Tempo di lettura: 3 minutiUn’infezione virale potrebbe contribuire a scatenare la celiachia, in chi è geneticamente predisposto. È quanto emerge dai risultati di uno dei progetti di ricerca finanziati dalla Fondazione dell’Associazione Italiana Celiachia , presentati in anteprima in occasione del 7° Convegno Nazionale La biopsia intestinale nella diagnosi e nel follow-up della malattia celiaca, a Roma il 9 novembre. Gli studi condotti hanno infatti verificato che in soggetti geneticamente predisposti alla celiachia i virus, assieme a specifici “pezzetti” di glutine, potenziano la risposta immunitaria innata dell’organismo contro le infezioni virali, provocando un’infiammazione locale e soprattutto innescando una reazione autoimmune che può portare alla comparsa della celiachia. La ricerca, oltre a far comprendere meglio i meccanismi con cui si sviluppa la malattia, è utile a migliorare la diagnosi e nei soggetti a rischio.
Il progetto di ricerca ha cercato di comprendere meglio il ruolo nella celiachia dell’attivazione dell’immunità innata da parte di peptidi di glutine e/o virus, come spiega il coordinatore Riccardo Troncone, docente di pediatria del Dipartimento di Scienze mediche traslazionali dell’Università Federico II di Napoli: “La malattia celiaca è una malattia autoimmune causata dall’ingestione di glutine in individui geneticamente predisposti: il glutine, normalmente tollerato come gli altri alimenti, nei soggetti celiaci attiva invece una risposta immunologica. Ne esistono due tipi, una molto specifica mediata da cellule T e da anticorpi specifici, un’altra più primitiva, detta risposta innata, la stessa che ci difende dalle infezioni virali. Con il nostro progetto abbiamo voluto capire se fra risposta al glutine e risposta ai virus ci siano similitudini e soprattutto se queste risposte possano sommarsi: numerosi studi epidemiologici e genetici indicano infatti che altri fattori ambientali oltre al glutine, in primo luogo i virus, potrebbero essere in grado di innescare la celiachia in individui geneticamente suscettibili”. I ricercatori, nell’arco dei tre anni del progetto, hanno lavorato su linee cellulari e biopsie di pazienti dimostrando che nell’intestino dei celiaci aumenta l’espressione di molecole e vie di segnalazione tipiche dell’immunità innata, come IL15 e interferone alfa. “Abbiamo anche verificato che il peptide della gliadina P31-43, che si trova nel glutine e resiste alla digestione intestinale, attiva l’immunità innata così come le proteine dei virus: queste molecole possono perciò agire in sinergia – aggiunge Troncone – In entrambi i casi, negli esperimenti su cellule, si è notato anche un aumento del traffico delle vescicole all’interno delle cellule stesse che porta a un incremento dell’infiammazione: questi dati indicano perciò che le proteine presenti nel glutine, insieme a quelle virali, possono simulare e potenziare la risposta immunitaria innata ai virus, contribuendo a innescare la celiachia in soggetti geneticamente predisposti”.
“Il progetto di ricerca ‘La risposta immune innata nella malattia celiaca: marcatori, fattori scatenanti, evoluzione e implicazioni cliniche’ è uno dei 19 programmi scientifici italiani su celiachia, dermatite erpetiforme e altre patologie glutine-correlate che la Fondazione Celiachia ha finanziato dal 2013 al 2017 per un totale di 2,3 milioni di euro, a cui si è aggiunto un ulteriore stanziamento di 425.000 euro nel 2018 per il finanziamento di fino a cinque borse di studio” spiega Ivana Losa, Presidente della Fondazione Celiachia. I temi affrontati sono inerenti all’area medico- scientifica, con contributi su biologia e biochimica, metabolomica, genetica e proteomica, ma anche studi clinici e preclinici e strategie di sviluppo di nuovi farmaci. “I progetti approvati e finanziati dalla Fondazione, che con il suo sostegno promuove la miglior ricerca scientifica italiana sulla celiachia, a oggi hanno portato ad un totale di 27 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali. Inoltre, motivo di orgoglio per la Fondazione, è il Bando FC Fellowships, giunto alla sua terza edizione, che offre la possibilità a giovani laureati e neo-dottori di ricerca di intraprendere la carriera della ricerca scientifica nel settore della celiachia e della dermatite erpetiforme, grazie a una borsa di studio triennale”, conclude la Presidente Losa.
