Tempo di lettura: 3 minutiSecondo le stime più recenti, nel 2017, a 7 milioni di uomini italiani è stata diagnosticata una Ipertrofia Prostatica Benigna (o adenoma della prostata), una patologia non tumorale che comporta l’ingrossamento anomalo della prostata, connotandolo come il disturbo urologico maschile più diffuso.
Molti di questi pazienti sono stati sottoposti a interventi di “disostruzione urinaria” mediante chirurgia tradizionale, una soluzione drastica che in molti casi si sarebbe potuta evitare ricorrendo, per esempio, alle nuove terapie che utilizzano i raggi Laser per incidere, vaporizzare e coagulare i tessuti.
Delle nuove soluzioni terapeutiche in urologia, in particolare dell’utilizzo del laser verde Greenlight nei casi di Ipertrofia Prostatica Benigna, si parlerà a Roma il 12 aprile prossimo in un simposio medico che vedrà riuniti un centinaio di urologi italiani, fra i massimi esperti delle nuove tecnologie mediche. Responsabile scientifico dell’incontro il Professor Luigi Schips, Clinica Urologica Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti; coordinatore, il Dottor Luca Cindolo, Referente Urologia – Casa di Cura Villa Stuart – Roma
Questo evento, che raduna quasi un centinaio di medici operanti sul territorio nazionale, è ormai alla sua quinta edizione. Negli anni precedenti, infatti, era stato organizzato in altre importanti sedi ospedaliere quali l’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, la AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, l’Hesperia Hospital di Modena e l’Azienda Ospedaliera di Padova. Si farà il punto sullo “stato dell’arte” di questa patologia che, lo ricordiamo, è progressiva, evidenzia numeri destinati ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione e, se non adeguatamente trattata, può provocare danni permanenti alla vescica, con conseguenze gravi e un impatto molto pesante nella vita quotidiana.
Le prime terapie adottate oggi sono, in genere, farmacologiche, con farmaci alfa-bloccanti, oppure inibitori della 5-reduttasi o, in alcuni casi, trattamenti fitoterapici. Quando però i trattamenti farmacologici non sono efficaci, si rende necessario l’intervento chirurgico tradizionale (TURP) oppure, sempre di più, l’intervento con il laser, di cui si discuterà proprio nel Simposio di Roma.
I “raggi di luce” vengono impiegati in misura crescente in medicina e in chirurgia per le intrinseche caratteristiche di sicurezza, efficacia, minima invasività. Il raggio di luce sprigiona, infatti, energia e calore secondo una specifica lunghezza d’onda ed è proprio in virtù della lunghezza d’onda che è possibile agire sui tessuti con delicatezza, trattando anche aree di piccola dimensione con precisione e notevole potere coagulante, ma senza coinvolgere i tessuti circostanti. In chirurgia possono essere definiti veri e propri bisturi immateriali, capaci di recidere, vaporizzare e coagulare tessuti duri e molli in modo estremamente accurato.
Gli urologi che interverranno all’incontro di Roma porteranno testimonianze di pratica clinica quotidiana; fra le anticipazioni vengono segnalati i trattamenti con il Laser verde Greenlight, oggi riconosciuto come uno dei più avanzati soprattutto per il notevole potere emostatico che consente di non sospendere la somministrazione di farmaci anticoagulanti per l’effettuazione dell’intervento. Con il laser verde Greenlight si possono eseguire interventi di vaporizzazione, nei quali il tessuto prostatico in eccesso viene trasformato in vapore, oppure di enucleazione dell’adenoma prostatico, cioè della porzione centrale, ipertrofica e ostruente della prostata.
La tecnologia del laser verde in campo urologico è in costante evoluzione e non è un caso, come anticipano i responsabili del simposio, che questa soluzione terapeutica sia stata inserita nelle linee-guida dell’Associazione Europea di Urologia e che prestigiose organizzazioni europee come l’inglese NICE (National Institute for Clinical Excellence, che valuta l’efficacia degli interventi medici) e la tedesca G-BA (Gemeinsame Bundesausschuss, che determina i livelli dei rimborsi in ambito sanitario) abbiano certificato l’efficacia degli interventi con il laser verde GreenLight rispetto alla chirurgia tradizionale.
