Tempo di lettura: 4 minutiIl giudizio sullo smart working è positivo. Lo rivela un’indagine che ha coinvolto i dipendenti del Consiglio nazionale delle ricerche: il valore espresso è stato pari a 8,17/10, anche se la metà ritiene che sia praticabile solo alcuni giorni a settimana.
Smart working o lavoro agile
Il lavoro agile (o smart working) si basa sull’assenza di vincoli orari o spaziali, con un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita tra dipendente e datore di lavoro. Si tratta di un’organizzazione che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, aumenta la sua produttività. Infatti, il 47% ha registrato un incremento della produttività in smart working, preferita soprattutto dai genitori che hanno figli da 0 a 6 anni di età. L’indagine è a cura del Comitato unico di garanzia, in collaborazione con l’attività Mutamenti Sociali, Valutazione e Metodi dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali.
Gli effetti sul lavoro
“Il lavoro agile è ormai un modus strutturato e riconosciuto. È stato pertanto chiesto ai dipendenti di esprimere un parere al riguardo, considerandone rischi ed opportunità”, spiega Antonio Tintori, ricercatore dell’Irpps e coordinatore dell’indagine. “Il giudizio complessivo in merito al lavoro agile è molto buono, attestandosi su un valore medio di 8,17 su 10. Oltre la metà dei dipendenti però ritiene che debba essere praticabile solo alcuni giorni a settimana. Propende maggiormente per il lavoro in presenza, in particolare, il 18% di chi ha un titolo di studio inferiore alla laurea e solo il 5% di chi ha figli piccoli (da 0 a 6 anni) e il 15% dei genitori di ragazzi di età maggiore ai 12 anni.
Rispetto all’inquadramento, preferisce invece lavorare sempre dalla propria sede: il 17% del personale tecnico, l’11% di quello amministrativo, l’11% dei ricercatori e il 5% dei tecnologi. La metà dei dipendenti ha inoltre dichiarato di aver lavorato di più in remoto che in sede, 4 soggetti su 10 non hanno riscontrato differenze in termini di impegno, mentre circa un intervistato su 10 afferma di aver lavorato meno in modalità agile”, prosegue Tintori. In modalità agile sono le donne ad aver lavorato più degli uomini (54% contro il 44% degli uomini), mentre non sono state rilevate differenze significative in relazione all’età, al titolo di studio e alla sede lavorativa. Il 47% attraverso il lavoro agile ha registrato anche un incremento di produttività, che ha interessato sempre più le donne (49% contro il 44,5% degli uomini). Ad evidenziare una riduzione della produttività è stato invece solo il 12% dei dipendenti.
La ricerca ha approfondito i vantaggi del lavoro a distanza. “Il risparmio di tempo legato agli spostamenti è per l’82% una conquista importante. Altri sottolineano la migliore conciliazione tra
oneri lavorativi e vita privata (77%) e l’autonomia gestionale (48%). Tuttavia, probabilmente in assenza di una regolamentazione, si sono evidenziate anche talune difficoltà: disagi di
comunicazione e coordinazione con colleghi e colleghe (41%), eccessiva reperibilità e mancato diritto alla disconnessione (33%), esclusione dal flusso di informazioni (31%) e solitudine (30%)”,
commenta Tintori.
Il progetto
Il progetto “Obiettivo benessere”, realizzato nell’ambito delle attività del Gruppo di lavoro “Benessere organizzativo, salute e sicurezza” del Comitato unico di garanzia (Cug) del Consiglio
nazionale delle ricerche, in collaborazione con l’attività Mutamenti sociali, valutazione e metodi (Musa) dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Cnr-Irpps), ha svolto tra il 22
dicembre 2021 e il 31 gennaio 2022 un’indagine, attraverso un questionario in formato elettronico diffuso via e mail cui hanno aderito 4.200 dipendenti su 8.550, ovvero il 49%. Tra questi, il 53% sono femmine, il 45% maschi, mentre il 2% ha utilizzato l’opzione “Altro/non risponde”. Al sondaggio sono state fornite risposte da sedi e aree di ricerca di tutta Italia, da tutti i dipartimenti e da tutte le categorie di dipendenti. Tra gli argomenti trattati: lavoro agile, conciliazione lavoro famiglia, stereotipi di genere.
Smart working e stereotipi di genere
“Gli stereotipi che resistono sono soprattutto quelli relativi al contesto e alle dinamiche lavorative”, spiega Giovanna Acampora, presidente del Cug del Cnr. “Si attesta infatti su valori tendenzialmente bassi la quota di quanti e quante ritengono che il ruolo ‘naturale’ della donna sia quello di madre e moglie (4%), e di chi sostiene che gli uomini siano più portati per le materie scientifiche (4%) e che debba essere soprattutto l’uomo a mantenere la famiglia (4%). Entrando però nell’ambito lavorativo, per l’8% gli uomini hanno maggiori capacità di leadership delle donne, per il 15% sono più collaborativi e, infine, secondo il 42% il sesso femminile è più sensibile verso il benessere del personale. In particolare, quest’ultimo, che elegge la donna a soggetto più empatico, prosociale e dedito alla cura e all’assistenza dell’altro, costituisce proprio uno dei classici luoghi comuni sulle distinzioni di genere”.