Hacker, ospedali vulnerabili agli attacchi
News PresaGli hacker (vale a dire i pirati informatici) possono mettere a rischio la salute di quanti sono ricoverati in ospedale. E’ questo uno dei risvolti più inquietanti dalla sessione sulla “Gestione integrata del rischio” del Forum Management Sanità all’interno della Convention Fiaso tenutosi a Roma. Cade l’idea che, per essere al sicuro, basti tenersi lontani dal mondo virtuale. Anzi, dal punto di vista del rischio clinico, gli ospedali sono molto vulnerabili agli attacchi informatici.
Blocco dell’attività
«Quando avvengono attacchi agli ospedali si può arrivare a chiudere le sale operatorie – ha spiegato Massimo Brunetti del Gruppo Integrità Fiaso -. E’ chiaro che il sistema sanitario si basa sempre di più sulle tecnologie e sul flusso di dati, ormai anche le tac e le risonanze viaggiano su file, un hacker può produrre danni importanti, e anche il paziente può chiedere conto di una cattiva gestione della sicurezza. E’ importante che si attivino azioni di difesa, alcune aziende testano con società esterne l’efficacia dei propri sistemi, ma altre sono molto indietro sul tema». Gli ospedali, insomma, non sono in grado ad oggi di difendersi al meglio dalle insidie dei pirati informatici.
Infezioni
Un altro settore su cui lavorare, ha aggiunto Brunetti, è quello delle infezioni ospedaliere. «Questo è un problema molto grave in Italia, che registra un terzo dei casi europei – ha spiegato – e si allaccia all’uso eccessivo che facciamo degli antibiotici». Dal punto di vista strutturale invece, ha chiarito Daniela Pedrini, Presidente della Società italiana per l’Architettura e l’Ingegneria in Sanità, gli ospedali non sono messi così male come si tende a pensare. «E’ ovvio che ci sono situazioni diverse nel paese – ha sottolineato l’esperta – per cui alcune strutture magari molto vecchie non possono semplicemente essere messe a norma e andrebbero abbandonate, ma in generale la situazione è molto migliore rispetto a 10-20 anni fa».
Italia, bassa natalità mette a rischio popolazione
BambiniL’Italia detiene il primato per l’aspettativa di vita più alta in Europa. Nel mondo è seconda (dopo il Giappone), ma è anche tra i Paesi con la più bassa natalità. Un problema che riguarda altri 91 Paesi, fra cui Spagna, Portogallo, Norvegia, Cipro, Singapore e Sud Corea, con meno di due figli per donna. Al contrario, 104 Paesi tra cui Niger, Mali, Chad, e Sud Sudan compensano il gap, con una media di 7 figli per donna. In altre parole l’Italia risulta tra i Paesi in cui il numero di nati non è sufficiente a mantenere l’attuale popolazione secondo gli esperti. Il dato emerge dai dati del Global Burden of Disease (Gbd) 2017, appena pubblicati dalla rivista Lancet e frutto del lavoro di 3.676 collaboratori di 146 Paesi. In quasi 70 anni, dal 1950, il tasso di fertilità medio in tutto il mondo è progressivamente calato fino quasi a dimezzarsi, tanto che in quasi la metà dei paesi (91) il numero di figli non basta a garantire l’attuale numero di abitanti. Nell’altra metà (104) è invece in aumento. Nel complesso, quindi, la popolazione mondiale è quasi triplicata, passando da 2,6 miliardi di persone a 7,6 miliardi, rileva il rapporto.
