Tempo di lettura: 2 minutiIn una società assediata dal rumore, il silenzio può rappresentare una fortezza? E quando la connessione è onnipresente, inevitabile e rischiosa per la salute, la disconnessione andrebbe tutelata come un diritto?
IPERCONNESSIONE
L’iper-connessione offerta dalle tecnologie di comunicazione istantanea, insieme alla diffusa digitalizzazione post-pandemica del lavoro, permette di interagire e lavorare anywhere, anytime, smaterializzando lo spazio-tempo personale, sociale e lavorativo. In questa perenne attività onlife (una realtà intrecciata tra virtuale e materiale, come l’ha definita il filosofo dell’informazione Luciano Floridi), in questo eterno presente in cui si è sempre presenti, si insidia la reperibilità coatta del lavoratore. Può trattarsi di una e-mail con una richiesta gentile, una semplice telefonata di sera o un banale pollice in su ricevuto appena svegli su whatsapp: quanto basta a ricordarti che tu sei sempre quello lì, quello che lavora, che hai responsabilità che ti aspettano, impedendoti di riposare davvero, di guardare altrove per attingere ristoro, benessere o semplice svago.
DISCONNESSIONE
La separazione dell’ambito privato da quello lavorativo si è dimostrata di vitale importanza: durante i periodi di lockdown generalizzato, per esempio, in molti hanno dovuto rinunciare al tragitto casa-lavoro, quel benefico momento di switch tra le due personalità (spesso distanti tra loro) che distinguono la persona dal lavoratore. Questa perdita restituisce spesso un senso di vuoto, di mancata scansione temporale, di confusione. Tutti i diversi contesti si fondono: non sei più una persona che, tra le altre cose, lavora, ma un lavoratore perennemente disponibile.
Oggi, a livello europeo, il tema è molto sentito. In Italia, in particolare, il Decreto Legge 30 del 2021 ha stabilito che «l’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi», riconoscendo quanto la scienza ha già stabilito da tempo: l’iper-connessione ha effetti negativi non solo sulla produttività e sul senso di soddisfazione del lavoratore, ma anche sulla salute di ogni individuo.
I RISCHI
Sono state infatti dimostrate correlazioni dell’abuso di internet con disturbi posturali, per esempio la sindrome del text neck (il collo-da-smartphone, una serie di disturbi della regione cervicale), o l’infiammazione del pollice-da-SMS (SMS thumb), che possono sul lungo termine sfociare in disabilità; ma anche con stati ansiosi o depressivi, o con l’impoverimento della qualità del sonno (per esempio a causa dello sleep texting, l’abitudine di interagire con lo smartphone nel dormiveglia); addirittura con scompensi nel circuito delle ricompense (il sistema dopaminergico, che ha un ruolo centrale anche nelle dipendenze, poiché scrollare la pagina, o ricevere un like, è come giocare d’azzardo).
Del resto, staccare la spina ritagliandosi un momento in cui non si ha nulla da fare (assolutamente nulla!) è sempre stato fondamentale per l’equilibrio psicofisico dell’uomo: lo dimostrano gli innumerevoli benefici delle discipline contemplative come la meditazione.
Nonostante tutte queste evidenze, purtroppo, le leggi sono spesso limitate ai lavoratori pubblici in smart working, o comunque troppo generiche e di fatto inattuate: è per questo che c’è chi invoca la disconnessione come diritto fondamentale e universale dell’uomo. A ben pensarci, quest’ultimo rappresenterebbe una declinazione moderna dei diritti più ampi alla salute, alla libertà, all’identità e all’espressione personali: tutte cose preziose che si coltivano col tempo, lo spazio e il silenzio necessari. Il diritto a un vuoto privato in cui essere lasciati semplicemente in pace. Una parentesi per deporre le armi, godersi un respiro lento, e ritrovarsi.
Quando i figli vivono il dramma della separazione
Bambini, News Presa, PsicologiaQuando una famiglia si spacca il più delle volte non ci sono carnefici, solo vittime. I coniugi lo sono del proprio dolore, e spesso – più o meno consapevolmente – finiscono per “usare” i figli come arma di vendetta. Inizia una battaglia a colpi di Consulenze tecniche d’ufficio (Ctu) e Consulenze tecniche di parte (Ctp), una battaglia che si gioca sul piano degli affetti e che alla fine non vede vincitori, solo vinti.
