Tempo di lettura: 2 minutiPiacere a tutti o essere amati da tutti è impossibile. Eppure molti ci provano lo stesso. Questa tendenza però, alla lunga, può avere risvolti psicologici negativi.
Quanto questo meccanismo possa danneggiare lo racconta Emanuela Mazzoni, psicologa specializzata in counseling relazionale in un intervista a Gli Stati Generali. Ci sono persone più predisposte a voler piacere a tutti – spiega la dottoressa – sono coloro che centrano i loro bisogni sulle carenze affettive. Queste persone hanno ricevuto, nella prima fase della loro vita una relazione primaria con il caregiver (solitamente la mamma), di tipo ambivalente, in cui l’affetto della madre non è penetrato in profondità saziando, o meglio ancora, prevenendo la richiesta di attenzione del bambino, ma adeguandosi ai bisogni altalenanti del caregiver. Ma è importante fare una distinzione”.
Comunemente i concetti di essere accettati, piacere ed essere amati vengono scambiati per sinonimi, ma non lo sono affatto. Infatti, come spiega la psicologa, il piacere è un’emozione importante, ma pericolosa: “da porsi come meta ultima dato che può essere piacere odorare il profumo di un fiore, ma anche spararsi in vena una dose di eroina, sentirsi oggetto di attenzioni sessuali, ma anche incidersi una coscia con un taglierino, e così via. L’amore invece è una forza che si svolge nella relazione con l’altro (o con gli altri), attraverso atti concreti, nel senso di un agire oggettivo, indirizzando la propria intenzionalità cosciente di star facendo il bene ed infine con sentimento, nel senso della potenza empatica che sa superare anche la forma di conflitto eventualmente presente”.
Un primo passo, suggerisce la psicologa, è quello di invertire il bisogno di piacere, nella certezza di piacersi, far qualcosa per piacersi, accorgersi infine che si va proprio bene così. Poi si può amare per primi ed infine avere fiducia sul fatto che l’amore ritorni al mittente, non direttamente, ma per vie imprevedibili. “Questi passaggi sono tutt’altro che scontati, ma di certo non impossibili e possono portare ad invertire il bisogno di una persona che si è costruita intorno ad un vuoto affettivo, nella capacità di mettere in moto un vero processo d’amore con ricadute ben più ampie di quelle presumibili”. “Ricevere l’affetto che non si è avuto – spiega l’esperta – riversando questa aspettativa in un’altra persona, è il modo migliore per innescare una relazione di dipendenza in cui si è pronti a tutto, anche a rinnegare se stessi o a farsi fare del male piuttosto di rimanere in quella situazione. Si è indotti erroneamente a pensare che l’affetto che non ho ricevuto, potrò finalmente riceverlo, basta trovare la ‘persona giusta’. Mentre la possibile soluzione di questo diffusissimo disagio, spesso targato al femminile, passa attraverso la capacità di dare ciò che si ha, nei termini di riconoscimento della propria personale identità e nell’individuazione dei propri bisogni e dei propri desideri (che sono istanze totalmente diverse).
Il riconoscimento di ciò che si sa fare e che si può fare per gli altri, conduce alla messa in pratica di questo sapere all’interno di molteplici relazioni, situazioni, luoghi, paesi, che portano la persona ad essere arricchita su piani completamente diversi da quelle che erano le sue aspettative. Solo sorprendendosi, individuandosi ed essendo capace di trovare il proprio nutrimento affettivo in plurime persone e situazioni, la persona può sperare di costruire una relazione di coppia (luogo principe delle dipendenze, insieme alle relazioni con la famiglia di origine), soddisfacente in cui non rinchiudersi, ma che funga come piano comune di sostegno reciproco, nella costruzione del proprio futuro”.
Tumore al polmone: intervista al Prof. Gridelli
Podcast“Contenuto realizzato da Radio Kiss Kiss in collaborazione con PreSa con il supporto di Sanofi”
Traumi nei primi anni di vita favorirebbero depressione in età adulta
Bambini, PsicologiaTraumi o eventi stressanti vissuti nei primi anni di vita, potrebbero influenzare le caratteristiche genetiche individuali e favorire la comparsa della depressione. È quanto emerge da uno studio pubblicato su Molecular Psychiatry, la rivista del gruppo Nature. Lo studio ha coinvolto anche ricercatori italiani, tra cui la prima firmataria della ricerca, la Dott. ssa Annamaria Cattaneo dell’Istituto di ricovero e cura a carattere Scientifico – Irccs Fatebenefratelli S. Giovanni di Dio di Brescia.