Natalità nel mondo
Nel 1950 il numero medio di figli per donna era di 4,7, mentre nel 2017 è arrivato a 2,4, pur con grandi differenze tra un paese e l’altro. In particolare in molti paesi europei (come Spagna, Portogallo, Norvegia, Cipro), a Singapore, in Sud Corea, Australia e Usa, ogni donna ha meno di due figli. Si va dal picco massimo del Niger con ben 7,1 figli per donna, a quello minimo di Cipro di uno solo. Se si scende sotto la soglia di 2,1, la popolazione inizierà a ridursi. Si tratta di una situazione che non si è mai verificata prima d’ora.
Tumori: in futuro verranno classificati per tipo di alterazione
News PresaNel prossimo futuro, i tumori potrebbero non essere più classificati per organo, ma per tipo di alterazione genetica e molecolare. Un sistema adatto soprattutto ai tumori più comuni che serve a facilitare anche la scelta della terapia più appropriata. Dai risultati di molte ricerche di oncologia molecolare e di progetti come il Pan Cancer Atlas è emerso che due cancri apparentemente simili, se guardati al microscopio fermandosi al solo livello cellulare, possono rispondere in modo opposto alle stesse cure. Il motivo risiederebbe nelle diverse mutazioni genetiche e molecolari che provocano la malattia e da cui dipendono la riclassificazione e la diagnosi.
Il processo di avvio verso la nuova classificazione è già iniziato, infatti nel 2017 la Food and Drug Administration statunitense ha approvato per la prima volta un farmaco antitumorale (il pembrolizumab) diretto non a un cancro specifico, ma a qualsiasi tumore che mostri una specifica alterazione dei sistemi di riparazione del DNA. Nel frattempo altre terapie mirate basate su caratteristiche genetiche, indipendenti dalla localizzazione del tumore o dal tipo istologico, sono in arrivo nei prossimi mesi.
Il Pan Cancer Atlas
Il Pan Cancer Atlas è stato lanciato nel 2005, è una road map per i ricercatori di tutto il mondo su 33 tipi di tumore, definita a partire dai dati clinici e molecolari di oltre 10.000 casi di tumori. Tutti gli studi futuri sul cancro dovranno fare i conti e prendere spunto dai risultati di un incredibile decennio di ricerche condensato nel PanCancer Atlas. L’elenco è stato completato alla fine del 2017 e nel 2018 è partito un nuovo progetto con lo scopo di valutare a cosa servono esattamente, all’interno della cellula cancerosa, i geni identificati in precedenza. Conoscere il ruolo di questi geni nelle mutazioni serve a capire, tra i tanti bersagli molecolari che i ricercatori identificano nei vari tumori, quali sono importanti per la sopravvivenza della cellula maligna e quindi devono essere presi di mira con maggiore energia.
Il Pan Cancer Atlas dovrebbe quindi aiutare i ricercatori a scegliere dove investire (tempo e risorse economiche) per arrivare a farmaci sempre più efficaci. Il progetto analizzerà 11.000 diverse varianti delle 33 principali forme di cancro che affliggono l’uomo. Non solo: fornirà informazioni anche sulle basi genetiche delle lesioni precancerose, per permettere diagnosi e interventi sempre più precoci.
Ecco il contest che premia i medici
News PresaPreSa, il network editoriale dedicato alla Prevenzione e alla Salute lancia il primo contest di promozione della salute rivolto agli addetti ai lavori, pensato per trasferire a tutti informazioni utili e certificate.
Semplice e diretto
«Parlo per esperienza», il titolo di questo nuovo progetto che sfiderà la capacità dei medici di affrontare (tastiera alla mano) le patologie più diffuse, quelle che comportano maggiori problemi o quelle che solo pochi conoscono. Il tutto usando un linguaggio semplice e diretto. I medici saranno chiamati, appunto, a «parlare per esperienza» ma con un linguaggio che potrà essere compreso con semplicità da chiunque vorrà approfondire.