Conciliazione tra lavoro e vita privata
Come gli stereotipi di genere, anche la conciliazione tra oneri lavorativi e vita privata è strettamente correlata con il lavoro agile: il 41% non riesce sempre a “mettere insieme” esigenze lavorative e personali, il 32% quelle lavorative e familiari; per il 29% il lavoro è incompatibile con gli impegni personali e per il 27% con quelli familiari; il 26% reputa che le esigenze familiari abbiano compromesso percorso professionale e la carriera; il 61% è contrario riunioni oltre le ore 16.00.
“Maggiori difficoltà di conciliazione le incontrano le donne e chi non si è identificato con il genere maschile o femminile”, conclude Tintori.“Del resto, tale differenza di genere è connessa all’iniqua divisione del lavoro domestico non retribuito, che appare ancora prevalentemente appannaggio delle dipendenti (39% contro il 24% dei dipendenti). I dati mostrano infatti che la ripartizione dei compiti per la casa e la famiglia ricalca taluni ruoli stereotipati di genere”, conclude Acampora. “Nell’ambito del Cnr, le donne si occupano prevalentemente di pulizie domestiche (71% contro il 25% dei maschi), cura dei figli (41% contro il 14%) e di altri familiari (23% contro 9%), mentre gli uomini si dedicano maggiormente a piccoli lavori di manutenzione (88% contro il 26% delle femmine) e alla gestione amministrativa della casa (72% contro il 54%)”.
Alcol, in gravidanza anche un bicchiere può essere decisivo
Bambini, Stili di vitaBere alcol o peggio ancora superalcolici non fa mai bene, se lo si fa in gravidanza il rischio per il bambino è altissimo. Ecco perché le future mamme dovrebbero essere ben informate sui pericoli derivanti dal vino e da altri drink, prima che sia tardi. Si potrebbe credere che tutto questo riguardi un’abitudine a consumare alcol o superalcolici, sottostimando i danni per il feto, ma non è così. Bere in gravidanza è un pericolo sempre. Tra i pericoli più gravi c’è quello di avere un aborto spontaneo, la natimortalità o ancora la sindrome della morte improvvisa in culla. Si può avere un parto pretermine, e il bambino potrebbe presentare alcune malformazioni congenite. In diversi casi i medici hanno riscontrato un basso peso alla nascita o un ritardo di sviluppo intrauterino e una serie di disordini racchiusi dal termine “Spettro dei disordini feto-alcolici”, a partire dalla manifestazione più grave, la Sindrome Feto-Alcolica (Fetal Alcohol Syndrome, FAS), una serie di anomalie strutturali e di sviluppo neurologico che comportano gravi disabilità comportamentali e neuro-cognitive. Tutto questo non solo in donne dipendenti dalla bottiglia, ma anche in future mamme troppo disinvolte nel consumo di sostanze alcoliche. Ecco perché il consiglio di non bere quando si aspetta un bimbo andrebbe preso in serissima considerazione. Infatti, come riportato anche sul portale dell’Istituto Superiore di Sanità «anche una quantità minima di alcol può causare danni al feto e pregiudicarne la salute». Il messaggio che emerge chiaro è «in gravidanza zero alcol», questo anche perché in tutte le fasi dello sviluppo l’embrione è molto vulnerabile agli effetti dell’alcol, con un’alta possibilità che si creino delle malformazioni o delle anomalie.
LE 10 REGOLE D’ORO
L’Osservatorio Nazionale Alcol dell’Istituto Superiore di Sanità, Centro Collaborativo sulla promozione della salute e la ricerca sull’alcol dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha prodotto un vero e proprio decalogo che può contribuire a incrementare la consapevolezza sulla dannosità e la nocività del consumo di bevande alcoliche delle donne in gravidanza:
Smart working: il lavoro agile tra stereotipi e vita privata
Stili di vitaIl giudizio sullo smart working è positivo. Lo rivela un’indagine che ha coinvolto i dipendenti del Consiglio nazionale delle ricerche: il valore espresso è stato pari a 8,17/10, anche se la metà ritiene che sia praticabile solo alcuni giorni a settimana.
Smart working o lavoro agile
Il lavoro agile (o smart working) si basa sull’assenza di vincoli orari o spaziali, con un’organizzazione per fasi, cicli e obiettivi, stabilita tra dipendente e datore di lavoro. Si tratta di un’organizzazione che aiuta il lavoratore a conciliare i tempi di vita e lavoro e, al contempo, aumenta la sua produttività. Infatti, il 47% ha registrato un incremento della produttività in smart working, preferita soprattutto dai genitori che hanno figli da 0 a 6 anni di età. L’indagine è a cura del Comitato unico di garanzia, in collaborazione con l’attività Mutamenti Sociali, Valutazione e Metodi dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali.
