulla rivista “PLoS Computational Biology”, dai ricercatori francesi dell’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica (Inserm) francese, ha spiegato questo meccanismo. Insomma, che piaccia o no, la prudenza è contagiosa, così come l’impazienza e la pigrizia.
Combinando psicologia cognitiva e modelli matematici, Jean Daunizeau e Marie Devaine hanno esplorato le leggi che guidano la nostra capacità di valutare rischio, ritardo e fatica. Nell’esperimento, i ricercatori hanno sottoposto 56 volontari ad alcune situazioni, esaminandone inizialmente il comportamento in assenza di interferenze. Nella seconda fase, prima di rispondere, le persone osservavano la condotta di un partecipante fittizio, l’algoritmo di un’intelligenza artificiale, nelle cui decisioni prudenza, pazienza e pigrizia erano calibrate in modo avveduto.
Ne è emerso che i volontari venivano influenzati e si innescava un meccanismo di falso consenso. I partecipanti erano soggetti a due distinti pregiudizi. Il primo, l’effetto del falso consenso, è la tendenza a proiettare sugli altri il proprio modo di pensare. Un pregiudizio comunemente presente in un ambiente di gruppo nel quale si pensa che l’opinione collettiva coincida con quella di una popolazione più vasta.
Il secondo fattore coinvolto è l’influenza sociale che si manifesta quando un individuo, trovandosi in situazioni incerte, assume il comportamento degli altri come fonte di informazioni e si adegua a tale comportamento. Curiosamente, l’influenza sociale è in parte dovuta all’effetto del falso consenso. All’inizio essa aumenta con il falso consenso ma presto diminuisce quando questo raggiunge una larga diffusione.
Lo studio ha dimostrato che entrambi i pregiudizi, e la loro interazione, fanno parte di un unico meccanismo che ci permette di studiare e imparare dal comportamento degli altri. Insomma, l’allineamento di comportamento sarebbe un automatismo innescato dal bisogno (in parte deluso) di sperimentare emozioni di conformità sociale.
Dolore cronico, un incubo per 13milioni di italiani
News PresaIl dolore cronico è qualcosa di cui si parla poco, ma purtroppo per moltissime persone (circa 95milioni di persone dai 15 anni in su in tutta Europa) è una realtà quotidiana. Alcuni sono costretti a conviverci per 7 o 8 anni e una percentuale significativa ne è affetta per più di 20 anni. Nella «geografia del dolore cronico» l’Italia non fa eccezione. Si parla infatti di circa 13milioni di persone (il 50% degli over 70, in gran parte donne) coinvolte in questo incubo.
Il Sud Italia
In quadro che già di per se è a tinte fosche i pazienti del Sud sono spesso costretti a costosi viaggi della speranza (o della disperazione) verso le strutture ospedaliere del Nord. E allora è una buona, anzi un’ottima notizia che in Basilicata (a Rionero in Vulture) sia operativo il Centro di Terapia del Dolore dell’IRCCS CROB (Centro di Riferimento Oncologico della Basilicata). Inserito nell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione, il Centro è un «Hub regionale» per la diagnosi e i trattamenti avanzati di Terapia del Dolore, sia di natura oncologica che di altro tipo. Non a caso, è stato accreditato come struttura di eccellenza dal «World Institute of Pain». Il Centro di Terapia del Dolore può affrontare patologie di vario tipo, comprende un’area di accoglienza presso il Day Surgery, una sezione infermieristica con sala per la preparazione dei farmaci, un ambulatorio per visite, aree di degenza breve e monitoraggio pazienti. E ancora, sala per le procedure medico-chirurgiche più semplici, sala operatoria attrezzata e dotata di fluoroscopia ed ecografia. La stretta collaborazione con gli psicologi del centro consente di dare grande attenzione all’accoglienza dei pazienti e all’umanizzazione del rapporto, un aspetto di vitale importanza soprattutto per i malati oncologici e che aggiunge valore alle terapie farmacologiche e ai trattamenti di chirurgia antalgica.