Come iscriversi
Per partecipare al contest basterà inviare (entro e non oltre il 23 dicembre 2018) il proprio articolo ed il modulo di iscrizione all’indirizzo e-mail redazione@prevenzione-salute.it. L’articolo dovrà essere contenuto tra i 3000 e i 4000 caratteri spazi inclusi. Una commissione di esperti selezionerà i migliori 10 articoli che saranno poi pubblicati sul portale PreSa e, a discrezione della commissione, su altre testate giornalistiche regionali e nazionali in partenariato con il network. Ecco i link dei quali hai bisogno per partecipare:
Allegato A – Modulo di Partecipazione
Presentazione Call PreSa
Pigmalione: l’effetto psicologico che fa avverare la profezia
BambiniSi chiama effetto Pigmalione e si potrebbe riassumere così: se un insegnante pensa che uno studente sia meno dotato e meno capace, inconsapevolmente lo tratterà in modo diverso da come farà con uno studente che ritiene brillante e meritevole. Si tratta di differenze di comportamento molto difficili da percepire, ma che a lungo andare creano delle conseguenze. Infatti, lo studente considerato meno bravo tenderà ad avere risultati peggiori, mentre lo studente considerato “migliore” otterrà risultati più brillanti. Per gli psicologi è uno degli effetti psicologici più importanti da tenere in considerazione nel rapporto con i bambini.
Siamo quello che crediamo di essere
L’effetto Pigmalione, detto anche Rosenthal è l’effetto psicologico della “profezia che si autoavvera”. Una persona ritenuta più capace tenderà ad avere risultati migliori (inconsciamente verrà stimolato il suo potenziale di sviluppo), un soggetto ritenuto meno capace, finirà (altrettanto inconsciamente) per essere inibito e conseguirà risultati inferiori. Nel 1972, lo psicologo Theodor Rosenthal decise di fare un esperimento presso l’Oak School, in California. All’inizio dell’anno scolastico, un’equipe di psicologi indicò agli insegnanti i bambini più intelligenti delle loro classi; gli psicologi motivarono il fatto sulla base dei risultati in veri test d’intelligenza. Gli psicologi, in realtà, avevano estratto a caso i nomi dei ragazzi; dunque, la loro intelligenza era solo una credenza, di cui gli insegnanti erano stati persuasi. Al termine dell’anno scolastico, però, questi ragazzi mostrarono di aver ottenuto risultati più elevati della media e perfino un incremento del QI. Rosenthal spiegò questo effetto chiamando in causa le aspettative degli insegnanti, che, convinti (erroneamente) dell’elevato potenziale dei ragazzi li avevano stimolati di più rispetto al resto della classe. L’esperimento ha dimostrato come le credenze condizionino le aspettative. Un insegnante che crede che un alunno sia svogliato o che non possa raggiungere risultati elevati finirà per investire meno energie su di lui e si accontenterà di traguardi mediocri. In seguito al celebre esperimento di Rosenthal, numerosi altri psicologi hanno indagato l’effetto Pigmalione, anche dal punto di vista del soggetto (in questo caso erano gli insegnanti ad influenzare i risultati dei loro allievi); attraverso questi esperimenti si è definito con precisione sempre maggiore il meccanismo della “profezia che si autoavvera”, dimostrando quanto l’autostima di ciascuno e le credenze personali siano fondamentali per raggiungere gli obiettivi. Ogni azione genera delle conseguenze, soprattutto quando si interagisce con un bambino. In altre parole, nessuno studente è perduto se ha un insegnante che crede in lui (Rosenthal R., Jacobson L., 1992, Pygmalion in the classroom, Irvington).
Cervello in salute? Ecco i segreti del sollevamento pesi
News Presa, PrevenzioneLo sport allunga la vita, ma non si deve fare l’errore di pensare che lo sport sia solo quello agonistico. Sollevare piccolo pesi, ad esempio, può aiutare a fermare l’invecchiamento del cervello. Non lo sapevate? E’ proprio così e lo dimostra uno studio pubblicato sul Journal of the American Geriatrics Society, condotto su individui dai 55 agli 86 anni già con qualche deficit cognitivo in atto. La ricerca è stata fatta all’università di Sidney e conferma i risultati di uno studio pubblicato sulla stessa rivista secondo cui un po’ di sollevamento pesi, di leggera intensità ma praticato almeno due volte a settimana, aiuta a fermare l’invecchiamento del cervello.