Gli effetti sul lavoro
“Il lavoro agile è ormai un modus strutturato e riconosciuto. È stato pertanto chiesto ai dipendenti di esprimere un parere al riguardo, considerandone rischi ed opportunità”, spiega Antonio Tintori, ricercatore dell’Irpps e coordinatore dell’indagine. “Il giudizio complessivo in merito al lavoro agile è molto buono, attestandosi su un valore medio di 8,17 su 10. Oltre la metà dei dipendenti però ritiene che debba essere praticabile solo alcuni giorni a settimana. Propende maggiormente per il lavoro in presenza, in particolare, il 18% di chi ha un titolo di studio inferiore alla laurea e solo il 5% di chi ha figli piccoli (da 0 a 6 anni) e il 15% dei genitori di ragazzi di età maggiore ai 12 anni.
Rispetto all’inquadramento, preferisce invece lavorare sempre dalla propria sede: il 17% del personale tecnico, l’11% di quello amministrativo, l’11% dei ricercatori e il 5% dei tecnologi. La metà dei dipendenti ha inoltre dichiarato di aver lavorato di più in remoto che in sede, 4 soggetti su 10 non hanno riscontrato differenze in termini di impegno, mentre circa un intervistato su 10 afferma di aver lavorato meno in modalità agile”, prosegue Tintori. In modalità agile sono le donne ad aver lavorato più degli uomini (54% contro il 44% degli uomini), mentre non sono state rilevate differenze significative in relazione all’età, al titolo di studio e alla sede lavorativa. Il 47% attraverso il lavoro agile ha registrato anche un incremento di produttività, che ha interessato sempre più le donne (49% contro il 44,5% degli uomini). Ad evidenziare una riduzione della produttività è stato invece solo il 12% dei dipendenti.
La ricerca ha approfondito i vantaggi del lavoro a distanza. “Il risparmio di tempo legato agli spostamenti è per l’82% una conquista importante. Altri sottolineano la migliore conciliazione tra
oneri lavorativi e vita privata (77%) e l’autonomia gestionale (48%). Tuttavia, probabilmente in assenza di una regolamentazione, si sono evidenziate anche talune difficoltà: disagi di
comunicazione e coordinazione con colleghi e colleghe (41%), eccessiva reperibilità e mancato diritto alla disconnessione (33%), esclusione dal flusso di informazioni (31%) e solitudine (30%)”,
commenta Tintori.
Il progetto
Il progetto “Obiettivo benessere”, realizzato nell’ambito delle attività del Gruppo di lavoro “Benessere organizzativo, salute e sicurezza” del Comitato unico di garanzia (Cug) del Consiglio
nazionale delle ricerche, in collaborazione con l’attività Mutamenti sociali, valutazione e metodi (Musa) dell’Istituto di ricerche sulla popolazione e le politiche sociali (Cnr-Irpps), ha svolto tra il 22
dicembre 2021 e il 31 gennaio 2022 un’indagine, attraverso un questionario in formato elettronico diffuso via e mail cui hanno aderito 4.200 dipendenti su 8.550, ovvero il 49%. Tra questi, il 53% sono femmine, il 45% maschi, mentre il 2% ha utilizzato l’opzione “Altro/non risponde”. Al sondaggio sono state fornite risposte da sedi e aree di ricerca di tutta Italia, da tutti i dipartimenti e da tutte le categorie di dipendenti. Tra gli argomenti trattati: lavoro agile, conciliazione lavoro famiglia, stereotipi di genere.
Smart working e stereotipi di genere
“Gli stereotipi che resistono sono soprattutto quelli relativi al contesto e alle dinamiche lavorative”, spiega Giovanna Acampora, presidente del Cug del Cnr. “Si attesta infatti su valori tendenzialmente bassi la quota di quanti e quante ritengono che il ruolo ‘naturale’ della donna sia quello di madre e moglie (4%), e di chi sostiene che gli uomini siano più portati per le materie scientifiche (4%) e che debba essere soprattutto l’uomo a mantenere la famiglia (4%). Entrando però nell’ambito lavorativo, per l’8% gli uomini hanno maggiori capacità di leadership delle donne, per il 15% sono più collaborativi e, infine, secondo il 42% il sesso femminile è più sensibile verso il benessere del personale. In particolare, quest’ultimo, che elegge la donna a soggetto più empatico, prosociale e dedito alla cura e all’assistenza dell’altro, costituisce proprio uno dei classici luoghi comuni sulle distinzioni di genere”.
