Tempo di lettura: 8 minutiLe microplastiche non inquinano soltanto i mari creando enormi danni all’ecosistema. I minuscoli frammenti possono finire nel sangue e, di conseguenza, circolare nell’organismo umano. Di alcuni mesi fa è il ritrovamento di microplastiche nei polmoni di persone viventi e nel sangue umano. Ogni settimana un individuo ingerisce in media 5 grammi di microplastiche, l’equivalente di una carta di credito. I rischi per la salute sono già emersi dai primi studi.
Microplastiche nell’aria che si respira
Alcuni anni fa, quando le microplastiche hanno iniziato ad apparire nell’intestino di pesci e crostacei, i timori si sono concentrati sulla sicurezza dei prodotti ittici, in particolare, dei frutti di mare, poiché consumati interi (compresi stomaco). In realtà, la plastica si scompone continuamente nell’ambiente. Con il tempo si disgrega in fibre minuscole, particelle così piccole da fluttuare nell’aria ed entrare nelle vie respiratorie.
In altre parole, non è sufficiente non mangiare frutti di mare per non entrarne in contatto. Un team dell’Università di Plymouth nel Regno Unito lo ha dimostrato. Gli studiosi hanno deciso di mettere a confronto il pericolo derivante dal mangiare cozze selvatiche contaminate in Scozia con il respirare l’aria in una normale abitazione. I risultati dimostrano che, durante una cena a base di cozze, le persone assorbono più plastica inalando o ingerendo minuscole fibre plastiche invisibili che si librano nell’aria circostante – fibre provenienti da vestiti, tappeti e tappezzeria – rispetto a quella contenuta nelle cozze stesse.
Microplastiche nei polmoni
La scorsa primavera alcuni scienziati di Paesi Bassi e Regno Unito hanno ritrovato particelle di plastica in esseri umani viventi. Si tratta di due punti dove non erano mai state viste prima: in profondità nei polmoni di un paziente sottoposto a intervento chirurgico e nel sangue di donatori anonimi.
Questi due studi non esauriscono la questione dei danni, ma entrambi dimostravano come non si possa più ignorare l’entità della nube di polveri volatili, particelle così piccole da riuscire a penetrare in profondità nel corpo e addirittura nelle cellule, dove le microplastiche più grandi non arrivano.
Dick Vethaak, professore emerito di ecotossicologia presso la Vrije Universiteit di Amsterdam e co-autore dello studio sul sangue, ha spiegato che viamo in un mondo pieno di particelle – alludendo a polvere, pollini e particolato – che vengono respirate ogni giorno. Tuttavia, è importante capire in che quota la plastica contribuisce al carico di particelle e che cosa implica.
Microplastiche nel sangue
Lo studio olandese ha trovato frammenti di pet, polistirene e altri composti all’interno dell’organismo. La scoperta è dei ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam guidati dall’ecotossicologa Heather Leslie e dalla chimica Marja Lamoree, nell’ambito del progetto “Immunoplast”. I risultati sono pubblicati sulla rivista internazionale Environment International. “Questo studio pionieristico di biomonitoraggio umano ha dimostrato che le particelle di plastica sono biodisponibili per essere assorbite nel flusso sanguigno umano”, spiegano i ricercatori.
In tre quarti dei 22 campioni esaminati il materiale risultato più abbondante è il Pet (Polietilene tereftalato) con cui sono fatte le bottiglie di platica. Ne è stata misurata una quantità di 1,6 microgrammi per millilitro di sangue. Non solo, oltre al Pet sono state trovate tracce del polistirene utilizzato negli imballaggi. Al terzo posto come concentrazioni risulta il polimetilmetacrilato, più conosciuto come plexiglas.
Solo in futuro e grazie a nuovi dati sarà possibile stabilire in quale entità l’esposizione alle microplastiche costituisca una minaccia per la salute. Tra i tanti quesiti, gli scienziati cercano di capire come vengono trasportate le particelle di plastica presenti nel plasma. Se le particelle di plastica presenti nel flusso sanguigno sono effettivamente trasportate dalle cellule immunitarie, tra le domande che gli scienziati si pongono è se queste esposizioni possano potenzialmente influenzare la regolazione immunitaria o la predisposizione a malattie a base immunologica.
