Tempo di lettura: 2 minutiUn vecchio adagio recita: «Il medico pietoso fece la piaga puzzolente», per dire che il medico non dovrebbe mai lasciarsi impietosire dalle lamentele dei suoi pazienti. L’unico obiettivo deve essere la miglior cura. Oggi si scopre che è lo stato d’animo del medico stesso a fare la differenza, in attesa di una diagnosi o di una cura. Già, la serenità del medico (o la sua insoddisfazione), può fare la differenza: una sua parola o un suo atteggiamento possono infatti sollecitare emozioni diverse nel paziente, fino a condizionare il percorso terapeutico.
Università e in corsia
Purtroppo i dati sul grado di soddisfazione dei medici non sono rassicuranti, a partire dalle università. Gli studenti partono con entusiasmo ed empatia, ma presto imparano ad «indurirsi». E non va meglio per i colleghi medici che già sono in servizio, che spesso sono esauriti, hanno pensieri negativi, e hanno sintomi importanti da «burnout». Alcuni specialisti più di altri: a maggior rischio gli oncologi, i medici di pronto soccorso, i chirurghi. Della felicità dei medici ha parlato Elisabetta Cofrancesco, medico e psicoterapeuta, presidente dell’associazione Ref (Ricerca, Educazione e Formazione per la qualità della vita dell’ammalato), nel corso del Festival di Bioetica a Santa Margherita Ligure.
Dati allarmanti
«I dati sono allarmanti» ha detto Cofrancesco citando alcune indagini. Le tre D (Drug, Drink and Depression) – riferisce la rivista Jama (2018)- sono frequenti fra i medici Usa, fino al 50%, hanno pensieri di suicidio (6-12%), un tasso più del doppio rispetto a quello di altri professionisti (tra le donne medico tre volte più frequenti rispetto ai colleghi maschi); spesso vivono in conflitti coniugali. In Europa uno studio condotto da Esmo (European Society for medical Oncology) lo scorso anno, che ha coinvolto 737 oncologi di 41 paesi, ha rilevato che il 71% di essi avevano una forte condizione di burnout. «Questo problema del burnout – ha proseguito Cofrancesco – comincia presto, già all’università. Si è visto che fra gli studenti di medicina lo stato di stress è più altro rispetto a quelli di altri corsi di studio. Gli studenti ‘imparano’ a staccarsi dalle emozioni».
Sentimenti sbagliati
Alcuni esperti attribuiscono questa condizione ad una sorta di “machismo” che riguarda la classe medica riguardo a sentimenti di infallibilità e di onnipotenza. «A questo si aggiunga una sorta di addestramento, inconsapevole, per diventare insensibili alle emozioni più forti, come il dolore, la sofferenza, la rabbia, la paura, la mort». Alla fine si ha “il cuore indurito”. Il burnout, la sindrome caratterizzata appunto da “esaurimento emotivo e spersonalizzazione”, mette a rischio non solo la vita dei medici ma “anche la sicurezza del paziente, facendo aumentare gli errori medici”. Una condizione che risente anche di fattori esterni come l’eccesso di burocrazia, lo scarso personale, gli orari e i carichi di lavoro eccessivi. La soluzione al problema del burnout, e della conseguente infelicità, c’è. «I medici, che non sanno di stare male, devono accettare i propri limiti e la propria vulnerabilità, devono aumentare la capacità di resilienza e recuperare il proprio ‘sentire’ attraverso una formazione improntata alla crescita personale e al lavoro su di sé”, perché “un medico felice instaura una buona relazione con il paziente. Mentre all’Università si insegna troppa tecnologia».
Diagnosi hi-tech, una scoperta tutta italiana
Ricerca innovazioneDiagnosi precoce è l’imperativo categorico di qualunque buon medico, in un futuro non troppo lontano saranno fantascientifici sistemi elettronici ad allertarci all’insorgere di una malattia. Anzi, ancor prima che questa inizi a svilupparsi. Il nocciolo di questo incredibile passo in avanti per la medicina convenzionale è tutto in una scoperta italiana, un transistor minuscolo capace di individuare singole proteine.