Costante e persistente
Per dolore cronico, va ricordato, si intende un dolore costante, che persiste per molti mesi, spesso per anni, che può manifestarsi in qualsiasi parte del corpo. Può essere conseguenza di una malattia o di una lesione, oppure può svilupparsi senza una ragione apparente. In termini clinici viene definito dolore nocicettivo (legato a una lesione, un taglio, un’ustione) oppure neuropatico, che affligge cioè le fibre nervose. Questo significa che viene colpita la capacità dei nervi di inviare al cervello segnali sul dolore, un aspetto che conoscono molto bene le migliaia di pazienti che soffrono di dolori alla schiena o alla testa. Nonostante i numeri e la sua invasività, che può seriamente compromettere la qualità della vita quotidiana impedendo anche gesti molto semplici, il dolore cronico resta una delle patologie peggio comprese e più sottotrattate in ambito medico.
Studiare il DNA può predire l’insorgenza di un tumore
News Presa, Ricerca innovazioneAlcune malattie sono scritte nel nostro DNA. O meglio dall’analisi del nostro codice genetico possiamo sapere se abbiamo una predisposizione allo sviluppo di alcuni tipi di tumore. Uno straordinario passo in avanti in questo senso arriva dal progetto D.I.V.A. acronimo di Database Italiano Varianti BRCA1 e BRCA2, nato grazie alla collaborazione tra sei Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) italiani, vede coinvolto il “Giovanni Paolo II” quale esclusivo Istituto meridionale.
La rete
L’obiettivo della rete che comprende anche il Centro di Riferimento Oncologico (CRO) di Aviano, l’AOU San Martino- Istituto nazionale per la ricerca sul cancro (IST) di Genova, l’Istituto Scientifico Romagnolo per lo Studio e la cura dei Tumori (IRST) di Meldola (FC), l’Istituto Nazionale Tumori (INT) di Milano, l’Istituto Oncologico Veneto (IOV) di Padova, con il fondamentale supporto del Consorzio Interuniversitario CINECA per gli aspetti informatici e gestionali, è di realizzare un database che raccolga e cataloghi i dati sulle varianti dei principali geni responsabili dello sviluppo ereditario del tumore della mammella e dell’ovaio (BRCA1 e BRCA2), allo scopo di promuovere la qualità e l’omogeneità dell’interpretazione dei test su questi geni con finalità cliniche e, contestualmente, accrescere e condividere le conoscenze a livello internazionale.
Varianti ereditarie
L’intenzione dei promotori di D.I.V.A. è quella di riuscire a realizzare un sistema virtuoso in cui i singoli operatori, di laboratorio e clinici, trovino un riferimento autorevole per dare risposte corrette alle donne che si sottopongono al test BRCA (i potenziali danni iatrogeni di una errata classificazione sono molto importanti e non possono non essere considerati; si pensi, ad esempio, alla chirurgia profilattica mammaria e/o ovarica in donne sane, eseguita in assenza di una chiara evidenza di una predisposizione genetica) e possano nel contempo concorrere all’avanzamento delle conoscenze, anche se operano in centri periferici (ogni segnalazione di varianti rare è preziosa per arrivare ad una classificazione corretta). Oggi sappiamo che le donne portatrici di alcuni tipi di varianti ereditarie dei geni BRCA1 o BRCA2 corrono un alto rischio di sviluppare, nel corso della propria vita, tumori della mammella e dell’ovaio. Poter riconoscere tale situazione di predisposizione genetica consente alle donne di prendere in considerazione, fin dalla giovane età, varie opzioni di riduzione del rischio per questi tumori.
Dieta: il “basso contenuto” sulle etichette dei prodotti inganna?
Alimentazione, News Presa, Ricerca innovazioneLe etichette dei cibi che si dichiarano a basso contenuto di qualcosa potrebbero risultare ingannevoli. È necessario, invece, analizzare l’intero profilo nutrizionale del prodotto e gli ingredienti.
Una semplice scritta, come: “basso contenuto di sale” o “senza grassi” non basta. Le diciture si basano, infatti, su confronti con altri cibi e non rappresentano definizioni standard. A dirlo è uno studio made in Usa, pubblicato sul Journal of the Academy of Nutrition and Dietetics (2017).