Il team di scienziati ha identificato un gruppo di geni che può predisporre allo sviluppo della malattia. La depressione, dunque, necessita comunque di fattori ambientali per manifestarsi. Lo studio vuole sottolineare come sia importante comprendere i meccanismi mediante i quali una predisposizione genetica (intesa sia come predisposizione al rischio o alla resilienza/protezione) possa interagire con eventi ambientali avversi, ed esercitare un effetto a lungo termine che viene poi smascherato in età adulta, con la manifestazione della malattia. Questo – spiegano i ricercatori – contribuisce non solo ad una migliore comprensione di come i geni interagiscano con l’ambiente esterno, ma porterà anche all’identificazione di soggetti più a rischio, e anche di nuovi bersagli utili per lo sviluppo di nuovi farmaci, che se somministrati in via preventiva, potrebbero essere utili per minimizzare il rischio di sviluppare questa patologia.
Il fumo di sigaretta causa l’80% dei tumori al polmone e il 30% di ogni altra neoplasia
News Presa, PartnerSe qualcuno avesse ancora avuto qualche dubbio sul ruolo che il fumo di sigaretta gioca nel causare un tumore del polmone, a mettere le cose in chiaro ci ha pensato uno dei maggiori esperti del campo: Cesare Gridelli, direttore del Dipartimento di Onco-Ematologia all’Azienda Ospedaliera Moscati di Avellino. Intervenuto ai microfoni di Radio Kiss Kiss in occasione del consueto appuntamento radiofonico del sabato che il network editoriale PreSa dedica ai temi della salute e alla prevenzione, Gridelli ha spiegato che «l’80% dei casi di tumore del polmone sono legati al fumo di sigaretta». Ma non è tutto, l’esperto ha anche chiarito che il fumo di sigaretta è il principale responsabile del 30% di tutti gli altri tumori. Ad esempio quelli del distretto “testa – collo”, ma anche del pancreas, del cavo orale, della vescica e del rene. «Il fumo causa enormi danni – ha proseguito – e un terzo dei tumori è legato proprio a questi danni».
A rendere centrale questo allarme sono i dati più recenti, che descrivono un aumento del tabagismo, soprattutto nei giovani. Ed è proprio per questo che le campagne d’informazione sono fondamentali. «La Campania è purtroppo maglia nera per incidenza del fumo, anche nei giovanissimi – spiega Gridelli – con un livello medio di “abitudini a rischio” molto alto. Ridurre il tabagismo è essenziale, dobbiamo andare nelle scuole per trasmettere un messaggio chiaro sui rischi che si corrono».
Unica nota positiva è quella che arriva dalla ricerca, che oggi ha reso disponibili nuove terapie per queste neoplasie. «Le cose sono molto migliorate – conclude l’oncologo – abbiamo molte più guarigioni grazie all’uso combinato della chirurgia e delle terapie mediche. Le nuove terapie sono quelle biologiche, a bersaglio molecolare, o l’immunoterapia. Tutto questo ha migliorato i dati di sopravvivenza, ma la chiave resta la prevenzione primaria e secondaria». Un tasto dolente è purtroppo quello dell’assistenza ai pazienti e ai caregiver. Benché per la parte ospedaliera si è a buon punto, c’è ancora molto da fare sul territorio.
“Contenuto realizzato da Radio Kiss Kiss in collaborazione con PreSa con il supporto di Sanofi”
La game face: ecco come funziona
PsicologiaGli esperti la chiamano “game face”, che tradotto significa più o meno faccia da gioco; è la mimica che alcuni sportivi mostrano prima di un incontro importante. Tanto per intendersi, muscoli tesi, espressione seria e concentrata. Perché ne parliamo? Perché un recente studio ha dimostrato che la faccia da giocatore può veramente cambiare le prestazioni dell’atleta. Sembra incredibile, ma almeno in questo caso si può dire che l’abito fa il monaco. O almeno lo fa in parte. Un volto serio e concentrato per arrivare all’obiettivo, come quello diventato famoso (e che ha dato vita al alcuni meme) del nuotare Michael Phelps alle Olimpiadi di Rio 2016, prima della finale dei 200 metri stile farfalla.