Bio-marcatori
Come detto, obiettivo della studio era è quello di scoprire e quindi diagnosticare patologie progressive non solo prima che i sintomi si manifestino, ma addirittura appena l’organismo produce i primi bio-marcatori specifici. Quindi una vera e propria rivoluzione per la diagnostica medica che, ad oggi, si basa su tecnologie che sono in grado di rivlevare, quando sono molto efficienti, i marcatori solo quando sono migliaia. Non è certo un caso che Nature Communications abbia pubblicato il lavoro e Nature abbia pubblicato su questa innovativa tecnologia SiMoT un “technology highligth”
Collaborazione eccellente
Questo grande successo italiano si lega ad una collaborazione tra l’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ifn), l’Università degli studi di Bari Aldo Moro (Uniba), l’Università di Brescia (Unibs) e il Consorzio per lo sviluppo di sistemi a grande interfase (Instm) e si tratta della prima misura record di una singola molecola di proteina, usando un transistor di dimensioni millimetriche. Il lavoro è frutto di un approccio interdisciplinare coordinato da Luisa Torsi docente all’Università di Bari e condotto dal responsabile Cnr-Ifn di Bari, Gaetano Scamarcio, con un team di chimici, fisici ed ingegneri formato da Cinzia Di Franco del Cnr, Giuseppe Mangiatordi, che prenderà servizio al Cnr a dicembre, Eleonora Macchia, Kyriaki Manoli, Brigitte Holzer, Domenico Alberga e Gerardo Palazzo di Uniba, Fabrizio Torricelli e Matteo Ghittorelli di Unibs.
Gola in cancrena per la cocaina. Muore uomo a NY
News PresaA New York un uomo è morto perché la cocaina gli ha mandato in cancrena la gola. Dopo essere stato trasportato in ospedale privo di conoscenza, è stato rianimato e gli è stato somministrato un inibitore della pompa protonica via endovena, ma 12 ore dopo il ricovero non ce l’ha fatta. Secondo quanto riporta il New York Post, l’uomo è un 50enne della Pennsylvania, a portarlo al pronto soccorso è stato un amico dopo che per tre volte aveva vomitato sangue. I medici hanno poi scoperto che la gola e l’esofago erano in necrosi avanzata, fatto che attribuiscono all’uso continuo di cocaina e di alcol (circa 4-5 lattine di birra al giorno, secondo quanto ha riferito l’amico che lo ha soccorso).
La necrosi dell’esofago e della gola è una malattia che si manifesta in rarissimi casi ed è causata da agenti chimici, al punto che quello della Pennsylvania è il quarto caso conosciuto in tutto il mondo, secondo fonti sanitarie.
La cocaina oggi è una delle droghe più diffuse e consumate nel pianeta. Nonostante sia considerata una droga per ricchi, negli ultimi anni la tendenza si è decisamente invertita. Ad esempio, è aumentato il consumo tra i giovani e le università sembrano essere tra i luoghi dove se ne consuma di più, secondo l’ultima indagine delle Nazioni Unite.
Dal World Drug Report 2017 dell’UN Office on Drugs and Crime, emerge che al mondo ci sono dai 13 ai 22 milioni di consumatori abituali di cocaina. Per quanto riguarda l’Europa, la maggioranza dei sequestri avviene in Spagna, Olanda e Francia.
L’Italia invece è il terzo paese dell’Unione Europea per uso di cannabis e il quarto per uso di cocaina, secondo i dati contenuti nella Relazione europea sulla droga 2018 dell’Osservatorio europeo delle droghe e delle tossicodipendenze (EMCDDA), pubblicata il 7 giugno scorso.
Tumore al seno, uniti per vincerlo
PrevenzioneContro il tumore del seno si può vincere, una diagnosi non è più una sentenza. A dirlo è la storia di Angela, che grazie al lavoro della breast unit del Cardarelli di Napoli è riuscita a guarire e oggi si impegna per tramettere ad altre donne il valore della prevenzione. Farcela, affrontare la malattia a testa alta, sapere che vincere il tumore è possibile è «una delle lezioni più importanti che ho imparato al Cardarelli. Per me, condividere l’esperienza vissuta è anche un modo di onorare il lavoro di quanti mi hanno aiutata con passione e dedizione. Il risultato raggiunto è il frutto di un lavoro di squadra che ha ben compreso l’importanza della prevenzione e della ricerca. Ecco perché non posso non ringraziare quanti hanno creduto in questo progetto».
Raccolta fondi
Per raccogliere fondi da destinare alle attività della brest unit del Cardaerlli, la Lilt Napoli ha organizzato domenica scorsa una passeggiata di solidarietà. Più di mille persone si sono unite a questo evento che ha colorato d’arancio il centro di Nola, i partecipanti hanno infatti indossato le maglie e i cappellini messi a disposizione dal brand Expert e “venduti” per la cifra simbolica di 5 euro. La breast unit è divenuta negli anni un vero e proprio punto di riferimento a livello regionale e oggi in procinto di ottenere la certificazione EUSOMA (ente europeo per lo studio dei tumori della mammella). L’unità operativa del Cardarelli ha diagnosticato nel 2017 ben 325 casi di neoplasia della mammella. Di questi ben 248 sono stati anche operati. Dati confermati nel 2018 e negli ultimi sei mesi di quest’anno l’unità operativa sta proseguendo gli interventi al ritmo di 9 a settimana.