Danni, difficili da quantificare
Le microplastiche oggi si trovano ovunque: nel sale, nella birra, nella frutta e verdura fresca e nell’acqua potabile. Le particelle volatili possono raggiungere l’altra parte della terra in poco tempo. I numeri stimati sul volume di microplastiche presenti nell’oceano si sono moltiplicati nel tempo e ogni anno tonnellate di rifiuti plastici finiscono in mare e si disgregano.
Nell’ultimo conteggio, risalente all’anno scorso, gli scienziati giapponesi dell’Università di Kyushu hanno stimato la presenza di 24.400 miliardi di frammenti di microplastiche negli strati più superficiali degli oceani, l’equivalente di circa 30 miliardi di bottiglie da mezzo litro – un numero da capogiro. Stabilire la portata dei danni delle microplastiche a livello umano è difficile. La plastica è composta da una complessa combinazione di sostanze chimiche, tra cui gli additivi che conferiscono resistenza e flessibilità. Sia la plastica che gli additivi chimici possono essere tossici.
Additivi, tra gli indiziati
Non solo le microplastiche, anche gli additivi possono riversarsi nelle acque, fino all’88%, come dimostra uno studio. La percentuale dipende da diversi fattori, tra cui la luce del sole e la durata di tempo. Lo stesso studio ha riscontrato 8.681 sostanze chimiche e additivi associati a un unico prodotto in plastica.
Trattandosi di un insieme così complesso, capire quali combinazioni chimiche possano essere più dannose di altre è molto difficile. “Sì può individuare una correlazione, ma è difficile trovare un rapporto di causa-effetto, considerando il gran numero di sostanze chimiche a cui siamo esposti quotidianamente”, spiega Denise Hardesty, scienziata che da 15 anni studia i rifiuti plastici presso la Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization in Australia.
Un mare di plastica
367 milioni di tonnellate di plastica sono state prodotte solo nel 2020, una quantità destinata a triplicarsi entro il 2050. Secondo gli scienziati sarà molto difficile fare marcia indietro in caso di necessità. Janice Brahney, esperta di biochimica presso la Utah State University, nel 2020 stimava che entro il 2025 nell’ambiente si accumuleranno 11 miliardi di tonnellate di plastica (Brahney ha calcolato che ogni anno nei soli Stati Uniti occidentali vengono portate dal vento e ricadono dal cielo oltre 1.000 tonnellate di minuscole particelle).
I dati della sua ricerca, pubblicati su Science, hanno avuto molta risonanza mediatica, tanto che l’American Chemical Council (ACC), un’associazione di categoria, è intervenuta criticando quei numeri. Secondo l’ACC la quantità di microplastiche presenti nell’ambiente rappresenta solo una minima parte, il restante è composto da materiali naturali come minerali, sporco e sabbia, parti di insetti, pollini e altro ancora. Nel frattempo, l’associazione ha dichiarato di aver lanciato un programma di ricerca per contribuire a rispondere alle domande sulle microplastiche – anche domestiche – e aiutare a creare una rete globale tra università, istituti di ricerca e industria.
La plastica nell’uomo. La questione del danno
Misurare i possibili effetti nocivi della plastica sull’uomo è ancora più difficile che negli animali. Gli scienziati nel frattempo vanno avanti e solo il tempo potrà fare chiarezza sull’impatto delle microplastiche.
Le ricerche stanno analizzando le tossine rinvenute nelle materie plastiche e le malattie polmonari – dall’asma alla broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), fino al cancro – che uccidono milioni di persone ogni anno e sono state collegate all’esposizione ad altre sostanze inquinanti. La BPCO, causata da un’infiammazione cronica, è la quarta principale causa di morte negli Stati Uniti, come riporta l’American Lung Association nel suo ultimo report.
