Tempo di lettura: 3 minutiL’arrivo dell’inverno è un momento di maggiore rischio per i più fragili, perché porta con sé le malattie di stagione. L’influenza stagionale e la malattia pneumococcica sono malattie prevenibili che causano ancora una significativa morbilità e mortalità. Ai primi di novembre, è stato pubblicato su Respiratory Medicine l’appello congiunto di S.I.P./I.R.S. – Società Italiana di Pneumologia/Italian Respiratory Society e S.I.T.A. – Società Italiana di Terapia Antinfettiva per promuovere, con decisione e in tempi di COVID-19 non ancora conclusi, la vaccinazione anti-influenzale e contro lo pneumococco, soprattutto tra i soggetti fragili e anziani.
In considerazione del fatto che co-infezioni con virus influenzali o batteriche da Streptococcus pneumoniae sono riscontrate in pazienti COVID-19 e potrebbero avere un impatto negativo sull’esito clinico. La prevenzione dei ricoveri ospedalieri sia per influenza che per pneumococco potrebbe contribuire a ridurre il carico aggiuntivo per i sistemi sanitari e a risparmiare risorse sanitarie. Inoltre, sulla base di recenti evidenze, è possibile ipotizzare che una precedente immunizzazione con vaccini non SARS-CoV-2 possa ridurre il rischio di infezione da COVID-19 e di esiti clinici avversi
Alla luce di ciò, le due Società scientifiche S.I.P./I.R.S. e S.I.T.A. raccomandano congiuntamente uno sforzo per fornire la vaccinazione antinfluenzale alla popolazione generale con particolare attenzione ai gruppi ad alto rischio e agli anziani, parallelamente a un forte miglioramento della copertura vaccinale pneumococcica per questi stessi gruppi di pazienti.
“Studi recenti hanno evidenziato come la vaccinazione anti-influenzale e anti-pneumococcica riducano significativamente il rischio di acquisire l’infezione da SARS-CoV-2, in particolare nei soggetti di età superiore ai 60 anni – sottolinea per la S.I.P./I.R.S. Francesco Blasi, professore ordinario di Medicina respiratoria al dipartimento di Fisiopatologia e Trapianti dell’Università degli Studi di Milano – Questo effetto potrebbe essere legato ad una maggiore propensione dei soggetti che si vaccinano ad osservare le misure di prevenzione delle infezioni ma soprattutto ad una stimolazione da parte dei vaccini della immunità innata che si ipotizza possa indurre un effetto sinergico di protezione dei vaccini anti-influenzale e anti-pneumococcico nei confronti della acquisizione dell’infezione da SARS-CoV-2”.
I dati traslazionali su MERS – Middle East Respiratory Syndrome da coronavirus – suggeriscono infatti che le co-infezioni virali e batteriche tipiche del clima rigido invernale possono aumentare l’infettività di SARS-CoV-2, contribuendo all’infiammazione polmonare, all’evoluzione della polmonite e alla gravità della malattia durante la risposta immunologica. Per quanto riguarda la malattia grave, l’associazione tra SARS-CoV-2 e altri virus è stata segnalata fino al 35% dei pazienti gravi, includendo virus influenzali e principalmente l’influenza di tipo A. A sua volta, la co-infezione batterica da Streptococcus pneumoniae è risultata la più frequente tra i pazienti COVID-19, in una serie di studi osservazionali prospettici in tutta Europa. Nello specifico, I pazienti COVID-19 affetti da super-infezioni acquisite in ospedale hanno mostrato esiti clinici peggiori rispetto ai pazienti senza infezione batterica.
“Non bisogna fermarsi alla vaccinazione contro COVID-19, per quanto fondamentale in questo momento – dichiara Matteo Bassetti, Professore ordinario di Malattie infettive e Direttore della Clinica Malattie Infettive, Ospedale San Martino di Genova, Presidente della S.I.T.A. – ma è necessario promuovere anche la vaccinazione anti-influenzale e anti-pneumococcica: le Società scientifiche S.I.T.A. e S.I.P./I.R.S. vogliono rafforzare questo messaggio, incentivando la popolazione ad attenzionare e non sottovalutare l’influenza stagionale e la malattia pneumococcica, perché non esiste solo il COVID-19 e queste patologie già prima della pandemia costituivano una minaccia importante soprattutto per la salute delle persone più fragili. L’invito rivolto a tutta la popolazione, ma soprattutto alle categorie fragili, è quello di vaccinarsi al più presto, possibilmente entro i mesi di novembre e dicembre”.
Una meta-analisi fondamentale di studi osservazionali che hanno coinvolto più di 290.000 partecipanti ha rilevato che la precedente esposizione alla vaccinazione anti-influenzale rappresentava un fattore protettivo indipendente contro il rischio di infezione da SARS-CoV-2, specialmente nei pazienti di età superiore ai 60 anni. Tuttavia, non si può escludere un possibile effetto dei vaccini virali nell’induzione di un’attivazione non specifica dell’immunità innata.
Anche la vaccinazione pneumococcica è stata associata a una riduzione del rischio di infezione da SARS-CoV-2. L’analisi dei dati regionali statunitensi e italiani ha confermato questi risultati dimostrando che il tasso di vaccinazione antinfluenzale negli adulti in età superiore ai 65 anni, in combinazione con il tasso di vaccinazione pneumococcica, ha fornito una protezione significativamente più elevata contro il rischio di COVID-19 rispetto ai singoli vaccini.