Assieme si può
Nel corso della mattinata a Nola l’oncologo Nando Riccardi ha fatto conoscere a tutti la realtà della breast unit partenopea. Oltre a lui hanno preso la parola i vari specialisti che, da 10 anni, lavorano a questa realtà: il chirurgo Martino Trunfio, il radiologo Salvatore Minelli, il patologo Gianfranco De Dominicis. Tutti assieme hanno trasferito alle donne il lavoro di diagnosi e cura dell’unità senologica del Cardarelli, attività basata sul lavoro d’equipe e sulla collegialità delle decisioni: unica organizzazione efficace nell’affrontare il tumore della mammella.
Lavoro di squadra
Il direttore sanitario del Cardarelli, Franco Paradiso sottolinea: «La breast unit ci mette in condizione di rendere concreti i risultati dello screening che si svolge sul territorio. Le campagne di screening individuano dei dubbi o sospetti diagnostici; a quel punto la donna deve iniziare un percorso di diagnosi che richiede l’intervento di specialisti esperti. Nella beast unit la donna trova esperti delle diverse discipline (radiologo, patologo, chirurgo, oncologo) un team multidisciplinare che permette di arrivare alla diagnosi di certezza e alla cura necessaria. Inoltre – aggiunge – la breast unit può garantire tempi abbreviati: esistono infatti degli intervalli di tempo che vanno rispettati – tra la diagnosi di tumore e l’intervento; tra l’intervento e l’inizio della cura». Orgoglioso di questa esperienza, il Direttore generale Ciro Verdoliva spiega che è «un frammento di ciò che si sta costruendo nella Rete Oncologica Campana (ROC) per ogni sede di patologia ed è ciò a cui tendere nel futuro prossimo: un percorso strutturato, equo, attendibile – tutto campano».
Anello contraccettivo che dura un anno: ok negli Usa
PrevenzioneDagli Stati Uniti è arrivato il via libera al primo anello vaginale contraccettivo che può essere usato per un anno intero. La notizia è stata diffusa sul sito ufficiale della Food and Drug Administration, l’ente governativo americano che gestisce la regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici insieme al Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti. L’anello è stato chiamato Annovera, è composto da materiale biodegradabile ed è flessibile. Dopo averlo inserito, deve rimanere per 3 settimane, seguite da un intervallo libero, prima di essere inserito nuovamente dalle donne. E così per un anno.
L’anello vaginale è uno degli strumenti di contraccezione ormonale per uso vaginale. Poiché le quantità di ormoni rilasciate sono basse, l’anello vaginale viene considerato un contraccettivo ormonale a basso dosaggio, con efficacia paragonabile a quella delle pillole di ultima generazione. Inoltre, a differenza della pillola, l’efficacia dell’anello rimane inalterata in caso di disturbi gastrointestinali (vomito e diarrea) o in caso di assunzione concomitante di antibiotici ad ampio spettro. Gli anelli disponibili fino ad oggi fornivano protezione contraccettiva per un mese. Oggi il nuovo anello dura un anno, è a base di estradiolo e progesterone, non richiede la conservazione in frigo, ma basta lavarlo e riporlo in una custodia in un luogo dove non vengano superati i 30 gradi centigradi.
Prima di avere il nulla osta per la vendita ha dovuto superare tre test clinici fatti su donne sane di età compresa tra i 18 e i 40 anni. Per quanto riguarda gli effetti collaterali, dai test è risultato che Annovera provoca gli stessi disturbi di altri prodotti contraccettivi ormonali come mal di testa, nausea e dolori addominali.
Tuttavia l’uso del prodotto è controindicato a donne fumatrici sopra i 35 anni. Il motivo risiede nel fatto che il fumo combinato all’uso di questo genere di contraccettivi aumenta il rischio di problemi cardiovascolari.
Un interruttore che spegne la fame. È stato appena scoperto
AlimentazioneUn interruttore che spegne la fame: in molti lo avranno desiderato, chissà quante volte. Oggi un gruppo di scienziati lo ha scoperto. Il team di ricercatori dell’Università di Aberdeen (Scozia) ha individuato uno specifico sistema in grado di mettere a tacere la fame. Prendendo di mira una specifica area del cervello che controlla l’appetito si potrebbe contrastare il rischio obesità.