LA RICERCA
Lo studio in questione è dell’Università del Tennessee a Knoxville, pubblicata su Stress and Health. «La faccia da gioco- spiega Matthew Richesin, autore principale della ricerca- potrebbe non solo migliorare le prestazioni in compiti cognitivi, ma anche portare a un migliore recupero dallo stress». I ricercatori hanno condotto due esperimenti, mostrando a chi vi ha preso parte immagini di atleti e altri personaggi pubblici con una faccia da gioco e chiedendo di mostrare “uno sguardo di intensa determinazione” durante l’esecuzione di compiti fisici e cognitivi. In un primo test è stato chiesto ai 62 partecipanti di inserire la mano dominante in un contenitore con acqua ghiacciata, mentre a quelli inseriti nel gruppo di controllo non sono state date istruzioni specifiche.Sebbene non vi sia stato alcun impatto sulle prestazioni fisiche, i ricercatori hanno osservato che anche coloro a cui non era stato detto nel dettaglio come comportarsi hanno mostrato espressioni facciali simili. «Le espressioni facciali – evidenzia Richesin- erano le stesse di quelle comunemente associate allo sforzo, al dolore e alla competizione». Nel secondo esperimento, i partecipanti sono stati incaricati di completare il più possibile un puzzle mandala in bianco e nero da 100 pezzi entro cinque minuti. In questo caso, il gruppo che ha sperimentato la “faccia da gioco” è riuscito in media meglio del 20%, dimostrando al contempo un migliore recupero dello stress. Per il futuro gli studiosi intendono esplorare ulteriormente i benefici della “game face” anche in contesti che non siano quelli sportivi.
IL SORRISO
Un banale esperimento che può aiutarci a comprendere in maniera istintiva i meccanismi che sono dietro la “faccia da gioco” è quello del sorriso. Provate a sorridere, senza un motivo, semplicemente contraendo i muscoli del volto e concentratevi sul vostro stato d’animo. Anche in questo caso è dimostrato che il cervello associa a questo tipo di contrazione muscolare uno stato d’animo più sereno. Una reazione che naturalmente varia da persona a persona, ma che genera nella quasi totalità dei casi una sensazione di gioia. E anche per questo si usa dire “sorridi, che la vita ti sorride”.
“Mens sana in corpore sano”. L’allenamento contro ansia e depressione
News Presa, Prevenzione, PsicologiaL’allenamento fisico può avere un ruolo chiave contro i disturbi di ansia o depressione. Esiste infatti un forte legame tra salute mentale e fisica. “Sappiamo che la vecchia separazione tra mente e corpo è ingannevole” afferma Ben Michaelis, dottore di ricerca, psicologo evoluzionista e autore di “Your Next Big Thing: 10 Small Steps to Get Moving and Get Happy. “Il corpo è la mente, la mente è il corpo. Quando ci prendiamo cura di noi stessi, stiamo aiutando l’intero sistema”. “Gli allenamenti più efficaci contro ansia e depressione“ è stato pubblicato sul sito americano Health.Com. Le ricerche indicano che tre attività in particolare possono contribuire ad alleviare i sintomi di depressione e ansia. Si tratta della corsa, il trekking e lo yoga.
La corsa brucia calorie, riduce la voglia improvvisa di cibo e il rischio di malattie cardiache. Ma è stato dimostrato anche che la corsa migliora l’umore in diversi modi, conferma Michaelis. “Correre provoca cambiamenti durevoli nei neurotrasmettitori del buonumore, la serotonina e la norepinefrina, sia durante che dopo l’allenamento”, spiega. Inoltre, sembra che i movimenti ripetitivi della corsa abbiano sul cervello lo stesso effetto della meditazione. I benefici mentali dell’allenamento possono essere particolarmente efficaci per chi soffre di depressione. In un’indagine pubblicata sulla rivista Psychiatry & Neuroscience, i ricercatori hanno scoperto che l’esercizio fisico può funzionare in modo simile agli antidepressivi e attenuare disturbi mentali seri supportando la formazione di nuovi neuroni nel cervello. La corsa può facilitare il riposo notturno e questo migliora la memoria, riduce i livelli di stress e protegge dalla depressione.