Com’è noto, le epidemie di influenza stagionale implicano un carico ben documentato sui sistemi sanitari durante il periodo invernale e provocano una mortalità considerevole con stime di 250.000 – 500.000 morti all’anno. A sua volta, la malattia correlata a Streptococcus pneumoniae è anch’essa una causa rilevante di mortalità in tutto il mondo, provocando 1,6 milioni di decessi ogni anno. In Italia, tra il 2007 e il 2017, sono stati notificati più di 10.000 casi di malattia pneumococcica invasiva (IPD) con la più alta incidenza e un trend in aumento tra gli individui di età pari o superiore a 65 anni. Nonostante il trattamento appropriato, la mortalità correlata alla IPD è stata riportata fino al 10-25% dei pazienti. Tuttavia, la copertura vaccinale anti-pneumococcica ha ancora tassi bassi in molti Paesi, inclusa l’Italia, dove il totale cumulativo non supera il 24-30%. Le co-infezioni, infine, sia da influenza che da batteri comuni incluso Streptococcus pneumoniae, hanno rappresentato fino al 10% dei casi comportando un aumento significativo del rischio di esito sfavorevole, specialmente tra gli individui più anziani.
Tumore del pancreas, sempre più le nuove diagnosi
News PresaI pazienti dell’ASL Napoli 3 Sud potranno contare su una stretta collaborazione con il Centro di Riferimento Regionale del Cardarelli di Napoli in caso di sospetta o di accertata neoplasia del pancreas. Grazie ad una convenzione siglata tra le due Aziende, infatti, si realizza una struttura organizzativa nell’ambito della quale il più grande ospedale del Mezzogiorno funge da Hub, attivandosi anche sui casi provenienti dal territorio di competenza dell’ASL Napoli 3 Sud. «Resa possibile dalla lungimiranza della nostra direzione strategica, questa collaborazione ci consentirà di trattare al meglio ogni caso, garantendo così una presa in carico ottimale», spiega il professor Carlo Molino, Direttore della I Chirurgia Generale ad indirizzo Oncologico e Direttore dell’Unità Operativa di Chirurgia del Pancreas del Cardarelli di Napoli.
Ed è sempre Molino a lanciare un allarme sui trend di prevalenza per queste neoplasie: «Registriamo da qualche anno un forte aumento dei tumori al pancreas, nel solo 2017 sono stati registrati 13.700 nuovi casi in Italia, vale a dire il 4% di tutti i tumori diagnosticati in ambo i sessi. Storicamente, verosimilmente a causa del fumo di sigaretta, il numero maggiore di diagnosi lo si aveva negli uomini. Oggi nelle donne di più di 70 anni il carcinoma pancreatico è tra i 5 tumori più frequenti».
MIGRAZIONE INUTILE
Un incremento di casi che purtroppo coincide con un dato di migrazione sanitaria passiva ancora troppo marcato e che costa circa 300 milioni di euro l’anno. «Il tumore del pancreas – prosegue il primario – è uno dei più letali, e ancora oggi vediamo partire verso altre regioni circa il 40% dei nuovi casi diagnosticati ogni anno. Una vera e propria fuga che spesso è legata più a etichette e luoghi comuni che alla realtà delle eccellenze presenti sul territorio». L’Unità Operativa di Chirurgia del Pancreas del Cardarelli è infatti uno dei principali centri del Sud Italia, tra i primi in tutto il Paese per numero di casi trattati e per sopravvivenza media dei pazienti affetti da questa forma di tumore. Il Cardarelli, come Centro di Riferimento, mette in campo un’ampia gamma di soluzioni chirurgiche: sia tecniche tradizionali che tecniche di chirurgia laparoscopica e robotica. Il professor Molino, ad esempio, è stato il primo nel Mezzogiorno d’Italia a praticare al Cardarelli “l’elettroporazione irreversibile”, un intervento innovativo che consente di intervenire con la chirurgia su alcuni pazienti altrimenti inoperabili. «Questa tecnica ablativa non termica – spiega il professor Molino – si adopera nel trattamento dei tumori del pancreas non resecabili e non suscettibili di termoablazione».
RETE ONCOLOGICA
Al Cardarelli di Napoli, come previsto dalla Rete Oncologica Regionale, i casi vengono discussi settimanalmente dal Gruppo Oncologico Multidisciplinare (GOM) che ricomprende chirurghi, oncologi, gastroenterologi, eco-endoscopisti, radiologi ed ogni specialista necessario ad una gestione appropriata della specifica patologia. «Questa organizzazione ci consente di mettere il paziente al centro del percorso assistenziale, con una presa in carico globale efficace ed efficiente», sottolinea il dottor Ferdinando Riccardi, Direttore dell’Unità Operativa Complessa di Oncologia e responsabile del Day Hospital Oncologico. «Abbiamo infatti realizzato un sistema nel quale sono gli specialisti a riunirsi settimanalmente per discutere di ogni singolo caso ed assumere decisioni condivise. In questo modo si garantisce una migliore offerta assistenziale, evitando di aggiungere al dolore della malattia un “dolore burocratico”».
Anziani: vaccino contro influenza e pneumococco riducono rischio COVID
News PresaL’arrivo dell’inverno è un momento di maggiore rischio per i più fragili, perché porta con sé le malattie di stagione. L’influenza stagionale e la malattia pneumococcica sono malattie prevenibili che causano ancora una significativa morbilità e mortalità. Ai primi di novembre, è stato pubblicato su Respiratory Medicine l’appello congiunto di S.I.P./I.R.S. – Società Italiana di Pneumologia/Italian Respiratory Society e S.I.T.A. – Società Italiana di Terapia Antinfettiva per promuovere, con decisione e in tempi di COVID-19 non ancora conclusi, la vaccinazione anti-influenzale e contro lo pneumococco, soprattutto tra i soggetti fragili e anziani.