Tra Ctu e Ctp
Ne abbiamo parlato con il neuropsichiatra infantile Mauro Mariotti, Socio ordinario didatta della Società Italiana di Psicologia e Psicoterapia Relazionale. «La prima cosa da chiarire – dice – è il termine Ctu. Si tratta dell’aiuto che il giudice richiede ad esperti per poter decidere su affidamento dei figli, collocamento, mantenimento, tempi e modi di visita». Mauro Mariotti spiega anche che come funziona questo “cerimoniale”, che si svolge avendo come cerimoniere il Ctu e come interpreti delle parti i Ctp. A volte la danza è armonica – dice – e permette ai genitori di comprendere che la loro alleanza permetterà ai figli di sopravvivere alla adolescenza e alla famiglia divisa. A volte i Ctp sono più aggressivi dei loro clienti. A volte il Ctu unisce al compito di aiutante del giudice la capacità terapeutica instillando negli ex coniugi dei dubbi sulle proprie ragioni e sulla cattiveria dell’altro. A volte il Ctu è miope di fronte a ciò che accade e conferma le proprie teorie di partenza. Le conclusioni dovrebbero permettere al Giudice di dare indicazioni più competenti tecnicamente. Le conseguenze di queste Ctu sono anche economiche: la casa in cui abitano i minori, anche se di proprietà della famiglia del padre, viene data alla madre nel caso in cui il collocamento dei minori le sia attribuito. Nel collocamento prevalente, il genitore che ha minor tempo con i figli è obbligato a versare un assegno di mantenimento.
La strada dell’indulgenza
«Chiunque voi siate – dice – genitori, figli, tecnici di vario genere, all’interno di queste Ctu dovrete navigare a vista. Ciò che più conta è una bussola, punti di riferimento, affrontare il mare aperto piuttosto che dirigersi verso un porto che ha scogli davanti e mari pericolosi. Eviterete il naufragio, dovrete aver la pazienza di attendere che la bufera si plachi e solo allora dirigere verso il porto. Gli scogli più pericolosi sono quelli della intransigenza. Si sono creati schieramenti di genere e teorie come la PAS (Parental Alienation Syndrome) che spiegano la separazione scientificamente, ma il tema oggi è antropologico e sociologico. Viviamo in famiglie verticali o orizzontali. Nelle prime prevalgono le tre generazioni. C’è un mito familiare. Nonni genitori e figli formano un tutto unico che impedisce la formazione di un nuovo nucleo familiare. La coppia di marito e moglie si infrange sugli scogli della famiglia di origine. La figlia di un padre e di un nonno potente, può non riuscire a fare famiglia con un marito che le chiede di abbandonare porto e barca di famiglia, per salire su un piccolo vascello e rifugiarsi in un porto sconosciuto».
Superfood, miti e verità dei “cibi della salute”
AlimentazioneIl marketing lo ha etichettato come superfood (supercibo), si tratta di un termine che viene adoperato per classificare quei cibi che si pensa abbiano delle proprietà benefiche per la salute. In effetti, per chi ama prendersi cura del proprio corpo e della propria salute i superfood possono essere d’aiuto. È chiaro che non si tratta di medicinali, quindi in nessun caso bisogna credere che possano sostituire delle terapie prescritte da medici, ma questi cibi riescono a coadiuvare il nostro benessere. Prima, però, è bene sgomberare il campo da alcune esagerazioni proposte dal marketing: nessun superfood ha un potere magico, avere un’alimentazione sana significa variare e preferire tanta verdura, frutta e porzioni moderate.
BANANA
Uno dei superfood più famosi, anche perché è il primo ad essere stato classificato come tale, è la banana. Un frutto economico (almeno ai tempi), nutriente, facilmente digeribile (sia cotto che crudo) e, grazie alla sua buccia, molto facile da conservare e consumare. In linea di massima una banana pesa all’incirca 150 grammi, di cui il 75% è costituito da acqua e il restante 25% da materia secca (carboidrati, proteine, grassi e fibra). Tante le vitamine e i minerali, ma a dirla tutta, la banana non ha proprietà particolari se non quelle che in linea di massima sono attribuibili ad altri frutti. Un voto? Ottima per gli sportivi, ma non è adatta a tutti.
MIRTILLO
Il mirtillo inizia la sua carriera da star dei «superfood» nel 1991, quando l’Istituto Nazionale sull’Invecchiamento e il Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti (USDA) sviluppano uno strumento di valutazione chiamato ORAC (Oxygen Radical Absorbance Capacity), per misurare il potere antiossidante degli alimenti. Gli antiossidanti sono molecole che possono aiutare a ridurre la quantità di radicali liberi dannosi nel corpo, e per questo si ritiene che un alimento con proprietà antiossidanti possa essere d’aiuto per contrastare una serie di malattie, tra cui anche il cancro. Ancora oggi il mirtillo è consigliato dai nutrizionisti per le sue proprietà, ma di certo non può da solo essere considerato come un elisir di lunga vita. In definitiva, fa bene ed è buono, ma non gli si può chiedere di più.