Conciliazione tra lavoro e vita privata
Come gli stereotipi di genere, anche la conciliazione tra oneri lavorativi e vita privata è strettamente correlata con il lavoro agile: il 41% non riesce sempre a “mettere insieme” esigenze lavorative e personali, il 32% quelle lavorative e familiari; per il 29% il lavoro è incompatibile con gli impegni personali e per il 27% con quelli familiari; il 26% reputa che le esigenze familiari abbiano compromesso percorso professionale e la carriera; il 61% è contrario riunioni oltre le ore 16.00.
“Maggiori difficoltà di conciliazione le incontrano le donne e chi non si è identificato con il genere maschile o femminile”, conclude Tintori.“Del resto, tale differenza di genere è connessa all’iniqua divisione del lavoro domestico non retribuito, che appare ancora prevalentemente appannaggio delle dipendenti (39% contro il 24% dei dipendenti). I dati mostrano infatti che la ripartizione dei compiti per la casa e la famiglia ricalca taluni ruoli stereotipati di genere”, conclude Acampora. “Nell’ambito del Cnr, le donne si occupano prevalentemente di pulizie domestiche (71% contro il 25% dei maschi), cura dei figli (41% contro il 14%) e di altri familiari (23% contro 9%), mentre gli uomini si dedicano maggiormente a piccoli lavori di manutenzione (88% contro il 26% delle femmine) e alla gestione amministrativa della casa (72% contro il 54%)”.
Osteoporosi, diagnosi hi-tech grazie agli ultrasuoni
Ricerca innovazioneUna nuova tecnologia va ad arricchire le dotazioni del reparto di Oncologia dell’Ospedale Santa Maria delle Grazie di Pozzuoli. Si chiama EchoS e rappresenta l’ultima generazione delle macchine per la densitometria ossea ecografica, che consente una diagnosi precoce dell’ osteoporosi, rendendola più accurata e accessibile. «Grazie a questa nuovissima apparecchiatura – spiega il primario Gaetano Facchini – siamo oggi in condizione di abbinare alle nostre visite ambulatoriali anche un’accurata analisi della densità ossea. Questo, per pazienti sottoposti a terapie ormonali è essenziale». Un vantaggio enorme, anche perché questa nuova tecnologia – funzionando con gli ultrasuoni – non prevede l’emissione di radiazioni. È dunque molto versatile e di facile utilizzo da parte del personale, rendendo possibile prevenzione, diagnosi precoce e monitoraggio dell’ osteoporosi. Grazie al nuovo macchinario, l’Unità Operativa Complessa di Oncologia del Santa Maria delle Grazie offre sempre più un governo clinico completo della malattia, a partire dalle terapie oncologiche sino ad arrivare ai trattamenti complementari che incidono favorevolmente sulla qualità di vita dei pazienti. «Oggi – conclude il primario – abbiamo a disposizione molti farmaci innovati per frenare il processo distruttivo dell’osso evitando complicanze gravi come le fratture, per questo motivo valutare la salute dell’osso in modo accurato e agile è determinate». È dunque possibile valutare se il paziente ha risentito sotto il profilo della salute delle ossa del necessario percorso delle terapie oncologiche.
UNICA NEL PUBBLICO
La stessa tecnologia è stata installata anche presso l’ospedale Rizzoli di Ischia, offrendo nuove possibilità diagnostiche ai cittadini dell’isola sia nell’ambito delle cure oncologiche, sia per una migliore valutazione dell’ osteoporosi. «La maggiore capacità diagnostica implica una cura completa sotto il profilo dell’efficacia, dell’appropriatezza e dell’efficienza», sottolinea il direttore dell’UOC di Tecnologie Informatiche ed Ingegneria Clinica dell’ASL Napoli 2 Nord, Salvatore Flaminio. «Inoltre, una valutazione completa del paziente oncologico è la premessa indispensabile per una presa in carico multidisciplinare. È importante comprendere che queste tecnologie non sostituiscono le tecniche radiologiche o ecografie, ma le integrano diventano complementari per offrire a ciascun paziente le migliori prestazioni possibili». Alla base di questa apparecchiatura hi tech c’è un sistema tecnologico chiamato Rems, Multispettrometria ecografica a radiofrequenza, che sfrutta le caratteristiche dei segnali a radiofrequenza, acquisiti durante una scansione ecografica, per determinare lo stato dell’architettura ossea delle vertebre lombari e del collo del femore. Una tecnologa che in Campania non si può trovare in nessuna struttura pubblica e che si traduce in una veloce scansione guidata che acquisisce sia le immagini che i relativi segnali a radiofrequenza. Il resto viene fatto dall’algoritmo dell’apparecchiatura che identifica automaticamente i volumi dell’osso, scarta acquisizioni errate e artefatti e restituisce un immediato referto medico.