Lo studio
In questo studio più datato i ricercatori erano partiti dall’osservazione che in presenza di massa muscolare ridotta gli anziani non solo avevano difficoltà motorie – erano più lenti e incerti nel camminare – ma mostravano anche danni di maggiore entità a livello cerebrale; in particolare lesioni della cosiddetta materia bianca, ovvero i nervi che connettono tra di loro diverse parti del cervello. Nella nuova ricerca l’efficacia anti-aging del sollevamento pesi è stata analizzata su anziani e adulti che hanno già manifestato defaillance cognitive, anche se minori. I partecipanti dovevano allenarsi due volte a settimana, con una certa intensità, nel sollevare pesi. Dopo sei mesi, gli esperti hanno constatato che al crescere della massa muscolare miglioravano anche le funzioni cognitive come se le due condizioni fossero legate. La risonanza magnetica, inoltre, ha offerto una visione degli ‘effetti del body building’ sul cervello, con sensibili aumenti di volume in certe aree neurali.
Stili di vita
I risultati sono tali, spiega l’autore del lavoro Yorvi Mavros, da consigliare questo tipo di ginnastica a tutta la popolazione in là con gli anni. De resto, che stili di vita appropriati possano cambiare radicalmente la nostra salute, in meglio, evitandoci in molto casi di dover affrontare malattie invalidanti.
Glutine, ma anche i virus scatenano celiachia in chi è predisposto
AlimentazioneUn’infezione virale potrebbe contribuire a scatenare la celiachia, in chi è geneticamente predisposto. È quanto emerge dai risultati di uno dei progetti di ricerca finanziati dalla Fondazione dell’Associazione Italiana Celiachia , presentati in anteprima in occasione del 7° Convegno Nazionale La biopsia intestinale nella diagnosi e nel follow-up della malattia celiaca, a Roma il 9 novembre. Gli studi condotti hanno infatti verificato che in soggetti geneticamente predisposti alla celiachia i virus, assieme a specifici “pezzetti” di glutine, potenziano la risposta immunitaria innata dell’organismo contro le infezioni virali, provocando un’infiammazione locale e soprattutto innescando una reazione autoimmune che può portare alla comparsa della celiachia. La ricerca, oltre a far comprendere meglio i meccanismi con cui si sviluppa la malattia, è utile a migliorare la diagnosi e nei soggetti a rischio.
Il progetto di ricerca ha cercato di comprendere meglio il ruolo nella celiachia dell’attivazione dell’immunità innata da parte di peptidi di glutine e/o virus, come spiega il coordinatore Riccardo Troncone, docente di pediatria del Dipartimento di Scienze mediche traslazionali dell’Università Federico II di Napoli: “La malattia celiaca è una malattia autoimmune causata dall’ingestione di glutine in individui geneticamente predisposti: il glutine, normalmente tollerato come gli altri alimenti, nei soggetti celiaci attiva invece una risposta immunologica. Ne esistono due tipi, una molto specifica mediata da cellule T e da anticorpi specifici, un’altra più primitiva, detta risposta innata, la stessa che ci difende dalle infezioni virali. Con il nostro progetto abbiamo voluto capire se fra risposta al glutine e risposta ai virus ci siano similitudini e soprattutto se queste risposte possano sommarsi: numerosi studi epidemiologici e genetici indicano infatti che altri fattori ambientali oltre al glutine, in primo luogo i virus, potrebbero essere in grado di innescare la celiachia in individui geneticamente suscettibili”. I ricercatori, nell’arco dei tre anni del progetto, hanno lavorato su linee cellulari e biopsie di pazienti dimostrando che nell’intestino dei celiaci aumenta l’espressione di molecole e vie di segnalazione tipiche dell’immunità innata, come IL15 e interferone alfa. “Abbiamo anche verificato che il peptide della gliadina P31-43, che si trova nel glutine e resiste alla digestione intestinale, attiva l’immunità innata così come le proteine dei virus: queste molecole possono perciò agire in sinergia – aggiunge Troncone – In entrambi i casi, negli esperimenti su cellule, si è notato anche un aumento del traffico delle vescicole all’interno delle cellule stesse che porta a un incremento dell’infiammazione: questi dati indicano perciò che le proteine presenti nel glutine, insieme a quelle virali, possono simulare e potenziare la risposta immunitaria innata ai virus, contribuendo a innescare la celiachia in soggetti geneticamente predisposti”.