Il Trekking, invece, può ottimizzare i benefici mentali dell’allenamento. “La natura ha un effetto calmante sulla mente”, ricorda Michaelis. “È dimostrato che stare a contatto con piante, alberi e in particolare con alberi in decomposizione può contribuire alla riduzione dell’ansia perché queste piante emettono sostanze chimiche per rallentare il processo di decomposizione che, a quanto pare, fanno rallentare anche noi”. Per uno studio poi pubblicato in Enviromental Health and Preventive Medicine, alcuni ricercatori Giapponesi hanno inviato partecipanti in aree boschive e urbane. Hanno poi scoperto che i soggetti che avevano passeggiato nei boschi per 20 minuti riportavano livelli più bassi di ormone dello stress, rispetto a chi era rimasto in città. Anche le ricerche più recenti sembrano corroborare la tesi che un’immersione nella natura possa giovare alla salute mentale. Uno studio della scorsa estate, per esempio, ha scoperto che quando un giovane adulto si concede una passeggiata nella natura di cinquanta minuti si sente meno ansioso e vede migliorate le sue facoltà mnemoniche.
Infine, per quanto riguarda lo Yoga, tutti i partecipanti che avevano preso lezioni di Yoga riportavano una “significativa” riduzione dei livelli di depressione, rabbia, ansia e sintomi nevrotici. Un altro gruppo di ricercatori ha condotto uno studio su alcuni trial clinici che esaminavano gli effetti dello yoga sull’ansia e sullo stress. In 25 studi su 35, i soggetti riportavano una diminuzione significativa dei sintomi di ansia e stress dopo aver iniziato a praticare yoga. “La cosa straordinaria dello yoga è che, oltre agli esercizi di stretching e di rafforzamento di base, si concentra molto sulla respirazione, che aiuta a rallentare e calmare la mente” spiega Michaelis. Infatti, è difficile restare ansiosi quando si respira profondamente.
Dipendenza dai social: narcisisti condizionati dai like
News Presa, PsicologiaI nuovi narcisisti, sempre a caccia di like, sono amanti dei selfie. Non hanno fatto i conti, però, con il rischio dipendenza dai social, lo dicono gli studi. In cerca di autopromozione e ammirazione, i narcisisti rischiano, secondo uno studio dell’Università di Firenze, di diventare dipendenti da Facebook e Instagram. I social network, infatti, sono il terreno ideale per far proliferare il narcisismo. Tra foto selezionate dopo mille tentativi, esperienze particolari o commenti del giorno, se non arrivano al numero sperato di ‘like’ provano una profonda delusione.
Lo studio, condotto da Silvia Casale, Giulia Fioravanti e Laura Rugai e pubblicato sulla rivista Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, ha preso in esame un campione di 535 studenti che hanno completato un questionario per valutare la relazione tra propensione al narcisismo e l’uso di Internet. Ne è emerso che i ‘narcisisti vulnerabili’, cioé quelli insicuri e con meno autostima, sono quelli più propensi a preferire le iterazioni attraverso lo schermo piuttosto che faccia a faccia, e corrono il rischio di diventarne dipendenti.
I ‘narcisisti megalomani’ o grandiosi, invece, cioè che tendono all’esibizionismo ma non temono il contatto col mondo reale, vanno apertamente a caccia di consensi e, allo stesso tempo, sono meno ‘addicted’ ai social media. Dal punto di vista dell’utilizzo dei social network, inoltre, non sono state riscontrate differenze significative tra i narcisisti grandiosi e i non-narcisisti.
Anoressia sempre più maschile: colpito 1 uomo ogni 4 donne
PsicologiaFino ad oggi era considerata una malattia al femminile. L’anoressia nasce da un disagio emotivo profondo che spesso affonda le radici nella famiglia, ma trova terreno fertile nell’idea di perfezione a cui è sottoposta l’immagine della donna, soprattutto nella moda. Tuttavia, oggi ci troviamo di fronte a un nuovo scenario. L’anoressia è in aumento tra gli uomini, avvertono gli esperti dell’Ame. I maschi ricevono, inoltre, diagnosi più tardive. Su 3 milioni di malati in Italia, uno ogni 4 è un maschio.
Anoressia maschile
Gli endocrinologi sottolineano come, a sottovalutare il problema, siano proprio gli stessi medici, “a causa di un pregiudizio diagnostico di genere”. L’età in cui si presenta la malattia è intorno ai 14-15 anni. Ma nell’ultimo periodo sono stati registrati casi anche a partire dai nove anni.
“A sottovalutare il problema sono gli stessi medici, a causa di un pregiudizio diagnostico di genere”, dichiara Edoardo Guastamacchia, presidente dell’Ame. “per questo è importante sensibilizzare per rendere più tempestiva la diagnosi e l’accesso alle cure”, aggiunge.