A partire dalla Rivoluzione industriale vengono inalate una vasta gamma di particelle estranee ogni giorno. L’organismo umano cerca di espellerle da solo. Le particelle più grandi, nelle vie aeree superiori in genere vengono espulse con i colpi di tosse, e più in basso, lungo l’apparato respiratorio, le particelle vengono avvolte dal muco che le porta verso l’alto nelle vie aeree superiori, per essere espulse. Le particelle restanti vengono circondate dalle cellule immunitarie per essere isolate. Nel corso del tempo, queste particelle possono provocare un’irritazione e scatenare sintomi a cascata che vanno dall’infiammazione all’infezione, fino al cancro. Oppure, possono rimanere presenti, senza dare effetti.
Potrebbero anche veicolare sostanze pericolose
I rischi per l’uomo derivanti dalle microplastiche (MP) possono essere di natura fisica, chimica o microbiologica. I rischi fisici sono dovuti alle ridotte dimensioni delle MP che possono attraversare le barriere biologiche – come la barriera intestinale, ematoencefalica, testicolare e persino la placenta – e causare danni diretti, in particolare all’apparato respiratorio e all’apparato digerente.
I rischi chimici derivano dalla presenza di contaminanti, come i plasticizzanti (ftalati, bisfenolo A) o i contaminanti persistenti (ritardanti di fiamma bromurati, idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili) presenti nelle microplastiche. Infatti, le MP possono essere veicolo di sostanze potenzialmente pericolose di natura organica oppure inorganica. Attualmente esistono pochi dati sulla presenza e concentrazione di metalli nelle MP e sui contaminanti ad esse associati. Molti di essi, essendo interferenti endocrini, possono provocare danni a carico del sistema endocrino, causare problemi alla sfera riproduttiva e al metabolismo sia nei figli di genitori che sono stati esposti alle microplastiche durante la gravidanza, sia in età adulta a seguito di esposizione nelle prime fasi di vita (neonatale, infanzia, pubertà).
Le MP possono trasportare, attaccati alla loro superficie, microrganismi in grado di causare malattie: batteri come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia sono stati rilevati in MP raccolte al largo delle coste del Belgio.
Le microplastiche nel tratto gastrointestinale
Esistono pochi dati sul destino delle MP nel tratto gastrointestinale. I dati disponibili riguardano esclusivamente assorbimento e distribuzione ma non sono ancora noti processi di trasformazione (metabolici) e di eliminazione. Solo MP più piccole, di dimensione inferiore a 150 micrometri sembra possano attraversare la barriera intestinale, sebbene l’assorbimento sia comunque considerato molto basso (inferiore o uguale allo 0,3%). Il passaggio ad altri organi sembra possa avvenire sono per una frazione limitata, di dimensioni inferiori a 1,5 micrometri.
Tuttavia, studi sperimentali hanno dimostrato che, una volta assorbite, le MP si accumulano in fegato, reni e intestino con la capacità di provocare stress ossidativo, problemi metabolici, processi infiammatori, nonché danni ai sistemi immunitario e neurologico. Infine, nella valutazione degli effetti negativi delle MP occorre tener conto della presenza delle sostanze chimiche in esse presenti o attaccate alla loro superficie, il cui rilascio nell’organismo rappresenta un potenziale rischio per la salute, e di eventuali organismi patogeni.
I cibi che contengono più plastica
le microplastiche, essendo troppo piccole per poter essere trattenute dai sistemi di filtrazione e depurazione delle acque reflue, vengono rilasciate nell’ambiente marino, contribuendo al suo inquinamento. La contaminazione ambientale riguarda anche le acque dolci, i sedimenti, il terreno e l’aria. Diversi studi suggeriscono che il loro inquinamento può essere anche maggiore rispetto a quello dei mari.