Il simposio medico sull’Ipertrofia Prostatica si terrà venerdì 12 aprile presso il Mercato Centrale Spazio FARE – Via Giovanni Giolitti, 36 – Roma
Essere multitasking fa crollare l’efficienza. Lo studio
PsicologiaÈ più facile distrarsi che stare concentrati. Il motivo è scientifico. I neuroni – le cellule celebrali impiegate nell’attività di pensiero – se lasciano vagare la mente o seguono gli stimoli occasionali consumano meno energia rispetto a quando sono costretti a svolgere un preciso compito. Le prestazioni mentali crollano ogni volta che si cede alla distrazione o al multitasking. Negli studi di laboratorio è stato osservato che saltare mentalmente fra due compiti simultanei fa crollare l’efficienza del processamento cognitivo fino al 50% rispetto alla realizzazione degli stessi compiti in maniera sequenziale. Inoltre ci possono volere più di 20 minuti per tornare allo stesso livello di concentrazione precedente. Oggi le distrazioni sono sempre di più e diventa difficile stare concentrati e non cedere al multitasking, anche solo per via del telefono e dei social, tanto che è stato coniato il termine “attenzione parziale permanente” per descrivere la condizione mentale dell’uomo contemporaneo.
Una ricerca pubblicata sulla rivista Accident Analysis and Prevention dà una conferma sperimentale del fatto che la tendenza a seguire in modo incontrollato i propri pensieri mentre si è al volante è correlata una guida più rischiosa, per eccesso di velocità, mancato rispetto delle distanze di sicurezza e tempi di reazione più lunghi.
Tuttavia dipende dalla distrazione. Una pausa da un lavoro impegnativo durante la quale la mente è lasciata libera di vagare può portare a un rinvigorimento e soluzioni creative non trovate quando si era perfettamente concentrati.
Il sonno influisce sulla creatività
Ricerca innovazioneDormire fa bene alla creatività. Tanto per cercare una scusa in più e trascorrere qualche oretta tra le braccia di Morfeo, gli esperti dell’Università di Haifa hanno analizzato gli effetti del sonno sulle nostre capacità cerebrali, e in modo particolare si sono soffermati sullo sviluppo della creatività. Il risultato, come detto, premia i dormiglioni, almeno sul fronte della creatività verbale. Coloro che riposano di più, infatti, tendono ad essere più creativi. O, volendo girare la frittata, le persone più creative sono di solito quelle che tendono a dormire un numero maggiore di ore per notte e ad andare a letto e svegliarsi tardi.
Lo studio
Anche la creatività visiva, secondo i ricercatori, è risultata associata alle ore di sonno. In questo caso però si parla di una ridotta qualità del sonno. Gli esperti hanno osservato due gruppi di studenti, alcuni impegnati in facoltà artistiche, altri in scienze sociali. I ricercatori, diretti da Tamar Shochat, hanno misurato con test ad hoc la creatività di ciascun volontario e poi hanno osservato i loro ritmi del sonno facendo loro compilare diari e utilizzando strumenti di monitoraggio ad hoc. E’ emerso che gli studenti più creativi sul fronte verbale sono quelli che dormono per più ore e che tendono ad andare a letto tardi e a svegliarsi tardi. Per la creatività visiva, invece, il tratto del sonno più caratteristico è di essere poco riposante e costellato da risvegli notturni.
Falsi miti
E’ del tutto falso, qualora vi fosse qualche dubbio, che dormendo si possono imparare le lingue. Si tratta di una delle fake news più cliccate in rete e spesso anche delle più remunerative. Molte sono infatti le truffe che propongono sistemi o apparecchi elettronici che sarebbero in grado di trasmetterci l’apprendimento delle lingue straniere durante una bella pennichella. Ovviamente si tratta solo di sistemi studiati ad hoc per spillare un po’ di soldi a qualche malcapitato internauta.