In considerazione del fatto che co-infezioni con virus influenzali o batteriche da Streptococcus pneumoniae sono riscontrate in pazienti COVID-19 e potrebbero avere un impatto negativo sull’esito clinico. La prevenzione dei ricoveri ospedalieri sia per influenza che per pneumococco potrebbe contribuire a ridurre il carico aggiuntivo per i sistemi sanitari e a risparmiare risorse sanitarie. Inoltre, sulla base di recenti evidenze, è possibile ipotizzare che una precedente immunizzazione con vaccini non SARS-CoV-2 possa ridurre il rischio di infezione da COVID-19 e di esiti clinici avversi
Alla luce di ciò, le due Società scientifiche S.I.P./I.R.S. e S.I.T.A. raccomandano congiuntamente uno sforzo per fornire la vaccinazione antinfluenzale alla popolazione generale con particolare attenzione ai gruppi ad alto rischio e agli anziani, parallelamente a un forte miglioramento della copertura vaccinale pneumococcica per questi stessi gruppi di pazienti.
“Studi recenti hanno evidenziato come la vaccinazione anti-influenzale e anti-pneumococcica riducano significativamente il rischio di acquisire l’infezione da SARS-CoV-2, in particolare nei soggetti di età superiore ai 60 anni – sottolinea per la S.I.P./I.R.S. Francesco Blasi, professore ordinario di Medicina respiratoria al dipartimento di Fisiopatologia e Trapianti dell’Università degli Studi di Milano – Questo effetto potrebbe essere legato ad una maggiore propensione dei soggetti che si vaccinano ad osservare le misure di prevenzione delle infezioni ma soprattutto ad una stimolazione da parte dei vaccini della immunità innata che si ipotizza possa indurre un effetto sinergico di protezione dei vaccini anti-influenzale e anti-pneumococcico nei confronti della acquisizione dell’infezione da SARS-CoV-2”.
I dati traslazionali su MERS – Middle East Respiratory Syndrome da coronavirus – suggeriscono infatti che le co-infezioni virali e batteriche tipiche del clima rigido invernale possono aumentare l’infettività di SARS-CoV-2, contribuendo all’infiammazione polmonare, all’evoluzione della polmonite e alla gravità della malattia durante la risposta immunologica. Per quanto riguarda la malattia grave, l’associazione tra SARS-CoV-2 e altri virus è stata segnalata fino al 35% dei pazienti gravi, includendo virus influenzali e principalmente l’influenza di tipo A. A sua volta, la co-infezione batterica da Streptococcus pneumoniae è risultata la più frequente tra i pazienti COVID-19, in una serie di studi osservazionali prospettici in tutta Europa. Nello specifico, I pazienti COVID-19 affetti da super-infezioni acquisite in ospedale hanno mostrato esiti clinici peggiori rispetto ai pazienti senza infezione batterica.
“Non bisogna fermarsi alla vaccinazione contro COVID-19, per quanto fondamentale in questo momento – dichiara Matteo Bassetti, Professore ordinario di Malattie infettive e Direttore della Clinica Malattie Infettive, Ospedale San Martino di Genova, Presidente della S.I.T.A. – ma è necessario promuovere anche la vaccinazione anti-influenzale e anti-pneumococcica: le Società scientifiche S.I.T.A. e S.I.P./I.R.S. vogliono rafforzare questo messaggio, incentivando la popolazione ad attenzionare e non sottovalutare l’influenza stagionale e la malattia pneumococcica, perché non esiste solo il COVID-19 e queste patologie già prima della pandemia costituivano una minaccia importante soprattutto per la salute delle persone più fragili. L’invito rivolto a tutta la popolazione, ma soprattutto alle categorie fragili, è quello di vaccinarsi al più presto, possibilmente entro i mesi di novembre e dicembre”.
Una meta-analisi fondamentale di studi osservazionali che hanno coinvolto più di 290.000 partecipanti ha rilevato che la precedente esposizione alla vaccinazione anti-influenzale rappresentava un fattore protettivo indipendente contro il rischio di infezione da SARS-CoV-2, specialmente nei pazienti di età superiore ai 60 anni. Tuttavia, non si può escludere un possibile effetto dei vaccini virali nell’induzione di un’attivazione non specifica dell’immunità innata.
Anche la vaccinazione pneumococcica è stata associata a una riduzione del rischio di infezione da SARS-CoV-2. L’analisi dei dati regionali statunitensi e italiani ha confermato questi risultati dimostrando che il tasso di vaccinazione antinfluenzale negli adulti in età superiore ai 65 anni, in combinazione con il tasso di vaccinazione pneumococcica, ha fornito una protezione significativamente più elevata contro il rischio di COVID-19 rispetto ai singoli vaccini.