La popolazione, quindi, è esposta alle microplastiche attraverso l’ambiente (per esempio con l’inalazione di microplastiche presenti in aria) ma anche attraverso il consumo di cibi o all’utilizzo di tessuti o cosmetici, in essi contenuti. Il documento dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) sulle microplastiche (MP) presenti negli alimenti riporta la loro concentrazione riscontrata in:
- pesce, la concentrazione varia da 1 a 7 MP per pesce ed è misurata nello stomaco e nell’intestino che rappresentano il sito principale di accumulo delle MP
- gamberi, 0,75 MP per grammo
- bivalvi, tra 0,2 e 4 MP per grammo
Sulla base di questi dati, EFSA ha effettuato una stima dell’esposizione umana alle microplastiche considerando il consumo di una porzione da 225 grammi di cozze (poiché le cozze sono consumate senza la rimozione dei visceri) e usando la più alta concentrazione di microplastiche rilevata nei molluschi. In tal modo si è calcolata un’ingestione di 900 pezzi di MP.
Non solo pesce e frutti di mare
Le MP sono state riscontrate anche in altri alimenti:
- sale, con concentrazioni comprese fra 0,007 e 0,68 MP per grammo
- birra, in cui fibre, frammenti e granuli di MP ammontano a 0,025, 0,033 e 0,017 per millilitro
- miele, 0,166 fibre per grammo
- acqua in bottiglia, 94,37 MP per litro
- acqua del rubinetto, 4,23 MP per litro
Dati sperimentali sugli organismi marini hanno evidenziato che le MP possono essere trasferite a vari livelli: ad esempio, le farine di pesce vengono utilizzate in zootecnia per produrre mangimi destinati al pollame e ai suini, contribuendo alla diffusione delle MP anche in alimenti di origine non marina.
Anche le confezioni alimentari e l’uso di stoviglie in plastica (piatti, forchette, ecc.) possono rappresentare sorgenti di esposizione alle microplastiche. Le MP presenti nell’aria derivano dalla sospensione delle microplastiche presenti nelle acque o nei terreni, dall’abrasione dei materiali o dei tessuti sintetici: ad esempio, le MP rilasciate dagli pneumatici delle auto o delle moto nel traffico rappresentano la principale fonte di esposizione alle microplastiche negli ambienti esterni; le fibre di MP dei tessuti, invece, costituiscono la principale fonte di esposizione negli ambienti chiusi.
Anche le padelle antiaderenti se rovinate possono rilasciare fino a 2 milioni di microplastiche
Uno studio dimostra che le padelle antiaderenti in teflon, quando rovinate, potrebbero arrivare a rilasciare fino a 2 milioni di microplastiche dannose per la salute. Il lavoro è stato condotto dai ricercatori australiani del Global Center for Environmental Remediation e del Flinders Institute of NanoScale Science and Engineering.
Secondo la ricerca, basta solo anche una crepa superficiale su una padella rivestita di teflon per produrre il rilascio di circa 9100 particelle di plastica ma in caso l’utensile sia ben più rovinato, durante un processo di cottura, si può arrivare al rilascio di 2,3 milioni di microplastiche e nanoplastiche.
La regolamentazione
Le microplastiche preoccupano a livello globale. L’Ue ha già adottato una serie di misure per limitare i danni ambientali derivanti dai rifiuti di plastica. A gennaio 2020, ad esempio, è scattato il divieto di mettere in commercio prodotti cosmetici da risciacquo ad azione esfoliante o detergente contenenti microplastiche (lo stop era stato previsto dalla Legge di Bilancio 2018).
Lo stesso vale per i prodotti di plastica monouso, la cui vendita è stata vietata a partire dal 14 gennaio 2022 (Direttiva Ue “Sup”- Single Plastica Use) e per i quali esistono sul mercato già delle alternative compostabili o biodegradabili.
Lo scorso marzo, anche l’Unea (Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha approvato un documento che impegna gli stati membri a elaborare, entro il 2024, una strategia per la gestione del ciclo vitale della plastica: dalla produzione alle politiche di riduzione.
Microplastiche: assumiamo una carta di credito a settimana
Prevenzione, Ricerca innovazioneLe microplastiche non inquinano soltanto i mari creando enormi danni all’ecosistema. I minuscoli frammenti possono finire nel sangue e, di conseguenza, circolare nell’organismo umano. Di alcuni mesi fa è il ritrovamento di microplastiche nei polmoni di persone viventi e nel sangue umano. Ogni settimana un individuo ingerisce in media 5 grammi di microplastiche, l’equivalente di una carta di credito. I rischi per la salute sono già emersi dai primi studi.