Ipertrofia Prostatica: oggi il disturbo urologico più diffuso
News PresaSecondo le stime più recenti, nel 2017, a 7 milioni di uomini italiani è stata diagnosticata una Ipertrofia Prostatica Benigna (o adenoma della prostata), una patologia non tumorale che comporta l’ingrossamento anomalo della prostata, connotandolo come il disturbo urologico maschile più diffuso.
Molti di questi pazienti sono stati sottoposti a interventi di “disostruzione urinaria” mediante chirurgia tradizionale, una soluzione drastica che in molti casi si sarebbe potuta evitare ricorrendo, per esempio, alle nuove terapie che utilizzano i raggi Laser per incidere, vaporizzare e coagulare i tessuti.
Delle nuove soluzioni terapeutiche in urologia, in particolare dell’utilizzo del laser verde Greenlight nei casi di Ipertrofia Prostatica Benigna, si parlerà a Roma il 12 aprile prossimo in un simposio medico che vedrà riuniti un centinaio di urologi italiani, fra i massimi esperti delle nuove tecnologie mediche. Responsabile scientifico dell’incontro il Professor Luigi Schips, Clinica Urologica Università degli Studi “G. D’Annunzio” di Chieti; coordinatore, il Dottor Luca Cindolo, Referente Urologia – Casa di Cura Villa Stuart – Roma
Questo evento, che raduna quasi un centinaio di medici operanti sul territorio nazionale, è ormai alla sua quinta edizione. Negli anni precedenti, infatti, era stato organizzato in altre importanti sedi ospedaliere quali l’Arcispedale Santa Maria Nuova di Reggio Emilia, la AOU Città della Salute e della Scienza di Torino, l’Hesperia Hospital di Modena e l’Azienda Ospedaliera di Padova. Si farà il punto sullo “stato dell’arte” di questa patologia che, lo ricordiamo, è progressiva, evidenzia numeri destinati ad aumentare con l’invecchiamento della popolazione e, se non adeguatamente trattata, può provocare danni permanenti alla vescica, con conseguenze gravi e un impatto molto pesante nella vita quotidiana.
Le prime terapie adottate oggi sono, in genere, farmacologiche, con farmaci alfa-bloccanti, oppure inibitori della 5-reduttasi o, in alcuni casi, trattamenti fitoterapici. Quando però i trattamenti farmacologici non sono efficaci, si rende necessario l’intervento chirurgico tradizionale (TURP) oppure, sempre di più, l’intervento con il laser, di cui si discuterà proprio nel Simposio di Roma.
I “raggi di luce” vengono impiegati in misura crescente in medicina e in chirurgia per le intrinseche caratteristiche di sicurezza, efficacia, minima invasività. Il raggio di luce sprigiona, infatti, energia e calore secondo una specifica lunghezza d’onda ed è proprio in virtù della lunghezza d’onda che è possibile agire sui tessuti con delicatezza, trattando anche aree di piccola dimensione con precisione e notevole potere coagulante, ma senza coinvolgere i tessuti circostanti. In chirurgia possono essere definiti veri e propri bisturi immateriali, capaci di recidere, vaporizzare e coagulare tessuti duri e molli in modo estremamente accurato.
Gli urologi che interverranno all’incontro di Roma porteranno testimonianze di pratica clinica quotidiana; fra le anticipazioni vengono segnalati i trattamenti con il Laser verde Greenlight, oggi riconosciuto come uno dei più avanzati soprattutto per il notevole potere emostatico che consente di non sospendere la somministrazione di farmaci anticoagulanti per l’effettuazione dell’intervento. Con il laser verde Greenlight si possono eseguire interventi di vaporizzazione, nei quali il tessuto prostatico in eccesso viene trasformato in vapore, oppure di enucleazione dell’adenoma prostatico, cioè della porzione centrale, ipertrofica e ostruente della prostata.