Com’è noto, le epidemie di influenza stagionale implicano un carico ben documentato sui sistemi sanitari durante il periodo invernale e provocano una mortalità considerevole con stime di 250.000 – 500.000 morti all’anno. A sua volta, la malattia correlata a Streptococcus pneumoniae è anch’essa una causa rilevante di mortalità in tutto il mondo, provocando 1,6 milioni di decessi ogni anno. In Italia, tra il 2007 e il 2017, sono stati notificati più di 10.000 casi di malattia pneumococcica invasiva (IPD) con la più alta incidenza e un trend in aumento tra gli individui di età pari o superiore a 65 anni. Nonostante il trattamento appropriato, la mortalità correlata alla IPD è stata riportata fino al 10-25% dei pazienti. Tuttavia, la copertura vaccinale anti-pneumococcica ha ancora tassi bassi in molti Paesi, inclusa l’Italia, dove il totale cumulativo non supera il 24-30%. Le co-infezioni, infine, sia da influenza che da batteri comuni incluso Streptococcus pneumoniae, hanno rappresentato fino al 10% dei casi comportando un aumento significativo del rischio di esito sfavorevole, specialmente tra gli individui più anziani.
Prematurità, un dono per la T.I.N. del Cardarelli
Bambini«Il futuro appartiene a coloro che credono nella bellezza dei propri sogni», è questa la frase che si legge sulla piccola targa apposta al macchinario donato dai coniugi Maddoloni alla T.I.N. del Cardarelli di Napoli oggi, in occasione della Giornata Mondiale della Prematurità.«Abbiamo conosciuto la realtà della T.I.N. del Cardarelli – dice il campione di judo Marco Maddaloni – quando è nata la nostra Giselle. Chiaramente per noi è stato un momento molto difficile, ma siamo stati presi in carico da una squadra straordinaria; un reparto nel quale alla professionalità si unisce la grandissima umanità di tutto il personale». La donazione è stata possibile grazie all’annuale gala di beneficenza Marco Maddaloni Charity (organizzato dalla Marco e Romy Foundation). «Quando ci dissero delle difficoltà della nostra piccola Giselle per noi fu un momento terribile – ricorda mamma Romina -, qualcosa di straziante. Ben presto ci ritrovammo alla T.I.N. del Cardarelli dove fummo accolti da una realtà straordinaria. Ogni giorno pregavo che tutto andasse bene, vedevo tante situazioni difficili. Oggi la nostra piccola ha 3 anni ed è vivace, con un carattere forte. Dobbiamo molto a questa struttura straordinaria che ogni giorno compie dei veri e propri miracoli. Sono i nostri angeli».
DIAGNOSI PRECOCE
Il macchinario, acquistato grazie ai soldi raccolti con il Marco Maddaloni Charity 2020, consente il monitoraggio della frequenza cardiaca in modo non invasivo per i nati prematuri. «Un dono preziosissimo – spiega la dottoressa Gabriella De Luca -, che ci aiuta a diagnosticare eventuali infezioni neonatali prima della comparsa dei sintomi. Nei neonati prematuri la velocità della diagnosi è fondamentale per instaurare una terapia tempestiva e migliorare così la prognosi». Il macchinario va ad implementare le dotazioni tecnologiche della T.I.N. del Cardarelli di Napoli. L’Unità Operativa Complessa di Terapia Intensiva Neonatale, con i suoi 8 posti di Terapia Intensiva Neonatale e 10 di sub intensiva, conta ogni anno circa 300 ricoveri. Il lavoro viene portato avanti di concerto con l’Unità Operativa Complessa di Ginecologia e Ostetricia, diretta dal dottor Claudio Santangelo, che è Centro di riferimento regionale per le gravidanze a rischio. Ad incontrare e ringraziare la giovane coppia sono stati il direttore generale del Cardarelli Giuseppe Longo e il direttore sanitario Giuseppe Russo. «Questa donazione – dicono – ha un grande valore per noi, sia sotto il profilo materiale che umano; è il riconoscimento di un lavoro che il nostro personale porta avanti ogni giorno con abnegazione e passione. Ancora una volta la famiglia Maddaloni ha dimostrato di essere capace di grandi gesti, nella vita come nello sport».La raccolta fondi in occasione del Marco Maddaloni Charity è stata possibile grazie a tanti sponsor e sostenitori, tra i quali: Teresa Chirico, Accendi un sogno, Far Srl, Villa Domi, Five Srl, Roberto Giannotti, Babloo Gadget, Rogante, Poppella, Faber Italia, Isabella De Cham, Serena Chirico e Full Security.
HIV, effetto pandemia: dimezzate nuove diagnosi in Italia nel 2020
Ricerca innovazioneSono 1.303 le nuove diagnosi di infezione da HIV segnalate nel 2020, un numero ancora più ridotto rispetto ai casi già in diminuzione osservati negli ultimi dieci anni. “Rispetto al 2019 – commenta Barbara Suligoi, responsabile del Centro Operativo AIDS dell’ISS – il numero di nuove diagnosi HIV del 2020 è quasi dimezzato e questo è molto probabilmente da ricondurre alla pandemia da Covid-19 e alle conseguenti restrizioni di circolazione e di aggregazione”.
HIV, i dati in Italia
L’incidenza osservata in Italia è stata inferiore rispetto all’incidenza media osservata tra le nazioni dell’Unione Europea (2,2 vs. 3,3 nuovi casi per 100.000 residenti). La quasi totalità dei casi (88%) è da attribuire a rapporti sessuali: maschi che fanno sesso con maschi (MSM) per il 46% e rapporti eterosessuali (maschi e femmine) per il 42%. Tra i maschi, più della metà delle nuove diagnosi HIV è in MSM. La fascia d’età 25-29 anni è quella con la maggiore incidenza, più che doppia rispetto all’incidenza totale (5,5 vs. 2,2 nuovi casi per 100.000 residenti).