AVOCADO
I benefici dei frutti di Persea americana sono tutti negli acidi grassi monoinsaturi che proteggono l’apparato cardiocircolatorio, acidi grassi che possiamo però ritrovare anche in alimenti tipici della nostra tavola come l’olio d’oliva. Attenzione però, l’avocado è un frutto tutt’altro che amico della linea. Possiede infatti una grande quantità di grassi e quindi è estremamente calorico. Un paragone efficace è quello con il cioccolato: un frutto medio apporta circa 240 chilocalorie, quanto un’intera barretta di cioccolato. In definitiva ingrassare con gli avocado è abbastanza facile. L’ideale sarebbe consumarlo saltuariamente e con moderazione.
SEMI DI CHIA
I semi di Salvia hispanica, pianta floreale originaria del centro-sud America, contengono molti Omega-3: 17 grammi su 100, per la precisione, quattro volte più delle sardine e otto volte più del salmone. Insomma, dei veri super-semi. Quello che molti non dicono, o non sanno, è che si tratta di Omega-3 diversi, a catena corta, assimilabili meno efficacemente dal nostro corpo rispetto a quelli a catena lunga. Il pesce resta dunque il miglior serbatoio di grassi essenziali, ma i semi di chia sono una buona alternativa per chi non ama il pescato. Altre fonti vegetali oltre ai semi di chia, sono i semi di lino, l’olio extravergine di oliva e le noci.
BACCHE DI GOJI
Parliamo in questo caso di alimenti tipici della tradizione cinese e tra i loro grandi meriti c’è il contenuto elevato di vitamina C. È stato inoltre dimostrato che contengono alti livelli di zeaxantina (7,38 mg per 100 grammi di prodotto), un carotenoide che ha comprovati effetti positivi sulla degenerazione del tessuto oculare legata all’età. Però anche queste bacche vengono in molti casi surclassate da frutta e verdura nostrana: gli spinaci vantano 12 mg di carotenoidi su 100 grammi e i limoni o i kiwi sono ricchissimi di vitamina C.
Emicrania in età pediatrica, sfatati i falsi miti
Alimentazione, BambiniEmicrania nei bambini e alimentazione, un legame che esiste, ma che ha dimostrato di essere diverso da quanto si pensava (e in alcuni casi si continua a pensare). A sfatare i falsi miti di quest’associazione sono stati i ricercatori del Dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, che hanno esaminato la letteratura scientifica esistente in materia fino ad oggi apportando non poche “correzioni”. Partiamo dall’incidenza di questo problema nei bambini: il dato incontrovertibile è che il 10% circa della popolazione pediatrica soffre di emicrania. Come detto, l’alimentazione gioca un ruolo importante, ma non ci sono cibi che di sicuro scatenano le crisi. E’ necessario verificare paziente per paziente per capire quale cibo ha una capacità infiammatoria tale da agevolare la comparsa del dolore.
ORIGINE GENETICA
I ricercatori hanno stabilito ormai che l’emicrania pediatrica ha un’origine genetica. In circa il 5% dei bambini che ne soffrono si può sviluppare una forma cronica che ha un forte impatto sulla qualità di vita in termini di perdita di giorni di scuola (nei casi più gravi anche di interi anni scolastici) e di sospensione delle attività ludiche, per esempio dell’attività sportiva. Ma quali sono i fattori scatenanti? In età pediatrica sono molto importanti quelli di natura emotiva, come stress scolastico o ansia o depressione derivante da situazioni familiari. E poi alcuni alimenti, ma attenzione ai falsi miti.
SCAGIONATA LA CIOCCOLATA
Tra gli alimenti che più frequentemente vengono accusati di provocare il mal di testa sono compresi il cioccolato, il glutammato di sodio, i nitriti (negli insaccati), i dolcificanti artificiali e gli alimenti contenenti il glutine. In realtà non è mai stato dimostrato che l’assunzione di cioccolato possa scatenare un attacco emicranico. Lo stesso vale per il glutammato di sodio, usato nella cucina cinese: si parla spesso di “sindrome del ristorante cinese” per indicare la comparsa di un attacco emicranico dopo un pasto di questo tipo, ma non ci sono evidenze scientifiche che la somministrazione di glutammato possa provocare mal di testa. In alcuni studi, il glutammato è stato somministrato insieme al cibo ad alcuni soggetti e non ad altri. Diverso è il discorso per la caffeina e l’alcol (quest’ultimo specificamente per gli adulti), la cui possibile azione scatenante l’attacco emicranico risulta meglio documentata. Per quanto riguarda la caffeina, in particolare, non solo l’eccessivo consumo, ma anche la sua sospensione rapida può scatenare il mal di testa.