La tecnologia del laser verde in campo urologico è in costante evoluzione e non è un caso, come anticipano i responsabili del simposio, che questa soluzione terapeutica sia stata inserita nelle linee-guida dell’Associazione Europea di Urologia e che prestigiose organizzazioni europee come l’inglese NICE (National Institute for Clinical Excellence, che valuta l’efficacia degli interventi medici) e la tedesca G-BA (Gemeinsame Bundesausschuss, che determina i livelli dei rimborsi in ambito sanitario) abbiano certificato l’efficacia degli interventi con il laser verde GreenLight rispetto alla chirurgia tradizionale.
Il simposio medico sull’Ipertrofia Prostatica si terrà venerdì 12 aprile presso il Mercato Centrale Spazio FARE – Via Giovanni Giolitti, 36 – Roma
Attività fisica rallenta invecchiamento. Più sport meno anni
News PresaChe lo sport faccia bene alla salute è ormai risaputo, ma ora si hanno le prove scientifiche che possa addirittura rallentare l’invecchiamento e togliere anni di età. A dimostrarlo è una ricerca condotta dal Karlsruhe Institute of Technology (KIT): chi vive seguendo uno stile di vita attivo risulta essere più giovane di ben 10 anni in termini di capacità motorie. Lo studio è durato oltre due decenni: è stato avviato nel 1992 e ha coinvolto 500 partecipanti tra i 35 e gli 80 anni, i quali sono stati monitorati durante gli anni, attraverso la misurazione di peso, altezza e composizione del corpo. Inoltre i partecipanti hanno eseguito esercizi di attività fisica come sit-ups e push up.
Ma quanti anni ringiovanisce lo sport?
Dai risultati di questo studio è emerso che una persona di 50 anni è in forma quanto un quarantenne che non fa nessuna attività fisica. L’Organizzazione Mondiale della Sanità suggerisce di svolgere almeno 150 minuti di attività fisica moderata a settimana (incluso camminare, nuotare o svolgere attività domestiche) oppure 75 minuti di attività fisica vigorosa (come corsa, ciclismo, aerobica) per prevenire molte malattie. Chi fa meno di 2 ore e mezza di attività, che è appunto lo standard minimo consigliato dall’Oms ha più probabilità di soffrire di diabete di tipo 2.
In conclusione, nonostante le abilità motorie tendano a diminuire nel tempo, l’attività fisica costante può rallentare questo processo. Inoltre, per gli esperti, non c’è dubbio che l’esercizio fisico migliori la qualità della vita in generale, grazie ai benefici psicofisici.
Appuntamenti fissi rendono meno produttivi. Lo studio
News PresaGli appuntamenti fissi, i meeting e le riunioni rendono meno produttivi. Lo dice una ricerca dell’Ohio State University’s Fisher College of Business, pubblicata sulla rivista Journal of Consumer Research. Il motivo sta nel non riuscire a far rendere al meglio il tempo libero che precede l’impegno. Gli studiosi hanno realizzato una serie di otto esperimenti, sia in laboratorio che nella vita reale e hanno scoperto che il tempo libero sembra più breve per le persone che hanno in agenda un compito o un appuntamento. Questo porta a pensare di aver bisogno di altro tempo, anche quando non ce n’è bisogno e il risultato è che si tende a fare meno di quanto si potrebbe.
In un esperimento online, è stato chiesto ai partecipanti di immaginare di avere un amico che arrivava in visita un’ora dopo e che fosse tutto pronto, mentre ad altri che non c’erano appuntamenti per la serata. A tutti è stato chiesto quanti minuti “oggettivamente” avrebbero potuto passare a leggere durante l’ora successiva e quanti minuti “soggettivamente” sentivano di poter trascorrere leggendo durante la stessa ora.
Il risultato è stato che quelli a cui era stato proposto lo scenario dell’attesa di un amico ritenevano di avere a disposizione 40 minuti, rispetto ai 50 indicati da chi non aveva invece programmi. In un altro esperimento condotto nella vita reale, i partecipanti hanno preferito prendere parte a un’indagine di minore durata seppur meno retribuita nell’ora prima di un loro impegno programmato, mentre da un terzo, su 158 studenti universitari, è emerso infine che sembra che si riescano a fare più attività quando non si hanno in programma altri appuntamenti fissati.