Insonnia, ecco perché l’età non aiuta
News PresaInsonnia e tanta stanchezza durante la giornata, un problema molto comune quando gli anni iniziano a farsi sentire. Del resto è noto che con l’avanzare dell’età dormire bene la notte diventa quasi una chimera, meno noto è il perché questo accade e soprattutto come fare a ritrovare il sonno perduto. Andiamo con ordine. Un team di ricercatori della Stanford University ha identificato i meccanismi dell’ insonnia, comprendendo come i circuiti cerebrali coinvolti nella regolazione del sonno e della veglia si degradino nel tempo. Lo studio ( pubblicato sulla rivista Science) è stato portato avanti su cavie potrebbe aprire la strada a farmaci sempre più efficaci negli esseri umani. «Più della metà delle persone di età pari o superiore a 65 anni si lamenta della qualità del sonno», sottolinea il professor Luis de Lecea, coautore dello studio. Per la ricerca, l’attenzione si è focalizzata sulle ipocretine, sostanze chimiche chiave generate solo da un piccolo gruppo di neuroni nell’ipotalamo del cervello. Il team ha selezionato topi giovani (da tre a cinque mesi) e vecchi (da 18 a 22 mesi) e ha utilizzato la luce trasportata dalle fibre per stimolare neuroni specifici. I risultati sono stati registrati utilizzando tecniche di imaging. Ciò che è emerso è che i topi anziani avevano perso circa il 38% di ipocretine rispetto a quelli giovani e avevano quindi iniziato a soffrire di insonnia. Non solo: le ipocretine rimaste nei topi anziani erano più facilmente attivabili, rendendo così gli animali più inclini al risveglio. Ciò potrebbe essere dovuto al deterioramento nel tempo dei “canali del potassio”, che sono interruttori biologici di accensione e spegnimento importanti per le funzioni di molti tipi di cellule.
CONSIGLI PRATICI
Ma come si può fare a combattere l’ insonnia? Benché non esista una bacchetta magica, se si vuole evitare l’uso di farmaci, si possono migliorare le abitudini e scegliere dei rimedi naturali. In primis, è bene evitare di assumere caffè o sostanze contenenti caffeina durante le ore serali della giornata. Limitare molto l’assunzione di alcolici perché possono causare la frammentazione del sonno. Stabilire un orario preciso per la cena, che, dicono gli esperti, andrebbe consumata almeno 3 ore prima dell’orario in cui si intende andare a dormire. Fondamentale svegliarsi di buon mattino e andare a dormire entro le 23.00. In camera da letto, infine, niente tv. Ci sono poi diversi rimedi naturali che si possono provare. In primis, la camomilla. Senza alcun dubbio la più usata, ma non sempre la più efficace. Il biancospino agisce sul sistema nervoso, calmandolo e favorendo il sonno. Il L’iperico è un calmante che ha un potere benefico soprattutto sulla depressione. Il tiglio ha un leggero effetto sedativo ma risulta ideale per calmare tensioni e nervosismo. L’arancio dolce ha virtù calmanti, il salice e la passiflora, oltre al potere rilassante, sono capaci di calmare palpitazioni e ansia. La melissa agisce soprattutto sul sistema nervoso e la valeriana si comporta da tranquillante naturale, agendo su stress e ansia. Come sempre bisogna ricordare che queste sostanze naturali non sostituiscono in alcun modo farmaci eventualmente prescritti e che è sempre bene consultare un medico prima di qualunque assunzione.
Studio identifica difetti molecolari che causano due patologie neurologiche
News PresaUno studio ha identificato le funzioni alterate causate da mutazioni nel gene ARX in due gravi patologie neurologiche dello sviluppo. La ricerca è stata condotto dall’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati-Traverso” del Cnr. I risultati sono stati pubblicati su Human Molecular Genetics.
Due patologie neurologiche associate alle mutazioni
Lo studio è stato diretto da Maria Giuseppina Miano dell’Istituto di genetica e biofisica “Adriano Buzzati-Traverso” del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Igb). Sono state identificate le funzioni danneggiate in due gravi patologie neurologiche quali la lissencefalia e l’encefalopatia epilettica dello sviluppo, causate da mutazioni differenti del gene ARX il cui ruolo è fondamentale per il corretto sviluppo cerebrale. Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Human Molecular Genetics ed eseguito in collaborazione con il Dipartimento di medicina molecolare e biotecnologie mediche dell’Università di Napoli “Federico II (Unina), il centro di ricerca e di diagnostica molecolare Ceinge-Biotecnologie Avanzate di Napoli e l’Istituto di bioscienze e biorisorse del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Ibbr), e con il sostegno di Fondazione Telethon.