EMICRANIA E OBESITA’
Ciò che veramente piò incidere sul peggioramento dell’emicrania è l’obesità. In un precedente studio condotto dai neurologi del Bambino Gesù è stato dimostrato che un’elevata frequenza di attacchi emicranici (maggiore di 5 al mese) interessa circa il 65% dei bambini in sovrappeso contro il 35% dei normopeso. L’evidenza scientifica insegna, quindi, che è opportuno instaurare un regime dietetico ipocalorico in bambini emicranici obesi. E’ anche opportuno che il bambino affetto da emicrania curi l’alimentazione evitando l’eccessivo uso di cibi ipercalorici che potrebbero farlo aumentare di peso. I ricercatori hanno anche affrontato il tema dei nutraceutici (cioè integratori alimentari di origine naturale come per esempio il magnesio o il partenio), molto usati per la terapia dell’emicrania pediatrica. Non ci sono evidenze scientifiche certe che queste sostanze possano essere utili, ma sicuramente non hanno effetti collaterali. Poiché esistono degli studi (però su numeri abbastanza piccoli di pazienti) che ne suggeriscono la possibile efficacia, il consiglio è di valutare l’eventuale impiego dei nutraceutici nei bambini più piccoli o dove si temano gli effetti collaterali dei farmaci.
Pavimento pelvico: sessuologa spiega perché è importante allenare i muscoli
PrevenzionePavimento pelvico: i muscoli che supportano la vescica
Dal varicocele al tumore della prostata, l’importanza della prevenzione
PrevenzioneIpertrofia prostatica benigna, tumore della prostata e varicocele. Sono queste alcune delle patologie che maggiormente impattano sulla vita degli uomini, causando spesso un decadimento della qualità di vita e soffiando, nei casi più complessi, in vere e proprie condizioni di depressione. Visto che spesso a gravare, o meglio “ad aggravare”, queste condizioni patologiche è la scarsa o scorretta informazione, noi di PreSa abbiamo deciso di fare il punto e sfatare anche qualche falso mito.
IPERTROFIA PROSTATICA BENIGNA
Definita anche con l’acronimo IPB, o detta altrimenti “adenoma prostatico”, questa è una malattia piuttosto comune, che in sostanza consiste nell’ingrossamento benigno della prostata, creando a chi ne soffre non pochi problemi a urinare. L’Ipertrofia prostatica benigna riguarda circa l’8% degli uomini con meno di 40 anni di età e aumentando fino al 50% nei soggetti oltre i 60 anni. Questi significa che pur essendo un problema tipico di un’età avanzata, anche i giovani possono soffrirne. Dal punto di vista “meccanico” l’ingrossamento della prostata restringe l’uretra (ovvero il canale attraversi il quale scorre l’urina). Quando questo avviene si iniziano a notare alcuni sintomi tipici. Quali? In primis, il flusso della minzione è debole e si può avere ha una vera e propria difficoltà ad urinare. Ancora, molte notti passano insonni (o quasi) visto che non riuscendo a svuotare la vescica si è costretti tornare di frequente in bagno. Non di rado si avverte un bruciore e il più delle volte si ha la sensazione di non riuscire a svuotare completamente la vescica. Di qui anche quello stimolo frequente di dover urinare. Vediamo però come si cura questa patologia. Per affrontare il problema bisogna ricorrere alla chirurgia, ma fortunatamente oggi esistono tecniche che consentono di torace a casa nel giro di poche ore. Una di queste è il laser, grazie al quale il paziente torna a casa già il giorno dopo l’intervento. Una volta trattata, fastidi e problemi sono solo un ricordo.