“Purtroppo – continua Barbara Suligoi – 6 su 10 nuove diagnosi di HIV vengono identificate in ritardo, cioè in persone con una situazione immunitaria gravemente deficitaria (CD4<350 cell/µL) o addirittura già con sintomi di AIDS. Questo ritardo pregiudica l’efficacia delle terapie antivirali. Infatti, mentre una terapia antivirale iniziata in fase precoce di infezione e in una persona giovane consente una qualità ed un’aspettativa di vita analoghe a quelle di una persona senza HIV, una diagnosi tardiva e quindi un inizio tardivo di terapia riduce le probabilità di successo della stessa”. Inoltre, le persone con diagnosi tardiva possono aver involontariamente trasmesso l’HIV ad altre persone, contribuendo così ad alimentare un ‘sommerso’ di casi non ancora diagnosticati che in Italia si aggira intorno alle 13.000-15.000 persone.
Dai dati emerge come la percezione sulla circolazione dell’HIV sia molto bassa nella popolazione generale e in particolare tra i giovani. “È fondamentale – si legge in una nota dell’ISS – invitare le persone che si fossero esposte ad un contatto a rischio, in particolare nell’ultimo anno e mezzo, ad effettuare un test HIV: questo periodo di restrizioni da Covid può aver impedito o scoraggiato molte persone a recarsi presso le strutture sanitarie dedicate”. Da qui l’importanza di iniziative per effettuare il test HIV in sedi extraospedaliere ed informali, quali check-point, laboratori mobili, test in piazza, test rapidi, che eliminano le remore o la vergogna di rivolgersi ad una struttura sanitaria. “Dal 22 al 29 novembre – conclude la dr.ssa Suligoi – si terrà la Settimana Europea per i test HIV ed epatiti virali, con iniziative gratuite di test in tante città italiane: un’occasione per fare il test HIV senza stress”. L’obiettivo proposto dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è quello di terminare l’epidemia di AIDS per il 2030.
Tumore al seno: individuate molecole per nuove cure più efficaci
Ricerca innovazioneNuove possibili terapie contro il cancro al seno grazie a un gruppo di molecole che bloccano un enzima e un recettore responsabili della malattia. Questa nuova luce arriva dai risultati di uno studio italiano, pubblicati sull’European Journal of Medicinal Chemistry.
Il tumore al seno, tra i più diffusi
Il tumore al seno è tra i più frequenti nelle donne. Grazie alla ricerca, oggi esistono terapie efficaci per molti dei casi, ma non ancora per tutti. Per questo tumore è diventato possibile progettare farmaci più selettivi ed efficaci, anche grazie alle simulazioni numeriche. Lo confermano i risultati di una ricerca dell’Istituto officina dei materiali del Consiglio nazionale delle ricerche di Trieste (Cnr-Iom), in collaborazione con l’Istituto nazionale dei tumori di Milano e l’Università di Bologna. I dati, pubblicati sull’European Journal of Medicinal Chemistry, sono stati ottenuti anche grazie al sostegno di Fondazione AIRC per la ricerca sul cancro a un progetto, recentemente concluso, volto a identificare molecole adatte al trattamento di questo tumore. Nella ricerca condotta da Cnr-Iom è stato studiato in particolare il ruolo degli estrogeni.
“Questi ormoni sessuali femminili contribuiscono alla crescita cellulare e sono sintetizzati grazie anche alla catalisi da parte dell’enzima aromatasi. Una volta prodotti si legano al recettore estrogenico alfa (ERα), attivandolo e stimolando la proliferazione cellulare”, spiega Alessandra Magistrato del Cnr-Iom. “Gli estrogeni svolgono funzioni di fondamentale importanza nello sviluppo dei caratteri sessuali femminili, nel ciclo mestruale, nel rimodellamento delle ossa e, legandosi a ERα, danno alle cellule l’ordine di crescere. Per questo, se prodotti in concentrazione troppo elevata, possono determinare una crescita cellulare anomala e indurre o peggiorare un tumore al seno”.
Contro questo tipo di tumore sono disponibili diversi farmaci che però possono indurre effetti collaterali; inoltre, dopo anni di somministrazione, in una percentuale di donne il tumore sviluppa resistenze che rendono le terapie inefficaci. “Alla base di questo fenomeno di resistenza ci sono alcune mutazioni somatiche, cioè piccole variazioni nel gene che codifica per ERα, che in seguito all’azione selettiva dei farmaci spesso somministrati per anni vengono selezionate e diventano predominanti.
Scopo del progetto di ricerca è stato dunque colpire l’enzima che catalizza la produzione degli estrogeni e allo stesso tempo bloccarne il recettore, al fine di contrastare le mutazioni”, prosegue Magistrato.
Lo studio
Nello studio è stato identificato un gruppo di molecole a bersaglio multiplo, in grado di legare con buona affinità sia l’enzima aromatasi, sia il recettore ERα e di bloccare l’attività di entrambi. “Queste molecole sono quindi molto interessanti perché da un lato dimostrano di colpire preferenzialmente le cellule malate e dall’altro lato sono capaci di colpire due bersagli importanti per un particolare tipo di tumore al seno, quello positivo al recettore degli estrogeni (ER+)”, conclude la ricercatrice del Cnr-Iom. “Se da queste molecole si otterrà un farmaco, potrebbe essere possibile con un solo prodotto svolgere l’azione oggi indotta da due farmaci diversi, risolvendo allo stesso tempo i problemi posti dalla resistenza ed evitando infine alcuni effetti collaterali”.