Grazie a un approccio integrato che coniuga studi di proteomica con analisi in vivo, il gruppo di ricerca ha stabilito cosa avviene in presenza di una mutazione che abolisce o modifica le funzioni della proteina ARX. La ricerca, condotta in modelli animali mutanti, svela ciò che accade nelle cellule del cervello malato in conseguenza dell’una o l’altra mutazione, evidenziando contemporaneamente l’alterazione di numerosi processi funzionali, alcuni dei quali condivisi, altri strettamente dipendenti dal tipo di mutazione. “La grande quantità di dati ottenuti dall’indagine proteomica ha permesso di far luce sulle funzioni danneggiate in caso di lissencefalia o di encefalopatia epilettica”, spiega Denise Drongitis del Cnr-Igb e prima autrice dello studio. “A partire dall’anomala quantità di migliaia di proteine abbiamo definito i processi alterati in ciascuna condizione genetica analizzata”, aggiunge Marianna Caterino di Unina/Ceinge e altra prima autrice dello studio. “Grazie a studi di proteomica ed analisi in vivo, abbiamo scoperto che le mutazioni del gene ARX alterano funzioni molecolari e cellulari inaspettate – quali l’organizzazione del citoscheletro dei microtubuli, lo splicing alternativo dei geni Neurexina 1 e 2 e il controllo della sintesi proteica”, conclude Maria Giuseppina Miano del Cnr-Igb. “Abbiamo inoltre dimostrato come queste funzioni sono particolarmente danneggiate nei neuroni della corteccia stabilendo aspetti completamente nuovi della lissencefalia e dell’encefalopatia epilettica”. Questi risultati aiutano ulteriormente a capire la patogenesi di queste malattie e aprono a nuovi studi per identificare bersagli terapeutici e migliorare la condizione dei bambini con mutazioni ARX.
Guerra in Ucraina, a Napoli i medici di famiglia aprono ambulatori per chi scappa
News PresaMentre la tragedia in Ucraina sta costringendo la popolazione (quasi esclusivamente donne e bambini) a scappare verso paesi più sicuri, molte città d’Europa stanno mostrando un lato di grande umanità e accoglienza. A Napoli sono ormai moltissime le iniziative di solidarietà verso il popolo ucraino. Anche i medici di famiglia della Fimmg scendono in campo per aiutare quanti sono in fuga dalla guerra e lo fanno dando vita ad ambulatori sul territorio nei quali visitare anche chi non ha ancora un codice STP, ovvero di Straniero temporaneamente presente. La prima struttura è già stata aperta ai cittadini Ucraini in provincia di Nola (in via via San Paolo Belsito 85), ed è quella che da ormai 27 anni è dedicata agli “invisibili”. A dirigere l’ambulatorio il dottor Enrico Fedele, che per primo ha immaginato una struttura di medicina generale che lavorasse in team. L’ambulatorio è aperto lunedì, martedì e venerdì dalle 8.80 alle 12.30. Il giovedì mattina dalle 10.00 alle 12.00 e il pomeriggio dalle 16.00 alle 20.00. «La scorsa settimana – spiega Fedele – abbiamo accolto i primi pazienti in arrivo dall’Ucraina. Nei loro occhi si legge la sofferenza di quello che sta accadendo e la paura per un futuro annientato dalle bombe. Il nostro compito è quello di prestare loro le cure che servono, senza se e senza ma».
I PRIMI ARRIVI
I primi arrivati sono componenti di una famiglia che per scappare dalla guerra ha dovuto sobbarcarsi più di 20 ore di viaggio. «In questo momento così difficile – spiegano i medici Luigi Sparano e Corrado Calamaro (Fimmg) – offrire solidarietà agli ultimi e alle persone emarginate, molte delle quali non in grado di poter ricevere cure adeguate, è essenziale. Tutti noi medici di famiglia della Fimmg sentiamo l’obbligo morale di offrire assistenza ai rifugiati e ai profughi di questa guerra». I medici di medicina generale della Fimmg di Napoli rispondono insomma con grande prontezza all’appello lanciato anche a livello nazionale dal segretario generale Silvestro Scotti, per dare risposta ad un dramma che, come denunciato dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite si rivela «la crisi di profughi più veloce in Europa dalla seconda guerra mondiale». Dunque ,accogliendo con favore la decisione della Unione Europea di applicare la direttiva sulla protezione temporanea, la Fimmg mette a disposizione la propria rete capillare e diffusa di medici di famiglia e continuità assistenziale, potenziata anche dalla disponibilità dei medici che hanno lasciato l’attività professionale per raggiunti limiti di età. Pur nelle gravi difficoltà causate ancora dalla pandemia Covid19, che continua a provocare incrementi enormi dei carichi di lavoro, i medici della Fimmg non possono e non vogliono esimersi dal fornire il loro concreto aiuto. Altri centri aperti alle visite per chi è in fuga dalla guerra nasceranno nei prossimi giorni in strutture già attive sul territorio, negli studi medici e nelle Aggregazioni funzionali territoriali.