TUMORE DELLA PROSTATA
Diciamo subito che con l’allungamento della vita media, il cancro della prostata è divenuta una delle patologie più frequenti nell’uomo. Fortunatamente, se trattata in tempo, da questa neoplasia si guarisce del tutto. Uno dei dati di fatto, che mette ancor più in risalto il valore della prevenzione, è che il tumore alla prostata in stadio precoce è spesso asintomatico. Quando la neoplasia cresce di dimensioni può creare problemi alla minzione e generare sintomi della basse vie urinarie, ma sarebbe sempre meglio scoprire il problema prima che questo avvenga. Sintomi di una condizione da trattare subito sono il sangue nelle urine, la difficoltà ad avere un’erezione, dolore durante l’eiaculazione o anche una sensazione di disagio nella zona pelvica. Come detto, di cancro alla prostata si può guarire. Anche in questo caso la strada maestra è l0intervento chirurgico, ma non è detto che sia consigliabile in tutti i casi. Ci sono infatti situazioni per le quali si consiglia una sorveglianza attiva, quindi un controllo costante dell’evoluzione della malattia, che potrebbe anche non portare mai ad un intervento. Ma questo lo dovrà stabilire l’oncologo. In caso di operazione, una delle tecniche più avanzate è con l’ausilio del robot chirurgico, che consente al chirurgo di intervenire in modo estremamente preciso, evitando di danneggiare le strutture che determinano la funzione minzionale o l’erezione.
VARICOCELE
Questa è una concione non solo molto frequente, ma anche risolvibile in modo semplice. Diciamo subito che il varicocele è una condizione patologica benigna causata dalla dilatazione delle vene del testicolo. Queste vene hanno il compito di drenare il sangue dal testicolo e se c’è un varicocele potrebbe causare problemi di fertilità. Proprio se c’è un’alterazione del liquido seminale, o se si valuta che possa determinarsi un’infertilità, allora è bene operare. L’intervento è molto semplice, e dura circa 15 minuti. Come si interviene? Diverse sono le tecniche, ma quella che sembra più efficace e meno invasiva si pratica attraverso una microincisione sub-inguinale alla radice dello scroto. Tutti i vasi venosi ectasici vengono isolati, legati e sezionati, anche quelli con anastomosi più basse. I vantaggi sono la quasi totale assenza di persistenza o recidiva del varicocele, la rapida durata dell’intervento (15 min circa, come detto) e la possibilità di esecuzione in Day Hospital e in anestesia locale. Insomma, anche in questo caso una visita medica di prevenzione può fare la differenza.
Iper-connessione e disconnessione: tra salute e diritto
Prevenzione, Psicologia, Stili di vitaIn una società assediata dal rumore, il silenzio può rappresentare una fortezza? E quando la connessione è onnipresente, inevitabile e rischiosa per la salute, la disconnessione andrebbe tutelata come un diritto?
IPERCONNESSIONE
L’iper-connessione offerta dalle tecnologie di comunicazione istantanea, insieme alla diffusa digitalizzazione post-pandemica del lavoro, permette di interagire e lavorare anywhere, anytime, smaterializzando lo spazio-tempo personale, sociale e lavorativo. In questa perenne attività onlife (una realtà intrecciata tra virtuale e materiale, come l’ha definita il filosofo dell’informazione Luciano Floridi), in questo eterno presente in cui si è sempre presenti, si insidia la reperibilità coatta del lavoratore. Può trattarsi di una e-mail con una richiesta gentile, una semplice telefonata di sera o un banale pollice in su ricevuto appena svegli su whatsapp: quanto basta a ricordarti che tu sei sempre quello lì, quello che lavora, che hai responsabilità che ti aspettano, impedendoti di riposare davvero, di guardare altrove per attingere ristoro, benessere o semplice svago.
DISCONNESSIONE
La separazione dell’ambito privato da quello lavorativo si è dimostrata di vitale importanza: durante i periodi di lockdown generalizzato, per esempio, in molti hanno dovuto rinunciare al tragitto casa-lavoro, quel benefico momento di switch tra le due personalità (spesso distanti tra loro) che distinguono la persona dal lavoratore. Questa perdita restituisce spesso un senso di vuoto, di mancata scansione temporale, di confusione. Tutti i diversi contesti si fondono: non sei più una persona che, tra le altre cose, lavora, ma un lavoratore perennemente disponibile.
Oggi, a livello europeo, il tema è molto sentito. In Italia, in particolare, il Decreto Legge 30 del 2021 ha stabilito che «l’esercizio del diritto alla disconnessione, necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore, non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi», riconoscendo quanto la scienza ha già stabilito da tempo: l’iper-connessione ha effetti negativi non solo sulla produttività e sul senso di soddisfazione del lavoratore, ma anche sulla salute di ogni individuo.