“Il progetto di ricerca ‘La risposta immune innata nella malattia celiaca: marcatori, fattori scatenanti, evoluzione e implicazioni cliniche’ è uno dei 19 programmi scientifici italiani su celiachia, dermatite erpetiforme e altre patologie glutine-correlate che la Fondazione Celiachia ha finanziato dal 2013 al 2017 per un totale di 2,3 milioni di euro, a cui si è aggiunto un ulteriore stanziamento di 425.000 euro nel 2018 per il finanziamento di fino a cinque borse di studio” spiega Ivana Losa, Presidente della Fondazione Celiachia. I temi affrontati sono inerenti all’area medico- scientifica, con contributi su biologia e biochimica, metabolomica, genetica e proteomica, ma anche studi clinici e preclinici e strategie di sviluppo di nuovi farmaci. “I progetti approvati e finanziati dalla Fondazione, che con il suo sostegno promuove la miglior ricerca scientifica italiana sulla celiachia, a oggi hanno portato ad un totale di 27 pubblicazioni su riviste scientifiche internazionali. Inoltre, motivo di orgoglio per la Fondazione, è il Bando FC Fellowships, giunto alla sua terza edizione, che offre la possibilità a giovani laureati e neo-dottori di ricerca di intraprendere la carriera della ricerca scientifica nel settore della celiachia e della dermatite erpetiforme, grazie a una borsa di studio triennale”, conclude la Presidente Losa.
I rischi, dimenticati, del colesterolo
Economia sanitariaIl colesterolo è un pericolo prima e anche dopo un infarto, ma dopo un evento cardiovascolare, sorprendentemente, i pazienti che lo tengono sotto controllo sono ancora troppo pochi, con un grave prezzo in termini di vite perse ma anche di costi sanitari. «Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte nel nostro Paese, essendo responsabili del 35% delle morti totali. Malattie ischemiche del cuore, cerebrovascolari, ipertensive, altre malattie cardiovascolari occupano le prime 5 posizioni» spiega Francesco Saverio Mennini, professore di Economia Sanitaria, Direttore EEHTA, Università degli Studi, Roma Tor Vergata, intervenuto al Senato a Meridiano Cardio «Nuove prospettive nella prevenzione secondaria cardiovascolare: focus sull’ipercolesterolemia» giunto alla seconda edizione.
Prevenzione secondaria
Non deve dunque sorprendere che i costi sanitari (diretti e indiretti) associati a tali patologie, ammontino a circa 21 miliardi di euro/anno. Cifra considerevoli che potrebbe essere ridotta anche grazie ad una evoluzione della presa in carico dei pazienti dopo un primo evento cardiovascolare, grazie a interventi di prevenzione secondaria. Per quanto riguarda per esempio il colesterolo, gli studi dimostrano come una riduzione del C-LDL di 39 mg/dL (1 mmol/L) si traduca in un calo del rischio relativo di eventi cardiovascolari del 10% al primo anno, del 16% al secondo anno e del 20% dopo tre anni di trattamento2. «Si stima che in prevenzione secondaria poco meno del 50% dei pazienti raggiungono il target dei livelli di colesterolo C-LDL» chiarisce Marcello Arca, direttore UOS Centro Arteriosclerosi, Centro di riferimento regionale per le malattie rare del metabolismo lipidico, Policlinico Umberto I e Segretario Nazionale SISA «Possiamo affermare che una terapia inadeguata si riflette negativamente sul controllo dell’ipercolesterolemia con un rischio aumentato di eventi cardiovascolari successivi».