Dieta nordica, ecco i suoi segreti di benessere
AlimentazionePrevenire l’obesità e favorire un ottimo stato di salute. Come? Preferendo in tavola alcuni alimenti, tra i quali i frutti di bosco, le verdure, il pesce, i cereali integrali e l’olio di colza. A dirlo sono diversi studi secondo i quali un’alimentazione con queste caratteristiche può aiutare a prevenire l’obesità e ridurre il rischio di malattie cardiovascolari, diabete di tipo 2, pressione alta e colesterolo alto. Si tratta della cosiddetta “dieta nordica” collegata principalmente a un effetto positivo sulla salute dopo la perdita di peso, mentre una nuova analisi guidata dai ricercatori dell’Università di Copenaghen dimostra che ha benefici per la salute indipendentemente dal fatto che si dimagrisca o meno. Per lo studio, pubblicato su Clinical Nutrition, sono stati esaminati campioni di sangue e urina di 200 persone di età superiore ai 50 anni, tutte con indice di massa corporea elevato e aumentato rischio di diabete e malattie cardiovascolari. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi: uno ha assunto alimenti secondo le raccomandazioni dietetiche nordiche e un altro ha seguito la dieta abituale.
ACIDI GRASSI
«Il gruppo che aveva seguito la dieta nordica per sei mesi – specifica Lars Ove Dragsted, uno degli autori dello studio – è diventato più sano, con livelli di colesterolo più bassi, livelli complessivi inferiori di grassi saturi e insaturi nel sangue e una migliore regolazione del glucosio, rispetto al gruppo di controllo. Abbiamo fatto in modo di mantenere stabile il peso del gruppo con la dieta nordica, il che significa che abbiamo chiesto ai partecipanti di mangiare di più se avessero perso peso. Anche senza perdita di peso, abbiamo potuto osservare un miglioramento della salute». I ricercatori indicano la composizione unica dei grassi in una dieta nordica come possibile spiegazione dei benefici per la salute.«Abbiamo potuto vedere che coloro che hanno beneficiato maggiormente del cambiamento nella dieta avevano sostanze liposolubili diverse rispetto al gruppo di controllo- conclude Dragsted – si tratta di sostanze che sembrano essere legate agli acidi grassi insaturi degli oli nella dieta nordica. Questo è un segno che i grassi alimentari in questo regime alimentare probabilmente svolgono un ruolo significativo».
Tritordeum, dalla Puglia un grano contro il colon irritabile
News PresaUn nuovo grano di origine spagnola e coltivato in Puglia si rivela efficace nella cura dei sintomi della sindrome del colon irritabile. Si chiama ‘Tritordeum’: non è un organismo geneticamente modificato, ma ha la caratteristica unica di avere una composizione proteica del glutine diversa da quella del grano. In sostanza ha meno fruttani e meno carboidrati e un più alto contenuto in proteine, fibre dietetiche e antiossidanti.
Una dieta con alimenti a base di questo nuovo grano fa bene al colon, come dimostrano i risultati di uno studio clinico pilota condotto dall’Unità di ricerca sui disturbi funzionali gastrointestinali dell’Irccs ‘S.De Bellis’ di Castellana Grotte (Bari) coordinata dal dottor Francesco Russo.
Il colon irritabile
La sindrome del colon irritabile ad oggi non ha una cura. L’unico mezzo per contenere i sintomi è una dieta specifica, eliminando determinati cibi. Tra i sintomi di questo disturbo rientrano i dolori addominali, a volte sotto forma di crampi, diarrea, sensazione di pancia gonfia, digestione rallentata, meteorismo e senso di malessere generale. Gli effetti di questo disturbo incidono pesantemente sulla qualità della vita. Per tenere a bada i sintomi “si ritiene essenziale – evidenzia una nota dell’Irccs – una dieta povera di grano in quanto alcune componenti, come il glutine e i fruttani, sono responsabili della sintomatologia”.
Il nuovo grano Tritordeum
Gli studiosi dell’istituto castellanese, unico in Italia specializzato in gastroenterologia, hanno selezionato con appositi questionari un gruppo di pazienti affetti da sindrome del colon irritabile e hanno indagato gli effetti di una dieta di 12 settimane con pane, pasta e prodotti da forno a base di Tritoderdum in sostituzione di altri cereali sul profilo dei sintomi gastrointestinali.
“I risultati di questa alimentazione, senza l’utilizzo di alcun farmaco o integratore – spiega Russo – sono stati una significativa riduzione della sintomatologia, un miglioramento complessivo della barriera gastrointestinale come dimostrato dalla diminuzione dell’infiammazione della mucosa intestinale e dalla correzione dello squilibrio della flora batterica in senso fermentativo”. “Le implicazioni di questa ricerca, pubblicata su “Frontiers in Nutrition” – afferma il direttore scientifico dell’Irccs “S. De Bellis”, prof. Gianluigi Giannelli – sono interessanti in quanto aprono nuove prospettive nella gestione di questi pazienti, affetti da una condizione cronica che, spesso, interferisce significativamente anche con la loro qualità della vita, costringendoli a ricercare sempre nuovi trattamenti e bisognosi di continue rivalutazioni mediche”.