“L’anoressia degli uomini ha manifestazioni in parte simili a quelle dell’ambito femminile ma spesso l’ossessione per le forme corporee può esprimersi attraverso una attività fisica compulsiva, oltre ad un comportamento alimentare dannoso”, afferma Simonetta Marucci, endocrinologa esperta dei Disturbi del Comportamento Alimentare.”
Benessere: preghiere o meditazione cambiano la chimica del cervello
Benessere, News Presa, Prevenzione, Psicologia, Stili di vitaRitiri spirituali dedicati alla preghiera o alla meditazione, in luoghi adatti, fanno incontrare la felicità. Infatti, bastano sette giorni con gruppi religiosi o di laici, per cambiare la ”chimica del cervello”, favorendo la produzione delle molecole naturali del benessere e della serenità, ‘serotonina’ e ‘dopamina’ (associate a buon umore, gratificazione, piacere). È quando viene dimostrato in una ricerca su 14 individui condotta presso la Thomas Jefferson University.
Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Religion, Brain & Behavior. Gli esperti hanno studiato il cervello di 14 partecipanti a una settimana di ritiro spirituale secondo gli insegnamenti di Sant’Ignazio da Loyola, settimana scandita dalle pratiche di ritiro, un insieme di meditazione e preghiere in un’atmosfera di raccoglimento e silenzio.
Dopo la settimana gli esperti hanno chiesto ai partecipanti di compilare dei questionari sul loro stato di benessere emotivo e fisico; inoltre ne hanno analizzato il cervello con esami ad hoc. Il risultato è sorprendente: ne è emerso che dopo il ritiro i partecipanti si sentono emotivamente più in equilibrio, fisicamente meglio, liberi da tensione e fatica. A ciò corrisponde nel cervello la super-produzione delle molecole del benessere e del piacere, dopamina e serotonina appunto. Resta da capire se vi sia in particolare un qualche aspetto delle pratiche di ritiro (che siano spirituali di preghiera o di meditazione) che favorisca il raggiungimento di questo ‘stato di grazia’, anche se è più probabile che l’effetto positivo sia il risultato dell’atmosfera stessa che vi si respira e dell’allontanarsi dai ritmi frenetici e stressanti della vita quotidiana.
Dormire per ricordare: il sonno consolida la memoria
News Presa, Prevenzione, PsicologiaRicordare attraverso il sonno. Robert Stickgold, un ricercatore dell’Università di Harvard specializzato in disturbi del sonno, è l’autore di uno studio pubblicato su Science e molto citato nel dibattito scientifico che ha dimostrato l’importanza del sonno per il consolidamento della memoria.
Nell’esperimento di Stickgold a un gruppo di persone fu chiesto di giocare a Tetris, il popolare videogame degli anni Ottanta, per un totale di sette ore nell’arco di tre giorni. In quel gruppo alcuni conoscevano Tetris, altri non ci avevano mai giocato prima, e altri ancora non potevano neppure saperlo: erano pazienti amnesici con estesi danni al lobo temporale e all’ippocampo, e il loro particolare tipo di amnesia impediva la formazione di memoria episodica (un sottosistema della memoria dichiarativa che riguarda singoli eventi, autobiografici e non).
Ai soggetti dell’esperimento fu chiesto ogni notte, nelle prime fasi del sonno, di raccontare i loro sogni: in pratica venivano svegliati ripetutamente appena si addormentavano, e ogni volta dovevano cercare di ricordare al meglio e riferire ai ricercatori cosa stessero sognando. In un numero rilevante di casi emerse che i sogni erano legati a Tetris e che – fatto scientificamente notevole – questo valeva anche per i pazienti amnesici: non avevano comprensione di quello che visualizzavano nel sogno, né ricordavano di aver giocato al videogame nelle ore precedenti, ma nella descrizione del sogno facevano riferimento a scene di forme geometriche “in caduta” che richiamavano chiaramente la dinamica del gioco. L’esperimento mostrò che anche i pazienti malati erano in grado, durante il sonno, di rievocare immagini conservate senza contributo della memoria dichiarativa (o esplicita).