I RISCHI
Sono state infatti dimostrate correlazioni dell’abuso di internet con disturbi posturali, per esempio la sindrome del text neck (il collo-da-smartphone, una serie di disturbi della regione cervicale), o l’infiammazione del pollice-da-SMS (SMS thumb), che possono sul lungo termine sfociare in disabilità; ma anche con stati ansiosi o depressivi, o con l’impoverimento della qualità del sonno (per esempio a causa dello sleep texting, l’abitudine di interagire con lo smartphone nel dormiveglia); addirittura con scompensi nel circuito delle ricompense (il sistema dopaminergico, che ha un ruolo centrale anche nelle dipendenze, poiché scrollare la pagina, o ricevere un like, è come giocare d’azzardo).
Del resto, staccare la spina ritagliandosi un momento in cui non si ha nulla da fare (assolutamente nulla!) è sempre stato fondamentale per l’equilibrio psicofisico dell’uomo: lo dimostrano gli innumerevoli benefici delle discipline contemplative come la meditazione.
Nonostante tutte queste evidenze, purtroppo, le leggi sono spesso limitate ai lavoratori pubblici in smart working, o comunque troppo generiche e di fatto inattuate: è per questo che c’è chi invoca la disconnessione come diritto fondamentale e universale dell’uomo. A ben pensarci, quest’ultimo rappresenterebbe una declinazione moderna dei diritti più ampi alla salute, alla libertà, all’identità e all’espressione personali: tutte cose preziose che si coltivano col tempo, lo spazio e il silenzio necessari. Il diritto a un vuoto privato in cui essere lasciati semplicemente in pace. Una parentesi per deporre le armi, godersi un respiro lento, e ritrovarsi.
“Il dolore mestruale è un sintomo e va trattato”: gli alert della ginecologa
PrevenzioneColpisce 1 donna su 10, debilitandola con forti sanguinamenti, crampi e dolore addominale, con importanti ripercussioni sulla qualità di vita e sull’umore. L’endometriosi è molto diffusa, ma complessa da diagnosticare e le cui cause di questa patologia non sono ancora chiare. Se ne parla a marzo (mese dedicato all’endometriosi), ma non abbastanza, vista la difficoltà di offrire soluzioni definitive a chi soffre di endometriosi e si ritrova a dover gestire il controllo del dolore ma anche quello del flusso molto abbondante e improvviso.
Cos’e’ l’endometriosi
L’endometriosi è uno stato in cui il tessuto endometriale (tessuto che normalmente si trova all’interno dell’utero) si sviluppa all’esterno dell’utero (nell’addome, nelle ovaie, etc.). Esistono diverse teorie sul motivo per cui ciò accade, ma nessuna può spiegare perché le cellule siano al di fuori dell’utero. La spiegazione più accettata è la teoria di Sampson (o la teoria delle mestruazioni retrograde), che suggerisce che alcune delle cellule vanno nella direzione opposta durante le mestruazioni. Secondo questa teoria, le cellule non escono attraverso la vagina, ma vanno invece verso le tube e possono raggiungere l’ovaio, l’addome o altri organi.
Dolore, ma non solo: come riconoscerla
“Il dolore durante le mestruazioni è il sintomo principale, che può essere presente anche dopo e anche nei rapporti sessuali. In caso di mestruazioni dolorose e /o abbondanti è sempre bene consultare un ginecologo. Sarà poi l’ecografia a confermare o escludere la presenza della patologia. L’endometriosi può avere un enorme impatto sulla qualità di vita essendo una condizione che si può curare ma che deve essere considerata come una malattia cronica. È bene, inoltre, tenere un diario dei sintomi – spiega Manuela FARRIS, ginecologa – perché può essere difficile distinguere l’endometriosi da altre condizioni mediche. In ogni caso è necessario eseguire una risonanza magnetica prima di considerare un intervento chirurgico”.
Come trattarla
Sono molte donne che, non conoscendo la causa, vivono in silenzio la condizione dolorosa. È importante parlare di endometriosi, così che le donne possano sapere che c’è un nome per la loro malattia e fare qualcosa per renderla più facile.
“Poiché il dolore è il sintomo va sempre trattato. Dobbiamo smettere di pensare che se le nostre mamme o le nostre nonne avevano dolore durante il ciclo anche noi dobbiamo sopportare e magari passare un giorno a letto. I possibili trattamenti includono farmaci come le pillole contraccettive, il sistema intrauterino al Levonorgestrel (IUS) e progestinici specifici per il trattamento dell’endometriosi, la chirurgia deve essere riservata esclusivamente a casi specifici. Non esiste una terapia più indicata – continua FARRIS – sia la pillola contraccettiva che gli altri trattamenti funzionano per il controllo del dolore causato da endometriosi, la scelta dipende anche molto dalle esigenze e dai progetti di vita della donna. Per esempio, potrebbe essere necessaria una combinazione di diversi trattamenti, con accorgimenti particolari per quante vogliono diventare mamme e hanno difficoltà”.