Nella ricerca sono già state identificate alcune molecole, di cui è stata studiata la capacità di colpire i bersagli prescelti attraverso simulazioni al computer. In seguito le molecole sono state sintetizzate in laboratorio dai collaboratori dell’Università di Bologna e sono stati svolti esperimenti in cellule in coltura nei laboratori dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. I risultati degli esperimenti hanno confermato quelli predetti dalle simulazioni informatiche. “È di particolare rilevanza la selettività delle molecole a doppia attività inibitoria rilevata qui all’Istituto, perché esse contrastano la proliferazione delle cellule tumorali ma non di quelle sane. In questo modo si potrebbero eliminare gli effetti tossici”, conclude Nadia Zaffaroni, direttrice della struttura complessa di farmacologia molecolare dell’Istituto nazionale dei tumori di Milano. I risultati ottenuti dovranno ora essere ulteriormente messi alla prova con sperimentazioni di laboratorio, che se avranno successo apriranno la strada a un possibile studio clinico.
Riscaldamento globale, a rischio la fertilità maschile
News PresaCos’ha a che fare il riscaldamento globale con la fertilità maschile? Apparentemente nulla, e invece dalla Società Italiana di Andrologia (SIA) arriva un allarme chiaro: il numero medio degli spermatozoi degli uomini oggi è dimezzato rispetto a quarant’anni fa e un italiano su dieci è ormai infertile, oltre che dall’inquinamento ambientale, potrebbe dipendere anche dal cambiamento climatico. Un dato che si accompagna ad un dato molto preoccupante, il decremento delle nascite registrato nel 2020 nel nostro paese: poco più di 400mila nuovi nati. Tornando al dato messo in luce dagli androloghi, è un dato ben noto che la temperatura troppo alta può avere effetti negativi sulla capacità degli uomini di procreare.«Gli studi sugli animali, per esempio su farfalle e coleotteri, mostrano che l’aumento delle temperature sta probabilmente contribuendo all’estinzione di alcune specie perché l’apparato riproduttivo maschile e gli spermatozoi in particolare sono molto sensibili al caldo», spiega Alessandro Palmieri, presidente SIA e professore di Urologia Università Federico II di Napoli.
L’ESIGENZA DI UN CONTROLLO
«In alcuni casi la produzione di spermatozoi è stata vista calare di tre quarti e la capacità di fecondazione è crollata: solo un terzo degli spermatozoi resta vitale, la maggioranza muore prima di arrivare a fecondare il gamete femminile. Per di più gli effetti negativi si tramandano anche sulla prole eventualmente generata che risulta meno fertile, con un 25% di riduzione delle capacità riproduttive». Anche se questo allarme potrebbe sembrare eccessivo, si deve considerare che l’aumento di un grado della temperatura ambientale accresce di 0,1 C la temperatura scrotale che può compromettere la fertilità. Le difficoltà di tanti uomini ad essere fertili sono ormai un dato sul quale riflettere e non è credibile che le cause siano tutte da rilevarsi solo nel fumo, nell’inquinamento ambientale o nelle infezioni sessuali. Per gli esperti non ci sono dubbi: il riscaldamento globale può contribuire a una riduzione degli spermatozoi. Ecco perché un controllo dall’andrologo può servire a capire come proteggere la salute sessuale maschile anche dalle minacce esterne, con test diagnostici di laboratorio come ad esempio l’esame del liquido seminale che permette di ottenere informazioni utili sullo stato di salute degli spermatozoi.
Zuccheri aggiunti nascosti nei cibi nemici della salute
AlimentazioneLa prevenzione inizia a tavola. Tuttavia, anche se la maggior parte delle persone è consapevole del fatto che l’alimentazione sia determinante per mantenere corpo e mente sani e forti, per molti resistere agli zuccheri in eccesso è una sfida troppo difficile.
Gli zuccheri aggiunti nei cibi
Gli studi hanno dimostrato che la maggior parte delle malattie deriva da una scorretta alimentazione e, in particolare, da un esagerato consumo di zuccheri. L’eccesso di glucosio nel sangue è all’origine dei processi di infiammazione cellulare e di patologie, come l’Alzheimer; il Parkinson; la demenza senile; oltre che di obesità, diabete, malattie cardiache. Nello stesso tempo, è ormai noto che per stare in forma e mantenere alto il proprio livello di salute, fisica e mentale, la prevenzione è indispensabile e che, a tal proposito, l’alimentazione gioca un ruolo fondamentale.
Purtroppo, per la maggior parte delle persone la routine alimentare è inconsapevolmente caratterizzata da un eccesso di zuccheri, presenti in molti cibi processati in vendita nella grande distribuzione. Dal secondo dopoguerra lo zucchero è prepotentemente entrato nell’industria alimentare, non solo per edulcorare ma anche per conservare. Inoltre, lo zucchero è presentato sulle etichette sotto diverse nomenclature e per la moderna industria alimentare rappresenta anche un incentivo alla vendita, dal momento che crea una certa dipendenza.