Linee guida
Certamente per i pazienti che hanno subìto un primo evento cardiovascolare sarebbe opportuno essere seguiti nell’immediato dopo la dimissione in modo tale da verificare il raggiungimento del target terapeutico e aggiustare se necessario l’intervento terapeutico. Le più recenti linee guida dell’European Society of Cardiology parlano di 70 mg/dL in pazienti a rischio cardiovascolare molto alto. «Qui giocano un ruolo determinante le nuove classi di farmaci come gli inibitori di PCSK9. Si tratta di farmaci innovativi dal punto di vista della farmacologia cardiovascolare che hanno dimostrato di ridurre i livelli di colesterolo (anche oltre il 50%), a fronte di un buon profilo di tollerabilità e sicurezza» aggiuge Pasquale Perrone Filardi, direttore della Scuola di Specializzazione in Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Università “Federico II” di Napoli. «Negli studi clinici, questi farmaci hanno dimostrato di ridurre il rischio di eventi cardiovascolari come l’ictus e l’infarto. In particolare è stato possibile dimostrare una riduzione del rischio superiore al 20%, oltre a una riduzione delle necessità di sottoporre i pazienti a interventi di rivascolarizzazione coronarica». L’impiego di questi nuovi farmaci nei pazienti in prevenzione secondaria, tuttavia, è inferiore all’epidemiologia attesa. Federico Spandonaro, Professore Economia Sanitaria, Università Roma Tor Vergata e Presidente C.R.E.A. Sanità conferma che solo il 13-14% dei pazienti eleggibili all’utilizzo di questi farmaci, è stato effettivamente sottoposto a questa terapia.
Cambiamenti climatici. Da dove arrivano e come difendersi
PrevenzioneI cambiamenti climatici sono una sfida del nostro tempo: hanno un impatto sulla salute umana, sulla natura e l’economia. Tra le principali cause di questi fenomeni ci sono le emissioni globali di gas a effetto serra: ad esempio il settore dei trasporti è responsabile di oltre il 20% delle emissioni dell’UE nel 2016. Dal punto di vista scientifico i cambiamenti climatici riguardano la quantità di gas a effetto serra – principalmente il biossido di carbonio – rilasciati nell’atmosfera e sottratti alla stessa, come spiega Hans Bruyninckx, Direttore esecutivo AEA. A partire dalla rivoluzione industriale, viene rilasciata una quantità crescente di gas a effetto serra, molto superiore rispetto a quella che il ciclo naturale del carbonio è in grado di assorbire. Ciò porta a un aumento della concentrazione di carbonio nell’atmosfera che, a sua volta, crea l’effetto serra, trattenendo una percentuale maggiore dell’energia solare che arriva sulla Terra.
I sistemi per l’osservazione della Terra monitorano le concentrazioni di carbonio e i risultati non sono incoraggianti: malgrado variazioni stagionali il numero di «parti per milione» (ppm) di biossido di carbonio nell’atmosfera ha superato la soglia di 400 ppm nel 2016 e continua a crescere. Negli ultimi due secoli combustibili fossili come il carbone, il petrolio e il gas naturale hanno dato energia alle case e all’economia (industria, agricoltura, trasporti ecc.). Le società hanno bisogno di energia, ma il fabbisogno può essere soddisfatto da fonti rinnovabili anziché da combustibili fossili? Gli esperti dicono di sì, ma servono politiche globali. Le emissioni, infatti, avvengono a livello nazionale, ma l’effetto è su tutto il pianeta. Una volta rilasciato nell’atmosfera, il biossido di carbonio diventa un problema globale, indipendentemente dal paese e dal settore da cui proviene. “In Europa la quantità di gas a effetto serra rilasciata ogni anno da ciascun settore economico chiave e dalle rispettive attività è soggetta a un attento monitoraggio – spiega l’esperto – Sulla scorta dei dati presentati dagli Stati membri dell’UE l’Agenzia europea dell’ambiente analizza le tendenze e le proiezioni per valutare i progressi compiuti verso il conseguimento degli obiettivi fissati per l’UE nel suo insieme e per ciascuno Stato membro. Le nostre valutazioni degli effetti dei cambiamenti climatici e della vulnerabilità mostrano anche in che modo le diverse regioni d’Europa sono già interessate dai cambiamenti climatici e ciò che possono aspettarsi in futuro secondo diversi scenari di emissione”.