Si tratta di un gruppo di cellule, chiamate neuroni POMC, che se “accese” producono l’ormone della pienezza, quello che l’organismo invia al cervello dopo un pasto. Queste cellule, secondo gli studiosi, fungerebbero da interruttore provocando risvolti rapidi sul comportamento alimentare. I risultati dello studio sono stati pubblicati sulla rivista Cell Metabolism. I test sono stati condotti sui topi: nel momento in cui venivano attivati i neuroni POMC le cavie iniziavano a mangiare di meno.
La coordinatrice dello studio, Lora Heisler, ha dichiarato che questa scoperta aprirà le porte a nuovi farmaci che potrebbero essere sviluppati per controllare l’appetito e migliorare la salute.
L’obesità è considerato una delle emergenze a livello mondiale. Nel 2017 – secondo un recente studio presentato durante l’European Congress on Obesity di Vienna che riguarda i paesi di tutti i continenti, compresa l’Italia – il 14% della popolazione era obesa e il 9% aveva il diabete di tipo 2. sulla base dei dati dell’Oms degli ultimi anni nello studio sono state fatte le proiezioni al 2045, ottenendo un valore rispettivamente del 22% per gli obesi e del 14% per i diabetici.
Pollini: italiano scopre meccanismi che provocano allergie
Ricerca innovazioneUn ricercatore dell’Ateneo di Pisa ha scoperto i meccanismi che provocano le allergie ai pollini. Si chiama Franco Ruggiero ed è un dottorando del dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa. Il suo studio sui pollini allergenici è stato premiato come miglior articolo di ricerca del 2018 dall’International Association for Aerobiology (IAA). La consegna ufficiale del riconoscimento è prevista durante l’11^ Congresso Internazionale in Aerobiologia in programma a Parma dal 3 al 7 settembre. Ha collaborato nello studio il professore Gianni Bedini dell’Ateneo pisano. L’indagine si è concentrata sui cipressi, che insieme ai ginepri e tassi, sono fra i principali responsabili di riniti ed attacchi di asma allergica in tutto il mondo. Grazie a questa ricerca sono stati rivelati alcuni meccanismi che sono alla base dell’insorgenza, anche stagionalmente precoce, delle allergie ai pollini. Ruggero è riuscito a osservare per la prima volta direttamente nell’atmosfera gli ‘orbiculi‘, cioè minuscoli vettori di sostanze allergeniche, e altre particelle sub-microniche ancora più piccole che i cipressi disperdono in concentrazioni otto volte maggiori rispetto ai “normali” e piu’ grandi granuli pollinici. In passato non era mai stata fatta un’osservazione diretta di queste particelle.
“La scoperta di queste particelle sub-microniche e nanometriche rilasciate in atmosfera, potrebbe quindi finalmente spiegare l’insorgenza delle pollinosi ancor prima del rilevamento degli stessi granuli pollinici mediante gli strumenti di campionamento ad oggi in uso, ma soprattutto, anche gli attacchi d’asma allergica – aggiunge Franco Ruggiero – infatti, le loro dimensioni permettono di permanere in atmosfera molto più a lungo rispetto ai granuli pollinici e una volta inalate, di raggiungere facilmente le vie aree respiratorie più profonde”.
Obesità, si eredita dagli uomini
News PresaIl grasso “buono” lo ereditiamo dalle mamme, quello “cattivo” dai papà. Facile immaginare quali reazioni si possano produrre in famiglia ora che la scienza ha messo le cose in chiaro sulla colpa dell’obesità. Sì, perché chi soffre di obesità per così dire “congenita”, deve il sovrappeso soprattutto al papà. E’ da lui, infatti, che si eredita il grasso bianco, quello che causa le malattie come il diabete. Dalle mamme, come al solito prendiamo il meglio, in questo caso il grasso “buono”, che protegge dall’obesità. La scoperta ha la firma del Dipartimento di Biochimica e Biologia Molecolare dell’Università della Danimarca meridionale, dell’Istituto Max Planck per la ricerca sul metabolismo di Colonia e dell’Università Medica di Vienna.
Controllo genico
Ovviamente l’analisi non è stata condotta su esseri umani, ma come spesso accade su dei topi. Visti i risultati è stata poi pubblicata su Nature Communications. Jan-Wilhelm Kornfeld, dell’Università della Danimarca meridionale, spiega: «Il gene H19 svolge una forma di controllo genico nelle cellule del grasso bruno. Abbiamo potuto dimostrare che una sovraespressione del gene H19 nei topi protegge da obesità e insulino-resistenza. I nostri risultati possano essere il primo passo verso lo sviluppo di trattamenti nuovi e migliorati per le malattie legate all’obesità».