Malattia cronica e relazioni familiari
PsicologiaIl miglioramento delle cure mediche e l’innalzamento dell’aspettativa di vita hanno causato cambiamenti sul piano epidemiologico le cui ricadute si manifestano a vari livelli, dal ciclo di vita individuale e familiare sino alle implicazioni sociali e di politica sanitaria. Sempre più diffuse, le malattie croniche non interessano soltanto chi ne è affetto; sempre più attenzione, infatti, è prestata all’impatto dell’impegno assistenziale dei cosiddetti caregiver, ossia delle persone che più si prendono cura di chi è malato. Tuttavia, occorre allargare ulteriormente lo sguardo e includere la famiglia e l’intera rete di relazioni significative nel campo di osservazione, se vogliamo ben comprendere l’impatto di una malattia cronica sulla vita di una persona.
Occorre quindi porre la famiglia al centro degli interventi terapeutici, poiché come evidenziato da esperti clinici e numerose ricerche, questo approccio paga in termini di efficacia e aderenza al trattamento. Esistono valide esperienze nel settore, nonché principi guida stilati da importanti associazioni, quali ad esempio la Collaborative Family Healthcare Association negli USA; ciò che manca è un’ampia e omogenea diffusione di queste pratiche, visti i benefici che esse possono portare in termini di risparmio economico. Non trattare questi aspetti, infatti, può moltiplicare le spese correlate alla malattia, ad esempio per i bisogni di cura dei caregiver che – come evidenzia la letteratura – spesso presentano indici di morbilità maggiori rispetto alla popolazione generale.
Approfondire questi aspetti consente poi di apprezzare le differenze delle malattie in termini di impatto psicosociale e così di mettere a punto interventi il più possibile centrati sulle esigenze di ogni singola condizione. Si pensi ad esempio alla minaccia incombente di una condizione la cui prognosi è infausta o altamente incerta, oppure agli squilibri nelle relazioni familiari causati da condizioni che riducono l’autonomia personale. Si pensi inoltre agli effetti che possono avere, sul piano interpersonale, i disturbi cognitivi che caratterizzano molte malattie neurologiche o le più gravi sindromi psichiatriche. Ogni malattia presenta peculiarità che devono essere poste in relazione alle caratteristiche della famiglia, in termini di struttura, credenze, risorse personali e sociali, fase del ciclo vitale ed eventuale concomitanza di altre fonti di distress.
Questi approfondimenti sono imprescindibili per il riconoscimento e il consolidamento delle risorse di adattamento, e proprio la famiglia, laddove si riescono a catalizzare processi di resilienza, può divenire la più decisiva di tali risorse. Di questo parlerà John Rolland – uno dei massimi esperti mondiali del settore – in un seminario che si terrà il 27 Aprile all’Istituto di Psicoterapia Relazionale di Pisa. L’Istituto è impegnato da anni nell’approfondimento di questi temi, sui quali sono stati pubblicati numerosi articoli scientifici e i volumi Famiglia e Malattia: Una prospettiva relazionale in psicologia della salute (a cura di Francesco Tramonti e Alessandra Tongiorgi – Carocci, 2013) e La famiglia BES: Una visione clinica, sociale e relazionale (di Giulia Liperini e Alessandra Testi – Armando, 2017).
di Francesco Tramonti, Istituto di Psicoterapia Relazionale Pisa, socio ordinario didatta SIPPR
Cani: olfatto potrebbe scovare tumore al polmone. Al via ricerca
Ricerca innovazioneI nostri amici a quattro zampe, grazie al loro olfatto, potrebbero fare una diagnosi precoce dei tumori. Al momento è solo un’ipotesi, ma grazie a un finanziamento del Consiglio per la ricerca sanitaria delle Università della Nuova Zelanda, l’Università di Waikato potrà testare questa teoria in un contesto clinico. Obiettivo dello studio è stabilire se, l’olfatto molto sviluppato dei cani, può identificare con precisione il cancro al polmone, usando campioni di alito e saliva dei pazienti malati. Con oltre 41mila nuovi diagnosticati in Italia nel 2016 e circa 33mila decessi, quello al polmone resta il tumore più diffuso e letale nel nostro Paese e nel mondo. Con l’arrivo dei nuovi farmaci immunoterapici le cose stanno cambiando, ma la diagnosi precoce resta il principale alleato contro la malattia.