Colesterolo, un nuovo medicinale cambierà tutto
Ricerca innovazioneUn vaccino anti infarto che agisce sul colesterolo è la nuova frontiera della medicina, in corso di sperimentazione proprio in questi giorni in diversi centri di tutto il mondo. In Italia questa ricerca vede protagonista il Centro cardiologico Monzino di Milano e altri 5 centri accreditati, ma è facile prevedere che il numero delle strutture coinvolte aumenterà nei prossimi mesi. Ai pazienti verrà somministrato un farmaco innovativo che potrebbe salvare la vita di moltissime persone. Insomma, una sperimentazione molto ampia, che parte da un progetto internazionale conosciuto come Victorion-2P. Il nuovo preparato di Novartis sarà somministrato due volte all’anno a circa 10 mila pazienti in tutto il mondo. Chiaramente, un farmaco simile, se lo studio dovesse confermare i postulati di partenza, costituirebbe una svolta epocale per la medicina.
SILENZIAMENTO GENICO
Ma come funziona questo nuovo “vaccino”? Si tratta di un medicinale che attacca il colesterolo “cattivo” e che agisce tramite una tecnica che si definisce di silenziamento genico. Semplificando non poco, le molecole prendono di mira una sequenza di mRna, o Rna messaggero, delle cellule epatiche e con serie di effetti a cascata riducono in maniera importante i valori di colesterolo. Questo consente di controllare l’aumento del colesterolo Ldl-C, determinante nello sviluppo e nella progressione delle malattie cardiovascolari e aterosclerotiche. Non ha particolari effetti collaterali, specie se paragonato alle statine ad alte dosi. A differenza delle terapie per il colesterolo alto, questo farmaco ha il grande vantaggio di essere somministrato in ambulatorio e solo due volte in 12 mesi, liberando i pazienti dall’impegno quotidiano dell’assunzione di pastiglie. Non è un caso che la ricerca, in questa prima fase, si focalizza su pazienti che hanno già avuto ictus o infarto e che, nonostante l’uso di farmaci, non riescono a tenere a bada il colesterolo cattivo. Pazienti refrattari alle terapie, insomma. In questo senso, il nuovo farmaco ha già mostrato di poter abbassare questi livelli fino al 50%. Un risultato straordinario se paragonato ai farmaci attualmente in uso nei pazienti con patologie cerebrovascolari e polivascolari.
NUOVA TECNOLOGIA
Si potrebbe dire che questo nuovo farmaco sia in qualche modo nato grazie ai progressi fatti negli ultimi anni nel campo dei vaccini a m-Rna. Anche questo vaccino contro l’infarto prende spunto da questa tecnologia, anche se di fatto agisce in maniera molto diversa. Non è infatti un vero vaccino, anche se condivide con questa classe di farmaci le modalità di somministrazione. Viene infatti iniettato sottocute, come accade anche con l’eparina, ad esempio, due volte all’anno.
Long Covid, attività fisica può bloccare rischio diabete e depressione
News PresaOggi non esiste ufficialmente nessuna cura contro il Long Covid. Uno studio appena realizzato evidenzia come l’esercizio fisico possa aiutare a interrompere il circolo vizioso dell’infiammazione che può portare allo sviluppo di diabete e depressione, mesi dopo che una persona è guarita dal virus del Covid-19. L’ipotesi è stata fatta dagli studiosi del Pennington Biomedical Research Center, negli Usa, e pubblicata sulla rivista Exercise and Sport Sciences Reviews. Il Long Covid è stato già dimostrato che può provocare depressione, come ribadisce Candida Rebello, una delle autrici della ricerca, inoltre può aumentare i livelli di glucosio nel sangue al punto che alcune persone sviluppano chetoacidosi diabetica, una condizione potenzialmente pericolosa per la vita comune tra le persone con diabete di tipo 1. L’esercizio fisico può aiutare molto. Il Long Covid provoca ciò che i Centers for Disease Control descrivono come “una costellazione di altri sintomi debilitanti” tra cui nebbia cerebrale, dolore muscolare e affaticamento che possono durare per mesi dopo che una persona si è ripresa dall’infezione iniziale. “Ad esempio- sottolinea Rebello – una persona potrebbe non ammalarsi in modo grave di COVID-19, ma sei mesi dopo, molto tempo dopo che la tosse o la febbre sono scomparse, sviluppare il diabete”. L’attività fisica è il mezzo per ridurre notevolmente i rischi. “Non è necessario correre per chilometri o camminare per tutta la durata a ritmo sostenuto, -conclude l’esperta – anche camminare lentamente è esercizio. Idealmente, si dovrebbe fare una sessione di esercizio di 30 minuti. Ma se se ne possono fare solo 15 minuti alla volta, si può provare a farne due sessioni. Se si può camminare solo 15 minuti una volta al giorno, meglio farlo. L’importante è provare. Non importa da dove si inizia. Si può gradualmente raggiungere il livello di esercizio raccomandato”.