Come “provare” a conviverci
Sebbene ci siano diverse opzioni di trattamento, il processo per trovare la soluzione su misura, può essere faticoso e difficile. Nel caso in cui oltre ai dolori sia presente un flusso mestruale abbondante il problema può essere superato dall’utilizzo di dispositivi medici come le coppette mestruali che richiedono lo svuotamento dopo 8 ore di utilizzo. È essenziale sviluppare un buon rapporto con il ginecologo per comunicare i sintomi e sentimenti in modo libero e chiaro.
“Non conosciamo la causa esatta dell’endometriosi, ma può essere incredibilmente difficile conviverci, sia fisicamente che emotivamente. È una condizione a lungo termine ma fortunatamente ci sono trattamenti che possono migliorare la situazione e la qualità della vita– conclude FARRIS – Molte donne sono in grado di gestire i loro sintomi e condurre una vita normale. Ci sono anche molti gruppi di supporto, enti di beneficenza e forum online per condividere il problema, contribuendo a non far sentire sole tutte le donne che ne soffrono”.
Il magnesio: perché è un elemento così importante per il nostro organismo?
AlimentazioneNervosismo, insonnia, agitazione, stanchezza cronica, debolezza muscolare, ma anche nausea e disturbi cardiovascolari o del metabolismo: tutti questi sintomi potrebbero essere riconducibili a una carenza di magnesio.
Il magnesio è un elemento davvero importante per il nostro organismo poiché partecipa attivamente alla regolazione di molte funzioni del nostro corpo e contribuisce alle attività legate al nostro metabolismo. È utilissimo per sentirci più energici, rilassati, per riposare meglio e per ricaricare le energie.
Il magnesio è un minerale fondamentale per il nostro organismo, che non è in grado di produrlo ma può elabolarlo a partire dal cibo: per questo motivo un’alimentazione poco varia e con prodotti a scarso contenuto di magnesio potrebbero rendere necessaria l’assunzione di integratori, da valutare sempre insieme al proprio medico.
La dose ottimale di magnesio da assumere quotidianamente è di 375 mg: rispettare questa quantità diventa assolutamente necessario in particolare periodi, ad esempio nei mesi più caldi, quando ci sentiamo naturalmente più stanchi e deboli a causa delle alte temperature.
Ci sono moltissimi integratori in commercio che hanno proprio la funzione di aumentare l’energia della quale abbiamo bisogno quotidianamente e spesso, oltre al magnesio, contengono un mix di altri sali minerali e vitamine.
In ogni caso, è sempre consigliato consultarsi col proprio medico di base, che saprà indicarci l’integratore più opportuno, magari dopo aver effettuato analisi del sangue per evitare di scambiare alcuni sintomi da carenza di magnesio con disturbi di altra natura.
In che modo il magnesio aiuta il nostro organismo?
Accurate ricerche sull’importanza del magnesio per l’organismo rivelano che il magnesio ha un ruolo fondamentale nella prevenzione delle emicranie ed è in grado di facilitare il sonno agendo come rilassante, poiché incide sulla produzione di serotonina, “l’ormone del buon umore”.
Questo minerale rafforza anche i muscoli contrastando affaticamento e crampi e contribuisce alla produzione di adenosina trifosfato, una molecola che ha la funzione di accumulare e rilasciare energia nel nostro organismo e che agisce da defaticante.
Il magnesio è presente in moltissimi alimenti come, ad esempio:
Incapaci di smettere: come nascono le dipendenze
PrevenzioneIl meccanismo con cui, spesso senza accorgersene si scivola in una dipendenza è piuttosto insidioso. Può riguardare droghe, fumo o comportamenti che provocano piacere, dal sesso al cibo, dal gioco d’azzardo ai social. Può bastare una sola volta per creare catene irremovibili. Uno studio, apparso su Neuropsychopharmacology ha recentemente dimostrato come la maggioranza delle droghe, non abbia bisogno dell’abitudine all’assunzione per arrivare alla dipendenza. Ma da cosa è determinata? Nell’ultimo congresso della Società Italiana di Farmacologia (Sif) è stato sottolineato come l’essere più o meno vulnerabili alle dipendenze abbia a che fare sia con i geni, sia con l’ambiente. Se su quest’ultimo si può intervenire, per la genetica c’è poco da fare.