L’azienda italiana oggetto di uno studio internazionale
Un’azienda italiana Lightflow, con base a L’Aquila, ha creato dei prodotti con un basso apporto di carboidrati e privi di zuccheri, adatti a un’alimentazione sana, con un basso indice glicemico. “L’idea di Lightflow è nata dalla volontà di risolvere un problema e di migliorare la vita delle persone, a partire da quelle che soffrono di diabete o di insulino-resistenze, creando qualcosa che non solo non c’era ma che non era neanche immaginabile.” Spiega Fabrizio Mellone, Fondatore di Lightflow. “Dietro la linea Carbolight ci sono anni di studio, sperimentazione, ricerca. Abbiamo lavorato con equipe di medici, nutrizionisti, tecnologi alimentari, ingegneri, per mettere a punto una gamma di prodotti a base di amido resistente – ieri di frumento, oggi di tapioca – che hanno un bassissimo indice glicemico.” Continua Fabrizio Mellone: “I prodotti Lightflow sono caratterizzati da ingredienti di prima qualità, certificati. Quello che propone Lightflow è molto più di una dieta; è uno stile di vita nuovo, diverso, che può rivelarsi risolutivo per un gran numero di persone. La crisi sanitaria ha reso ancor più evidente l’importanza della prevenzione a partire dalla salute del sistema immunitario, fondamentale per rispondere alle minacce esterne cui quotidianamente siamo sottoposti. Ebbene, questi prodotti, ricchi di fibre preziose, come l’inulina e l’amido resistente, costituiscono il nutrimento ideale per mantenere sano e in buona salute il microbiota intestinale indispensabile per il benessere del sistema immunitario e, dunque, di tutto l’organismo. In più, siamo orgogliosi del fatto che Lightflow è stata oggetto di uno studio scientifico, condotto da quattro università e pubblicato sull’autorevole rivista medica Pubmed, volto a dimostrare che un’alimentazione chetogenica, non solo porta al dimagrimento ma è in grado di influenzare positivamente i Micro-RNA, le molecole che modulano la sintesi proteica.”
Smog: Italia peggiore in UE per decessi da NO2
PrevenzioneL’Italia si conferma ancora una volta tra i paesi europei dove sono più alti i rischi per la salute, in termini di morti e anni di vita persi, a causa dell’esposizione allo smog. I dati emergono dall’analisi dell’Agenzia europea dell’ambiente (Aea) ‘Impatti sulla salute dell’inquinamento atmosferico in Europa’ che presenta stime aggiornate su come tre inquinanti, particolato fine, biossido di azoto, ozono troposferico, hanno influito sulla salute degli europei. Secondo il Rapporto 2021, basato sui dati del 2019, almeno il 58% dei decessi da PM2,5 in Ue si sarebbe potuto evitare se tutti gli Stati membri avessero raggiunto il nuovo parametro OMS per il PM2,5 di 5 µg/m3. Con i parametri Oms, ammonisce la Aea, l’Italia avrebbe 32.200 decessi in meno (-32.200) da PM2,5.
Smog e salute. I dati dell’ultimo Rapporto AEA
Nel 2019 il nostro paese era il primo per numero di morti per biossido di azoto (NO2, 10.640 morti, +2% rispetto ai dati del Rapporto Aea 2020), ed è il secondo dopo la Germania per i rischi da particolato fine PM2,5 (49.900 morti, -4%) e ozono (O3, 3170 morti, +5% sul 2018). Nell’Ue a 27, nel 2019 circa 307.000 persone sono morte prematuramente a causa dell’esposizione a PM2,5 , 40.400 per l’NO2 e 16.800 a causa dell’esposizione acuta all’ozono. I decessi per smog sono diminuiti del 16% rispetto al 2018 e del 33% con riferimento al 2005.
Diabete: in pandemia 1 paziente su 4 senza controllo emoglobina
PrevenzioneNon rassicura il dato sul controllo dell’emoglobina glicata nei pazienti diabetici italiani. Nel quadriennio 2017-2020, infatti, solo un paziente su tre (34%) riferisce di aver fatto il controllo nei 4 mesi precedenti l’intervista, il 29% lo ha fatto da più di 4 ma meno di 12 mesi, gli altri non lo hanno fatto o lo hanno fatto da oltre 12 mesi (14%) e non conoscono questo esame (23%). I dati del sistema di sorveglianza PASSI coordinato dall’ISS in collaborazione con le Regioni, sono stati diffusi in occasione della Giornata mondiale del diabete. L’analisi temporale sugli ultimi 10 anni mostra un peggioramento e mette in luce l’impatto indiretto della pandemia anche nella gestione dei pazienti diabetici. Nel 2020, infatti, c’è un aumento significativo (dal 15% del 2019 al 25%) di pazienti diabetici che riferiscono di non aver fatto il controllo dell’emoglobina glicata o di averlo fatto da oltre 1 anno, fra coloro che sono consapevoli e conoscono l’importanza di questo esame. L’emergenza sanitaria legata alla pandemia è possibile che si sia tradotta in maggiori difficoltà di accesso ai servizi sanitari o abbia indotto le persone a rinunciare a fare i controlli.
Il diabete, come insorge
Il diabete è una malattia cronica data da elevati livelli di glucosio nel sangue, dovuta a un’inadeguata (o assente) produzione dell’ormone insulina (diabete di tipo 1) o di una scarsa capacità dei tessuti di utilizzare l’insulina stessa (diabete di tipo 2). L’insulina è l’ormone, prodotto dal pancreas, che consente al glucosio l’ingresso nelle cellule e il suo conseguente utilizzo come fonte energetica. Quando questo meccanismo è alterato, il glucosio si accumula nel sangue. Se l’iperglicemia non viene tenuta sotto controllo, il diabete progredisce e nel lungo termine può creare serie complicanze a tutti gli organi: cuore, cervello e vasi, nervi periferici, reni, occhi, piede.