“I consumatori dovrebbero capovolgere la confezione e guardare l’intero profilo nutrizionale nonché la lista degli ingredienti per capire meglio se in generale il prodotto è più o meno sano”, afferma Lindsay Smith Taillie della University of North Carolina di Chapel Hill.
Lo studio ha analizzato i dati di più di 80 milioni di acquisti per cibi e bevande effettuati negli USA da 40.000 famiglie dal 2008 al 2012. Le famiglie a più alto reddito tendono ad acquistare prodotti con questo tipo di claim. Ciò conferma che questo tipo di asserzioni hanno più appeal per le persone maggiormente istruite. Il 13% dei cibi e il 35% delle bevande acquistate, durante la ricerca, includevano prodotti con “basso contenuto” di qualcosa. Gli acquisti di prodotti con pochi grassi erano i più comuni, seguiti da quelli con poche calorie, pochi zuccheri e poco sodio. In media, i cibi confezionati con un basso livello di nutrienti avevano il 32% in meno di calorie, l’11% in meno di zuccheri e circa la metà di grassi e sodio rispetto a quelli che non pubblicizzavano niente di simile sulle confezioni.
Tuttavia, alcuni dei prodotti che si definivano a basso contenuto di nutrienti in realtà ne avevano di più dei cibi che non asserivano niente. Inoltre, Smith Taillie ha spiegato che quando un prodotto dice di avere pochi zuccheri, potrebbe contenere meno zuccheri di un prodotto di riferimento o di uno simile, “ma ciò non significa che abbia una qualità nutrizionale complessivamente migliore”. Oppure, “si potrebbe trattare di un cibo con molti zuccheri ma pochi grassi e quindi verrà pubblicizzato come a basso contenuto di grassi sull’etichetta. Ma ciò non significa che sia salutare. Essenzialmente, può essere fuorviante prendere una decisione su un prodotto basandosi solo su ciò che si afferma sulla parte anteriore della confezione”.
La U.S. Food and Drug Administration regola ciò che i prodotti possono asserire – afferma Taillie – Non c’è un errore tecnico nel dichiarare che un prodotto ha un basso contenuto di qualcosa, ma le regole che permettono di farlo variano in base al tipo di affermazione e alla categoria di cibo”.
In conclusione, secondo gli esperti, capire l’etichetta con i valori nutrizionali è più importante del concentrarsi sulle asserzioni di marketing. Le etichette, infatti, possono confondere.
Un modo nuovo di guardare il corpo umano
News Presa, Ricerca innovazioneGuardare il corpo umano come mai prima d’ora. Sarà possibile molto presto, gli scienziati dicono già dal 2018, grazie alla prima «PET total body», vale a dire una tomografia a emissione di positroni che potrà restituire ai clinici immagini ad altissima risoluzione di tutti gli organi del corpo. La notizia è stata pubblicata su Science Translational Medicine ed è di quelle alle quali il mondo della medicina guarda come ad una rivoluzione. Del resto, come si può facilmente capire, il macchinario potrebbe avere un impatto enorme sulla ricerca medica.
Nuove prospettive
Guardare così il corpo umano, vedere oltre ciò che è concesso con le tecnologie attuali, potrà portare a diagnosi sempre più accurate e terapie mirate. Ad esempio sarà possibile esaminare potenziali effetti collaterali tossici dei farmaci, ovvero in che parti del corpo vanno a finire e la loro concentrazione in ogni tessuto e organo. Non è un caso che il prototipo di questa macchina sia cghiamato Explorer (EXtreme Performance LOng REsearch scanneR), una porta su mondi sconosciuti che sarà pronto nel 2018. Ovviamente la macchina sarà utilizzabile in ambito clinico solo dopo l’approvazione della Food and Drug Administration (FDA, l’ente regolatorio statunitense).