La risposta del cervello
Molte ricerche sui gemelli adottati da famiglie diverse hanno analizzato la tendenza o meno a sviluppare dipendenze, dimostrando come circa la metà del rischio derivi dai geni. L’ambiente e le scelte di vita fanno poi il resto.
Tuttavia esistono alcune fasi della vita in cui l’influenza dell’ambiente sul rischio di dipendenza è più elevata: si tratta della vita fetale e dell’adolescenza, momenti di sviluppo tumultuoso del cervello. Quindi il rischio è altissimo se la madre fa abuso di sostanze durante la gravidanza o se ne fa uso un adolescente, perché le sostanze determinano alterazioni nella funzionalità genetica e quindi nello sviluppo cerebrale, aumenta così il pericolo successivo di abuso di sostanze e di patologie mentali. Questo spiega perché la maggior parte dei fumatori ha iniziato da adolescente.
Solo intorno ai 25 anni avviene lo sviluppo delle aree frontali deputate al controllo delle azioni pericolose. Per questo motivo, gli adolescenti sono più vulnerabili di fronte alla dipendenza: l’impulsività è maggiore ed è più reattivo anche il sistema della dopamina, il neurotrasmettitore chiave per la gratificazione e l’apprendimento. Tutte le sostanze infatti fanno leva proprio sull’incremento del rilascio di dopamina nel cervello; la cosiddetta «molecola del piacere». Non solo. Questa molecola è in grado anche di rafforzare il ricordo della sensazione piacevole, spingendo a cercare ancora la sostanza. La dopamina aumenta anche con il sesso e il cibo, perché il sistema si è evoluto creando un’associazione positiva con elementi essenziali per la sopravvivenza umana. Non solo le droghe, l’alcol o le sigarette danno assuefazione, inducono una dipendenza forte pure farmaci come le benzodiazepine, usati come ansiolitici o per dormire.
Denti sensibili al freddo: scoperta la causa
PrevenzioneQuante volte abbiamo sentito un dolore lancinante ai denti gustando un buon gelato? È capitato almeno una volta a ciascuno di noi avvertire una vera e propria sensazione di gelo che colpisce i denti.
Alcune persone ne soffrono in maniera cronica, rendendo difficile l’assunzione di bevande troppo fredde, ma anche di alimenti tipicamente estivi come anguria e gelato. Si tratta di una ipersensibilità che non crea particolari disagi se gli episodi sono sporadici, ma che può diventare veramente seccante se prolungata nel tempo perché preclude la libertà di assaporare ciò che più piace.
per fortuna oggi si è trovata una soluzione per questo fastidio. La responsabile delle sensazioni di freddo e ipersensibilità dentale è una specifica proteina, la TRCP5, scoperta dai ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH). Si tratta, come si legge nell’articolo pubblicato sulla rivista Science Advances dagli stessi ricercatori, di una proteina che funge da vero e proprio termometro e che si trova all’interno delle cellule posizionate sotto lo smalto dei denti, gli odontoblasti.
La TRCP5 è presente maggiormente laddove i denti sono colpiti da carie, si attiva con il freddo e invia al cervello impulsi dolorosi. La ricerca è molto importante, perché ora è possibile intervenire in maniera precisa per contrastare questo fastidioso dolore, poiché, inibendo la funzione della TRCP5, si può evitare che le fibre nervose inviino al cervello l’impulso doloroso, come ha sottolineato il patologo del Massachusetts General Hospital Jochen Lennerz che ha partecipato attivamente alla ricerca.
La TRCP5, però, è anche un campanello d’allarme. Va sicuramente inibita la sua funzione, in quanto crea dolore e disagio, ma allo stesso tempo va capito per quale motivo si attiva in questo modo così doloroso e quali problemi ai denti devono essere risolti. Oltre ad essere un vero e proprio campanello d’allarme, è anche un meccanismo di difesa, perché se i denti sono lesionati, con il freddo potrebbero subire ulteriori danni.
Gli studiosi, sono arrivati alla scoperta di questa proteina-termometro attraverso l’osservazione dei topolini utilizzati da cavi e di laboratorio. Sono stati messi a confronto roditori con denti sani con altri affetti da problemi dentali come infiammazioni o carie.
I topolini affetti da carie sono poi stati privati della proteina TRCP5. Studiando poi i comportamenti delle cavie, i ricercatori hanno osservato che a contatto con alimenti molto freddi, entrambe le categorie di topi (sia quelli con denti sani che quelli con infiammazioni o carie) reagivano esattamente allo stesso modo, non avvertendo alcun fastidio.