“C’è una possibilità che questa ricerca possa identificare uno strumento prezioso per il rilevamento precoce della malattia”, spiega Kath McPherson, direttrice del Consiglio per la ricerca sanitaria. Molti studi precedenti hanno già evidenziato la capacità dei cani di identificare con precisione il cancro. Tuttavia, sono poche le ricerche che coinvolgono metodi utilizzabili in ambito clinico. Una diagnosi più tempestiva, invece, potrebbe ridurre la mortalità per le persone con cancro ai polmoni.
Sarà Tim Edwards, docente della Scuola di psicologia dell’ateneo neozelandese, a coordinare il lavoro. In passato ha lavorato per un’organizzazione umanitaria in Tanzania e ha studiato le capacità del rilevamento della tubercolosi da parte del ratto gigante africano. Questa specie, infatti, ha un olfatto sviluppato e, oltre a individuare pazienti affetti dalla patologia, viene coinvolta per le attività di pulizia dei campi dalle mine anti-uomo.
Cuore: grassi saturi devono essere meno del 10%. Linee guida Oms
AlimentazioneLe calorie ottenute dagli acidi grassi trans (quelli ad esempio di fritti di fast food, merendine, dolci confezionati e margarina) dovrebbero essere meno dell’1%. Questo vale per la dieta di adulti e bambini, perché i grassi trans sono i più dannosi per la salute umana. Per quanto i grassi saturi (come quelli di carne o latte, le calorie che ne derivano dovrebbero essere meno del 10% del totale. A mettere nero su bianco le quantità e i rischi è stata l’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) attraverso le nuove linee guida presentate durante una teleconferenza con i giornalisti. Questi grassi dannosi per la salute dovrebbero essere sostituiti da quelli polinsaturi, come quelli contenuti nell’olio di oliva, elemento base della dieta mediterranea. Le malattie cardiovascolari, sottolineano gli esperti dell’Oms, sono la principale causa di morte nel mondo, e nel 2016 sono state la causa di 17 milioni di decessi. “Un consumo eccessivo di grassi saturi e trans – ha spiegato Francesco Branca, del dipartimento per la nutrizione dell’Oms – è stato identificato come una delle cause principali delle malattie cardiovascolari, e ridurne l’assunzione può salvare migliaia di vite”.
La correlazione tra acidi grassi, sia saturi che trans, e malattie cardiovascolari, è ormai dimostrata con un alto livello di evidenza scientifica, hanno spiegato gli esperti. Questa è la prima volta che l’Oms pubblica un documento sull’argomento. Non tutti i grassi sono uguali, scegliere quelli giusti fa la differenza in termini di salute.
Così le gengive ci dicono se siamo in salute
PrevenzionePer dirla con uno slogan: la salute parte dalla bocca. Al di là delle frasi fatte, si può dire che in questo caso le cose stanno proprio così. Anche se può sembrare strano, la bocca è un po’ come una cartina di tornasole del nostro benessere e sono molti i segnali che possono metterci in allarme nel caso che qualcosa non vada per il verso giusto.
Rosa corallo
Per sapere in che condizioni sono le nostre gengive, basta osservarne le sfumature di colore. Quelle in salute sono rosa corallo, più sono rosse e più dovrebbero destare allarme. A ricordare un facile check-up per capire se sia il caso di farci visitare da uno specialista è la società italiana di Parodontologia e implantologia (SidP), in vista della Giornata Europea delle gengive sane che si celebra il 12 maggio. «Se negli ultimi decenni molto si è fatto in termini di prevenzione della carie, la diffusione delle malattie gengivali è invece ancora alta. Un italiano su tre sopra i 35 anni è affetto da parodontite, ovvero soggetto al ritiro gengivale e alla perdita precoce dei denti, e 8 milioni ne soffrono in una forma grave», spiega Mario Aimetti, presidente SidP.