Microplastiche nell’aria che si respira
Alcuni anni fa, quando le microplastiche hanno iniziato ad apparire nell’intestino di pesci e crostacei, i timori si sono concentrati sulla sicurezza dei prodotti ittici, in particolare, dei frutti di mare, poiché consumati interi (compresi stomaco). In realtà, la plastica si scompone continuamente nell’ambiente. Con il tempo si disgrega in fibre minuscole, particelle così piccole da fluttuare nell’aria ed entrare nelle vie respiratorie.
In altre parole, non è sufficiente non mangiare frutti di mare per non entrarne in contatto. Un team dell’Università di Plymouth nel Regno Unito lo ha dimostrato. Gli studiosi hanno deciso di mettere a confronto il pericolo derivante dal mangiare cozze selvatiche contaminate in Scozia con il respirare l’aria in una normale abitazione. I risultati dimostrano che, durante una cena a base di cozze, le persone assorbono più plastica inalando o ingerendo minuscole fibre plastiche invisibili che si librano nell’aria circostante – fibre provenienti da vestiti, tappeti e tappezzeria – rispetto a quella contenuta nelle cozze stesse.
Microplastiche nei polmoni
La scorsa primavera alcuni scienziati di Paesi Bassi e Regno Unito hanno ritrovato particelle di plastica in esseri umani viventi. Si tratta di due punti dove non erano mai state viste prima: in profondità nei polmoni di un paziente sottoposto a intervento chirurgico e nel sangue di donatori anonimi.
Questi due studi non esauriscono la questione dei danni, ma entrambi dimostravano come non si possa più ignorare l’entità della nube di polveri volatili, particelle così piccole da riuscire a penetrare in profondità nel corpo e addirittura nelle cellule, dove le microplastiche più grandi non arrivano.
Dick Vethaak, professore emerito di ecotossicologia presso la Vrije Universiteit di Amsterdam e co-autore dello studio sul sangue, ha spiegato che viamo in un mondo pieno di particelle – alludendo a polvere, pollini e particolato – che vengono respirate ogni giorno. Tuttavia, è importante capire in che quota la plastica contribuisce al carico di particelle e che cosa implica.
Microplastiche nel sangue
Lo studio olandese ha trovato frammenti di pet, polistirene e altri composti all’interno dell’organismo. La scoperta è dei ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam guidati dall’ecotossicologa Heather Leslie e dalla chimica Marja Lamoree, nell’ambito del progetto “Immunoplast”. I risultati sono pubblicati sulla rivista internazionale Environment International. “Questo studio pionieristico di biomonitoraggio umano ha dimostrato che le particelle di plastica sono biodisponibili per essere assorbite nel flusso sanguigno umano”, spiegano i ricercatori.
In tre quarti dei 22 campioni esaminati il materiale risultato più abbondante è il Pet (Polietilene tereftalato) con cui sono fatte le bottiglie di platica. Ne è stata misurata una quantità di 1,6 microgrammi per millilitro di sangue. Non solo, oltre al Pet sono state trovate tracce del polistirene utilizzato negli imballaggi. Al terzo posto come concentrazioni risulta il polimetilmetacrilato, più conosciuto come plexiglas.
Solo in futuro e grazie a nuovi dati sarà possibile stabilire in quale entità l’esposizione alle microplastiche costituisca una minaccia per la salute. Tra i tanti quesiti, gli scienziati cercano di capire come vengono trasportate le particelle di plastica presenti nel plasma. Se le particelle di plastica presenti nel flusso sanguigno sono effettivamente trasportate dalle cellule immunitarie, tra le domande che gli scienziati si pongono è se queste esposizioni possano potenzialmente influenzare la regolazione immunitaria o la predisposizione a malattie a base immunologica.
Danni, difficili da quantificare
Le microplastiche oggi si trovano ovunque: nel sale, nella birra, nella frutta e verdura fresca e nell’acqua potabile. Le particelle volatili possono raggiungere l’altra parte della terra in poco tempo. I numeri stimati sul volume di microplastiche presenti nell’oceano si sono moltiplicati nel tempo e ogni anno tonnellate di rifiuti plastici finiscono in mare e si disgregano.