Il tessuto bruno
La chiave di questa scoperta è legata ad un gene, chiamato H19, e ad una funzione che prima non si conosceva. In pratica questo gene ha un effetto protettivo unico contro lo sviluppo del sovrappeso e di conseguenza potrebbe influenzare l’insorgenza di malattie associate come il diabete o quelle cardiovascolari. Cosa hanno capito i ricercatori? Che i geni derivati dal papà conducono principalmente allo sviluppo del tessuto adiposo bianco, che si trova spesso sullo stomaco, sulle cosce e sui glutei e che può portare a malattie metaboliche. Allo stesso modo sembra che i geni della mamma portino principalmente allo sviluppo del tessuto adiposo bruno, che è caratterizzato da un effetto protettivo contro l’obesità.
Morti per tumore diminuiscono in Ue, ma aumentano nuovi casi
PrevenzioneSale la percentuale di tumori in Europa, ma diminuisce il numero di morti. A dirlo è l’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) sulla “Salute in Europa”. Nei 53 Paesi della “regione Europa” dell’Oms, il 2,4% della popolazione ha avuto il cancro nel 2014, con un incremento del 50% rispetto al 2000.
Nei paesi del nord (Svezia, Norvegia, Finlandia, Danimarca e Islanda), la percentuale di casi di tumore è al 5% mentre è all’1,8% in 10 ex repubbliche sovietiche. Nell’Unione europea, nel 2013, la percentuale di tumori era al 2,8%, con una frequenza maggiore tra le donne (2,9%) rispetto agli uomini (2,7%).
I nuovi casi di tumore al seno sono saliti del 30% tra il 2000 e il 2014 (con 110 casi ogni 100.000 donne). Il tasso di mortalità per tumore al seno, dagli anni Novanta, è diminuito a 20 vittime ogni 100.000 donne nel 2015, pari al 21% nell’Ue, dal 26,8% nel 2000.
Per quanto riguarda il tumore al collo dell’utero, risulta in progressiva diminuzione, le morti infatti sono state dimezzate nell’Unione europea dagli anni Settanta, con tre vittime ogni 100.000 donne nel 2015.
I tumori ai bronchi, alla trachea e ai polmoni variano in base alla “regione Europa”. In Francia, tra il 2000 e il 2015, sono raddoppiati da 47 a 70 casi ogni 100.000 persone, a fronte di un incremento dell’11% registrato in media nell’Ue.
Nella “regione Europa” sono risultati in media invariati a 40 casi per 100.000 abitanti nel 2014. Le morti per questi tumori, tuttavia, sono scese nell’intera area del 13% rispetto al 2000, tranne alcune eccezioni. In Francia il tasso di mortalità ha subito una discesa di appena il 2%, con 34,6 morti ogni 100.000 abitanti mentre in Portogallo è aumentato del 10% nello stesso arco di tempo.
Medici insoddisfatti, un danno per i pazienti
News PresaUniversità e in corsia
Dati allarmanti
Sentimenti sbagliati
Marcia per la ricerca: da Aosta a Roma per i bambini
Ricerca innovazioneUna camminata di 50 km al giorno lungo la Via Francigena: è iniziata l’8 settembre e si concluderà il 23 di questo mese. L’obiettivo è raccogliere fondi per la ricerca nel campo delle malattie neurodegenerative. A Realizzare la marcia è Alessandro Ronald Sabelli, che insieme alla società dilettantistica Stone Tower ha creato il progetto Walk For Research. L’atleta, istruttore e personal trainer, è direttore del Dipartimento Sportivo dalla John Cabot University.
La marcia che è alla sua terza edizione e quest’anno sarà a sostegno della Fondazione Bambino Gesù Onlus è partita da Chatillon – Saint Vincent, in provincia di Aosta, e farà tappa anche a Pavia, Piacenza e Siena. Il percorso, lungo ben 850 km, finirà domenica 23 settembre proprio all’Ospedale Pediatrico romano.
In questo lungo viaggio Alessandro non sarà mai solo, c’è il pubblico con lui presente ad ogni tappa. Inoltre tutto viene documentato sui canali social della Onlus dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, dove è possibile anche fare una donazione.
«Camminare è il viaggio più bello della mia vita – dichiara Alessandro Ronald Sabelli – poi donare e sostenere la ricerca, soprattutto se rivolta ai bambini, credo sia davvero la gioia più grande. Non scorderò mai una bambina di cinque anni e mezzo che aveva trascorso gran parte della vita al Royal Marsden: vedendomi arrivare nella sua scuola mi è venuta incontro e prendendomi la mano mi ha detto: ‘thank you’».