Come funziona
La PET utilizza particelle radioattive per rintracciare le impronte di malattie come cancro e neurodegenerazione ed è oggi molto usata nella pratica clinica grazie alla sua capacità diagnostica, ma non può fornire immagini ad alta risoluzione che includano tutti gli organi del corpo. Cosa che potrà fare il nuovo prototipo su cui sono a lavoro i ricercatori della University of California a Davis. Il dispositivo è lungo 2 metri e avrà diversi vantaggi rispetto alla PET tradizionale, spiegano i ricercatori intervistati su “Science”. Oggi la PET è limitata dal fatto che la radiazione viene emessa in tutte le direzioni e confonde l’immagine. «Con lo scanner total-body – dice Simon Cherry – circondiamo il corpo di rilevatori, che fermano che le radiazioni e le trasformano in segnale. Questo ci permetterà di ridurre la dose di radiazioni necessarie» e che saranno pari a quelle ricevute in un volo andata e ritorno Los Angeles-Londra.
Essere genitore allunga la vita, lo dice uno studio. Vantaggi da anziani
Bambini, News Presa, PrevenzioneAvere dei figli allunga la vita, secondo una ricerca. I riflessi positivi si vedono soprattutto in età anziana, quando la salute e l’autonomia si riducono. A 60 anni di età, la differenza di aspettativa di vita di una persona che ha figli e una che non ne ha è significativa: potrebbe essere anche di ben 2 anni in più per i genitori. E questa differenza cresce quanto più si invecchia. La ricerca che evidenzia questa tesi è stata condotta da Karin Modig, del Karolinska Institutet di Stoccolma, e pubblicata sul Journal of Epidemiology & Community Health. Gli esperti hanno analizzato l’aspettativa di vita di 704.481 maschi e 725.290 donne, tutti nati tra 1911 e 1925. Confrontando le aspettative di vita a partire dai 60 anni di età, è emerso che il rischio di morte degli anziani genitori è sempre inferiore al rischio dei loro coetanei che non hanno figli. La differenza di rischio aumenta al crescere degli anni, quindi un genitore anziano gode di un’aspettativa di vita maggiore di un anziano coetaneo non genitore. Questo è tanto più vero per i maschi e per i genitori che non sono sposati.
Anche se lo studio non individua una relazione di causa-effetto, i risultati suggeriscono che il non avere figli è svantaggioso per la mancanza di supporto, soprattutto nell’ultima fase della vita. Insomma essere genitori alla lunga ripaga degli sforzi iniziali sostenuti durante la crescita dei figli.
Ansia e depressione, quegli italiani che si sentono in balia delle correnti
PsicologiaAnsia, depressione, attacchi di panico. Sono solo tre dei grandi mali di questo millennio fatto di incertezze e di ritmi forsennati. Non meraviglia che i dati dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) parlino per il 2020 di una vera e propria epidemia di depressione. Ovviamente il termine “epidemia” è una provocazione, ma questo non cambia la sostanza delle cose. Più della metà della patologie mentali si manifesta nella tarda adolescenza, e la metà delle nazioni mondiali hanno un solo psichiatra infantile per ogni 2 milioni circa di abitanti. Ogni anno si registrano circa 800mila suicidi l’anno, un numero enorme che lascerebbe a bocca aperta anche se si stesse parando di una guerra.
In balia delle correnti
Il dramma di chi è colpito da un disturbo psichico o psichiatrico è spesso quello di non trovare nel pubblico un punto di riferimento adeguato. Chi soffre di questi problemi si trova spesso sballottato da un centro all’altro, costretto ad aspettare per ore il proprio turno per una visita. E tristemente, molte volte chi dovrebbe offrire una valutazione e una terapia è stanco e demotivato. Chi ha problemi psicologici o psichiatrici finisce per sentirsi come in balia delle correnti, e questo destabilizza non poco una condizione già molto precaria. Attorno a queste persone servirebbe invece attenzione, cura, sostegno e professionalità. In una parola servirebbero “risorse”.
L’eccezione che conferma la regola
Come sempre, vale l’obbligo di non fare di tutta l’erba un fascio. Vale a dire che in un mondo (quello pubblico) che vive di stenti, di tagli lineari e di strette al bilancio, si trovano anche delle sacche d’eccellenza e delle isole felici. Spesso anche fondazioni private che cercano di sopperire alle carenze pubbliche. In questo caso però ci si deve affidare alla buona sorte. Peccato che l’articolo 32 della Costituzione parla di una Repubblica, la nostra, che «tutela la Salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». La domanda è: ci rispecchiamo ancora in questa descrizione? La risposta è nelle esperienze di ciascuno, nella coscienza di quella politica che è chiamata a vigilare sul benessere e, perché no, sulla Salute del popolo sovrano.