In un articolo pubblicato su Nature, Stickgold ha trattato altri suoi lavori scientifici e commentato altre scoperte recenti nel campo della ricerca sul sonno. Sostiene che il sonno svolga una funzione determinante non soltanto nel consolidamento della memoria ma anche nella selezione dei ricordi rilevanti. La nostra mente non conserva il ricordo di ogni singolo dettaglio delle nostre giornate (a meno che non si tratti della mente di Ireneo Funes, il protagonista dell’omonimo racconto di fantasia di Jorge Luis Borges): a volte formiamo un ricordo per ragioni emozionali, altre volte conserviamo un dettaglio banale. In ogni caso, sostiene Stickgold, il sonno e i sogni ci aiutano a isolare e memorizzare l’“essenza”, ciò che del nostro vissuto rimane nella nostra memoria.
Come il desiderio di voler piacere a tutti può danneggiarci
News Presa, Prevenzione, PsicologiaPiacere a tutti o essere amati da tutti è impossibile. Eppure molti ci provano lo stesso. Questa tendenza però, alla lunga, può avere risvolti psicologici negativi.
Quanto questo meccanismo possa danneggiare lo racconta Emanuela Mazzoni, psicologa specializzata in counseling relazionale in un intervista a Gli Stati Generali. Ci sono persone più predisposte a voler piacere a tutti – spiega la dottoressa – sono coloro che centrano i loro bisogni sulle carenze affettive. Queste persone hanno ricevuto, nella prima fase della loro vita una relazione primaria con il caregiver (solitamente la mamma), di tipo ambivalente, in cui l’affetto della madre non è penetrato in profondità saziando, o meglio ancora, prevenendo la richiesta di attenzione del bambino, ma adeguandosi ai bisogni altalenanti del caregiver. Ma è importante fare una distinzione”.
Comunemente i concetti di essere accettati, piacere ed essere amati vengono scambiati per sinonimi, ma non lo sono affatto. Infatti, come spiega la psicologa, il piacere è un’emozione importante, ma pericolosa: “da porsi come meta ultima dato che può essere piacere odorare il profumo di un fiore, ma anche spararsi in vena una dose di eroina, sentirsi oggetto di attenzioni sessuali, ma anche incidersi una coscia con un taglierino, e così via. L’amore invece è una forza che si svolge nella relazione con l’altro (o con gli altri), attraverso atti concreti, nel senso di un agire oggettivo, indirizzando la propria intenzionalità cosciente di star facendo il bene ed infine con sentimento, nel senso della potenza empatica che sa superare anche la forma di conflitto eventualmente presente”.
Un primo passo, suggerisce la psicologa, è quello di invertire il bisogno di piacere, nella certezza di piacersi, far qualcosa per piacersi, accorgersi infine che si va proprio bene così. Poi si può amare per primi ed infine avere fiducia sul fatto che l’amore ritorni al mittente, non direttamente, ma per vie imprevedibili. “Questi passaggi sono tutt’altro che scontati, ma di certo non impossibili e possono portare ad invertire il bisogno di una persona che si è costruita intorno ad un vuoto affettivo, nella capacità di mettere in moto un vero processo d’amore con ricadute ben più ampie di quelle presumibili”. “Ricevere l’affetto che non si è avuto – spiega l’esperta – riversando questa aspettativa in un’altra persona, è il modo migliore per innescare una relazione di dipendenza in cui si è pronti a tutto, anche a rinnegare se stessi o a farsi fare del male piuttosto di rimanere in quella situazione. Si è indotti erroneamente a pensare che l’affetto che non ho ricevuto, potrò finalmente riceverlo, basta trovare la ‘persona giusta’. Mentre la possibile soluzione di questo diffusissimo disagio, spesso targato al femminile, passa attraverso la capacità di dare ciò che si ha, nei termini di riconoscimento della propria personale identità e nell’individuazione dei propri bisogni e dei propri desideri (che sono istanze totalmente diverse).
Il riconoscimento di ciò che si sa fare e che si può fare per gli altri, conduce alla messa in pratica di questo sapere all’interno di molteplici relazioni, situazioni, luoghi, paesi, che portano la persona ad essere arricchita su piani completamente diversi da quelle che erano le sue aspettative. Solo sorprendendosi, individuandosi ed essendo capace di trovare il proprio nutrimento affettivo in plurime persone e situazioni, la persona può sperare di costruire una relazione di coppia (luogo principe delle dipendenze, insieme alle relazioni con la famiglia di origine), soddisfacente in cui non rinchiudersi, ma che funga come piano comune di sostegno reciproco, nella costruzione del proprio futuro”.