I sintomi
Secondo una recente indagine, il 47% degli Italiani soffre o ha sofferto di sanguinamento gengivale, il 33% lamenta alitosi, il 29% recessioni gengivali, il 26% dolore alle gengive. Tutti potenziali campanelli d’allarme. Eppure, in presenza di tali sintomi, solo 6 intervistati su 10 si sono rivolti al proprio dentista. «Per sensibilizzare i cittadini – dice Aimetti – la SidP è impegnata in una campagna di informazione sulla parodontite, malattia che può aggravare patologie sistemiche come il diabete e l’artrite reumatoide». A questo scopo lo scorso anno, ha contribuito a promuovere la Giornata Europea delle Gengive Sane nelle aree colpite dal terremoto, inviando sul territorio decine di soci volontari che a bordo di odontoambulanze per eseguire centinaia di check-up sulla salute della bocca. «Anche quest’anno – aggiunge il presidente SidP – l’evento ci vede impegnati in un’opera di divulgazione sui media e sui social con l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema che presenta costi rilevanti, per altro coperti solo per il 5% dalla sanità pubblica”. Il motto di questa edizione è quindi “la salute inizia dalle gengive sane», tema al quale saranno dedicati approfondimenti sulla pagina Facebook della SidP e sulla pagina Gengivepuntoorg
Tumore del colon, un’arma in più per i medici
Ricerca innovazioneUn nuovo test consentirà di classificare con grande precisione il tumore del colon, un passo decisivo per aumentare il successo degli interventi e delle terapie salvavita. Il tumore del colon, è bene ricordarlo, nel 2017 in Italia ha fatto registrare 37.500 nuovi casi. In questo studio c’è molto delle abilità e delle professionalità partenopee, visto che il Pascale di Napoli ha contribuito in maniera decisiva alla validazione internazionale del test, chiamato «immunoscore». Il lavoro ha coinvolto un consorzio di 14 centri di 13 Paesi, sotto l’egida della Società dell’immunoterapia contro il cancro (Society for Immunotherapy of Cancer, SITC), ed è stato pubblicato sull’importante rivista scientifica The Lancet.
La recidiva
«Lo studio ha dimostrato che l’immunoscore costituisce il biomarcatore prognostico oggi più efficace», spiega Paolo Ascierto, direttore dell’Oncologia melanoma e immunoterapia del Pascale. «Permette cioè di stabilire in modo accurato l’evoluzione della malattia e quindi le possibilità di recidiva e, di conseguenza, di sopravvivenza delle persone colpite da una delle neoplasie più frequenti». Il progetto per la validazione è partito proprio da Napoli nel febbraio 2011 e il Pascale è il centro in Italia che ha arruolato il maggior numero di pazienti, circa 200, su un totale di 2.681. Sono state incluse persone colpite da tumore del colon in stadio da I a III. Dall’arruolamento è venuto fuori che i pazienti con un immunoscore alto hanno presentato minori possibilità di recidiva a 5 anni dalla diagnosi. Non solo: nei pazienti con alto immunoscore si è registrato un miglioramento della sopravvivenza globale del 56% rispetto ai pazienti con livelli bassi. «Nella lotta alle neoplasie si stanno aprendo nuove strade per somministrare la terapia giusta al paziente giusto – continua Ascierto –. Il prossimo passo è la valutazione dell’immunoscore come biomarcatore in grado di identificare i pazienti che potranno beneficiare dell’immunoterapia».
Altre neoplasie
«Il valore aggiunto del Pascale – dice il direttore generale dell’Irccs partenopeo, Attilio Bianchi – è rappresentato dall’ elevatissimo livello della nostra ricerca, riconosciuto a livello mondiale. E questo genera valore alla nostra attività assistenziale, perché i risultati delle varie attività di ricerca sono immediatamente disponibili per la pratica clinica, per i pazienti che ogni giorno si affidano alle nostre strutture».