Si vive sempre più a lungo. Nel 2030 aspettativa media donne di 90 anni, per gli uomini oltre gli 80.
News Presa, Prevenzione, Ricerca innovazioneLa vita è sempre più lunga nei 35 paesi industrializzati: l’aspettativa, infatti, va aumentando almeno del 65% per le donne e dell’85% per gli uomini nel 2030. Lo dice l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). A superare per prime al mondo la barriera dei 90 anni come aspettativa di vita media saranno le donne della Corea del Sud che raggiungeranno questo record nel 2030, seguite da quelle di Francia, Spagna e Giappone. Lo stimano i ricercatori dell’Imperial Colle di Londra e l’Oms in uno studio pubblicato sulla rivista Lancet. Tra gli individui di sesso femminile, l’Italia nel 2030 perderà due posizioni, collocandosi al nono posto (ma rimanendo comunque tra le prime 10), dopo Portogallo e Slovenia, mentre il Giappone perderà il suo attuale primato. Anche per gli individui di sesso maschile le prospettive migliorano, ridurranno, infatti, le distanze dalle donne. C’è oltre il 95% di probabilità che la loro aspettativa di vita alla nascita in Corea del Sud, Australia e Svizzera superi gli 80 anni entro il 2030, e del 27% oltre gli 85 anni (l’Italia al nono posto). Stati Uniti, Giappone, Svezia, Grecia, Macedonia e Serbia sono quelli che avranno i minori miglioramenti per entrambi i sessi. In tutto il mondo comunque il vantaggio delle donne rispetto agli uomini dovrebbe ridursi entro il 2030, tranne che in Messico, dove la crescita nell’aspettativa per il sesso femminile sarà maggiore di quella maschile, e in Cile, Francia e Grecia, dove i due sessi cresceranno in modo simile. L’allungamento della vita non riguarda allo stesso modo, invece, i paesi più poveri del mondo che vivono un particolare stato di precarietà sia dal punto di vista alimentare che di vita.
Chi usa troppo i social percepisce tre volte di più il senso di solitudine
News Presa, Prevenzione, PsicologiaChi trascorre troppo tempo sui social avverte tre volte di più il senso di solitudine. A dirlo è una ricerca pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine che ha studiato i comportamenti di 1.787 persone tra i 19 e 32 anni negli Stati Uniti. I questionari sottoposti ai partecipanti sono stati pensati nel 2014 da ricercatori dell’Università di Pittsburgh in Pennsylvania e riguardavano la frequenza e il tempo trascorso su diverse piattaforme come Facebook, YouTube, Twitter, Instagram, Snapchat, Pinterest e LinkedIn. I ricercatori hanno scoperto che le persone che li usavano per più di due ore al giorno erano due volte più propensi a sentirsi socialmente isolati rispetto a chi li utilizzava per meno di mezz’ora al giorno. In particolare, chi ha visitato piattaforme social 58 o più volte a settimana vedeva aumentare di tre volte il rischio di isolamento sociale percepito rispetto a coloro che facevano meno di nove visite a settimana. Insomma, secondo gli autori, ciò potrebbe esser dovuto al fatto che il tempo speso sui social sostituisce quello per la comunicazione faccia a faccia. Ma un’altra possibile spiegazione è che il senso di esclusione aumenti perché sui social gli utenti vedono amici divertirsi ad eventi a cui non hanno partecipato. “E’ possibile che chi inizialmente si sentisse socialmente isolato si sia rivolto ai social media, oppure potrebbe essere che il maggiore uso dei social abbia portato alcune persone a sentirsi isolati dal mondo reale, o una combinazione di entrambi”, sottolinea l’autrice senior Elizabeth Miller, docente di pediatria presso l’Università di Pittsburgh. Sembrerebbe un vero paradosso, si chiamano sociaal network, ma possono far sentire molto più soli.