Ad oggi gli Stati membri dell’UE hanno concordato una serie di politiche in materia di clima ed energia e hanno fissato obiettivi chiari per il 2020 e il 2030. Le valutazioni dell’Agenzia Europea dell’ambiente mostrano che l’Unione europea è sulla buona strada per raggiungere gli obiettivi prefissati per il 2020, ma che occorre un maggiore impegno se si vogliono raggiungere i più ambiziosi obiettivi per il 2030. “Stiamo lavorando a una futura piattaforma delle conoscenze finalizzata a sostenere gli obiettivi dell’UE per il 2030 in materia di energia e clima –continua l’esperto – collegando meglio le conoscenze esistenti non solo sul clima e sull’energia, ma anche su altri settori pertinenti quali agricoltura, trasporti e qualità dell’aria. Il successo dipenderà – conclude – sia dall’adozione di decisioni politiche informate sia dalla volontà globale di porre fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili. L’accordo di Parigi ha rappresentato una pietra miliare nel consolidamento dell’impegno globale a combattere i cambiamenti climatici, riunendo governi, imprese e società civile”.
Così mutano i batteri dello stomaco
AlimentazionePaese che vai, batteri che trovi. E già, emigrare in un paese nuovo cambia nel più profondo, si modifica infatti anche il microbioma, cioè tutti quei batteri che si trovano nel nostro intestino, per acquisire quelli del nuovo paese di residenza, insieme ad alcune delle sue malattie più comuni. Lo spiegano uno studio dell’università del Minnesota sulla rivista Cell, dove sono stati seguiti immigrati e rifugiati arrivati negli Usa dal Sud-est asiatico.
Aumento dell’obesità
«Gli immigrati hanno iniziato a perdere i loro microbi che hanno dalla nascita quasi subito dopo il loro arrivo negli Stati Uniti, per acquisire quelli che sono più comuni nelle popolazioni europee-americane», spiega Dan Knights, coordinatore dello studio. «Ma i nuovi microbi non sono sufficienti a compensare la perdita di quelli nativi, e si ha così una grande perdita di diversità», continua. E’ stato dimostrato in altri studi che chi vive in paesi in via di sviluppo ha una varietà di batteri nel microbioma intestinale maggiore di chi vive negli Usa. Oltre alla perdita di diversità nel microbioma, si è visto in questi immigrati un aumento del tasso di obesità.
Regime alimentare
In altri studi il microbioma è stato collegato all’obesità. I ricercatori hanno confrontato il microbioma intestinale di persone di etnia Hmong e Karen mentre vivevano in Thailandia, di altri di loro emigrati negli Usa e dei loro figli. In questo modo hanno visto che nei primi 6-9 mesi dal loro arrivo, i ceppi di Bacteroides occidentali hanno iniziato a rimpiazzare i batteri non occidentali, come i Prevotella. Un processo che è continuato durante i loro primi 10 anni negli Usa, molto probabilmente per aver mangiato più seguendo una dieta più occidentale. I cambiamenti sono stati ancora più pronunciati sui figli. «Quando si va in un nuovo paese – conclude Knights – non solo cambiano le specie di microbi che si hanno nell’intestino, ma anche gli enzimi che trasportano e ciò può influire sulla digestione del cibo e come la dieta interagisce con la salute».