Il Diabete tipo 2 è la forma più comune di questa malattia (coinvolge circa il 90% dei pazienti diabetici). In genere, si manifesta dopo i 30-40 anni, a differenza del diabete di tipo 1 che ha un esordio nell’infanzia o in adolescenza. Il Diabete tipo 2 può decorrere in modo silente anche senza sintomi per molti anni perché l’iperglicemia si sviluppa gradualmente e la diagnosi è spesso tardiva o casuale. Si stima infatti che solo una persona su tre sia consapevole di essere affetta dalla malattia.
Il diabete di tipo 2 è associato, oltre alla familiarità, a fattori di rischio modificabili come sedentarietà, sovrappeso e l’obesità. Una corretta alimentazione, l’attività fisica e il controllo del peso corporeo – sottolinea la nota dell’ISS – non solo contribuirebbero al controllo dei valori di glucosio nel sangue, e più in generale al controllo metabolico (dei lipidi plasmatici e della pressione arteriosa) nei soggetti diabetici e sarebbero in grado di prevenire o ritardare le complicanze croniche del diabete, ma potrebbero prevenire l’insorgenza della malattia stessa.
Il diabete in Italia
Secondo i dati PASSI, nel quadriennio 2017-2020, circa il 5% della popolazione adulta fra 18 e 69 anni riferisce una diagnosi di diabete. Questa stima cresce con l’età (dal 2% prima dei 50 anni raggiunge il 9% fra 50-69 anni), è più frequente fra gli uomini (5,3% vs 4,1% fra le donne) e disegna un gradiente sociale importante a sfavore delle persone socio-economicamente più svantaggiate, per molte difficoltà economiche (8% vs 3.4% fra chi non ne ha) o bassa istruzione (16% fra le persone con al più la licenza elementare vs 2% fra i laureati) e anche un gradiente geografico a sfavore dei residenti nelle regioni meridionali (5.7% al Sud-isole vs 3.8% al Nord).
Ipertensione, ipercolesterolemia, eccesso ponderale e sedentarietà si associano significativamente al diabete: fra le persone con diagnosi di diabete il 52% riferisce anche una diagnosi di ipertensione (vs 18% fra le persone senza diabete), il 43% una diagnosi di ipercolesterolemia (vs 21%), il 71% è in eccesso ponderale (vs 41%), il 49% è completamente sedentario (vs 36%), e peraltro il 23% continua ad essere un fumatore abituale.
L’emoglobina glicata per il monitoraggio del diabete
Il monitoraggio della emoglobina glicata (HbA1) è fondamentale nella gestione del diabete. L’emoglobina è una proteina presente all’interno dei globuli rossi ed è deputata al trasporto dell’ossigeno dai polmoni a tutto il corpo. Il glucosio circolante nel sangue si può legare all’emoglobina dei globuli rossi formando così molecole di emoglobina glicata (o glicosilata). Se sono presenti elevati livelli di glucosio nel sangue, si forma più emoglobina glicata. Per questa ragione il dosaggio dell’emoglobina glicata è un buon indicatore clinico per monitorare il controllo glicemico nel tempo e l’efficacia della cura del diabete; il suo valore offre, con notevole attendibilità, un’indicazione della glicemia media degli ultimi 3 mesi e permette quindi di valutare se la terapia in corso è adeguata ed è riuscita a controllare la malattia in modo ottimale o meno. Nei soggetti diabetici, l’emoglobina glicata andrebbe quindi regolarmente controllata ogni 3-4 mesi.
Mieloma multiplo, l’importanza di “muoversi”
News Presa, PartnerFare presto, verrebbe da dire “muoversi”, è l’appello alla ricerca che arriva da parte di quanti sono affetti da una patologia per la quale con ci sono cure. “Muoversi”, quando si parla di Mieloma Multiplo è invece la parola d’ordine che i medici rivolgono ai pazienti, perché nell’affrontare la patologia il movimento e le attività motorie sono cruciali. Lo ha ricordato ai microfoni di Radio Kiss Kiss, in occasione delle pillole di salute proposte dal network editoriale PreSa, la dottoressa Maria Teresa Petrucci, dirigente Medico Azienda Policlinico Umberto I di Roma. «L’attività motoria è molto importante – ha detto – uno dei sintomi di questa malattia sono le fratture ossee, quindi verrebbe da immaginare che il paziente debba limitare al massimo i movimenti, non è così. Con adeguati presidi ortopedici, se necessario, è bene muoversi, praticare attività motoria, perché il trofismo muscolare e osseo è dato dal corretto movimento. Ovviamente si deve votare un tipo di movimento che possa essere traumatico e fare ginnastica in modo adeguato».
Ma cos’è il mieloma multiplo?
«È una neoplasia del sangue, la seconda per incidenza dopo il linfoma di Hodgkin. Solitamente questa malattia colpisce pazienti che hanno circa 70 anni, ma sempre più spesso vediamo pazienti sotto i 50 anni». Fondamentale, spiega la dottoressa Teresa Petrucci, è avere una diagnosi precoce. In questo modo è possibile evitare che si arrivi a complicanze anche molto gravi che coinvolgono gli organi come il fegato o i reni. Fortunatamente, per il mieloma multiplo la ricerca ha fatto passi da gigante negli ultimi 20 anni, mettendo a punto terapie meritare che consentono oggi di cronicizzare la malattia. «Sono certa – ha concluso la specialista – che nei prossimi anni assisteremo ad ulteriori scoperte e prima o poi anche per questa patologia avremo finalmente una terapia che possa essere risolutiva».
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