Nell’ultimo conteggio, risalente all’anno scorso, gli scienziati giapponesi dell’Università di Kyushu hanno stimato la presenza di 24.400 miliardi di frammenti di microplastiche negli strati più superficiali degli oceani, l’equivalente di circa 30 miliardi di bottiglie da mezzo litro – un numero da capogiro. Stabilire la portata dei danni delle microplastiche a livello umano è difficile. La plastica è composta da una complessa combinazione di sostanze chimiche, tra cui gli additivi che conferiscono resistenza e flessibilità. Sia la plastica che gli additivi chimici possono essere tossici.
Additivi, tra gli indiziati
Non solo le microplastiche, anche gli additivi possono riversarsi nelle acque, fino all’88%, come dimostra uno studio. La percentuale dipende da diversi fattori, tra cui la luce del sole e la durata di tempo. Lo stesso studio ha riscontrato 8.681 sostanze chimiche e additivi associati a un unico prodotto in plastica.
Trattandosi di un insieme così complesso, capire quali combinazioni chimiche possano essere più dannose di altre è molto difficile. “Sì può individuare una correlazione, ma è difficile trovare un rapporto di causa-effetto, considerando il gran numero di sostanze chimiche a cui siamo esposti quotidianamente”, spiega Denise Hardesty, scienziata che da 15 anni studia i rifiuti plastici presso la Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization in Australia.
Un mare di plastica
367 milioni di tonnellate di plastica sono state prodotte solo nel 2020, una quantità destinata a triplicarsi entro il 2050. Secondo gli scienziati sarà molto difficile fare marcia indietro in caso di necessità. Janice Brahney, esperta di biochimica presso la Utah State University, nel 2020 stimava che entro il 2025 nell’ambiente si accumuleranno 11 miliardi di tonnellate di plastica (Brahney ha calcolato che ogni anno nei soli Stati Uniti occidentali vengono portate dal vento e ricadono dal cielo oltre 1.000 tonnellate di minuscole particelle).
I dati della sua ricerca, pubblicati su Science, hanno avuto molta risonanza mediatica, tanto che l’American Chemical Council (ACC), un’associazione di categoria, è intervenuta criticando quei numeri. Secondo l’ACC la quantità di microplastiche presenti nell’ambiente rappresenta solo una minima parte, il restante è composto da materiali naturali come minerali, sporco e sabbia, parti di insetti, pollini e altro ancora. Nel frattempo, l’associazione ha dichiarato di aver lanciato un programma di ricerca per contribuire a rispondere alle domande sulle microplastiche – anche domestiche – e aiutare a creare una rete globale tra università, istituti di ricerca e industria.
La plastica nell’uomo. La questione del danno
Misurare i possibili effetti nocivi della plastica sull’uomo è ancora più difficile che negli animali. Gli scienziati nel frattempo vanno avanti e solo il tempo potrà fare chiarezza sull’impatto delle microplastiche.
Le ricerche stanno analizzando le tossine rinvenute nelle materie plastiche e le malattie polmonari – dall’asma alla broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), fino al cancro – che uccidono milioni di persone ogni anno e sono state collegate all’esposizione ad altre sostanze inquinanti. La BPCO, causata da un’infiammazione cronica, è la quarta principale causa di morte negli Stati Uniti, come riporta l’American Lung Association nel suo ultimo report.
A partire dalla Rivoluzione industriale vengono inalate una vasta gamma di particelle estranee ogni giorno. L’organismo umano cerca di espellerle da solo. Le particelle più grandi, nelle vie aeree superiori in genere vengono espulse con i colpi di tosse, e più in basso, lungo l’apparato respiratorio, le particelle vengono avvolte dal muco che le porta verso l’alto nelle vie aeree superiori, per essere espulse. Le particelle restanti vengono circondate dalle cellule immunitarie per essere isolate. Nel corso del tempo, queste particelle possono provocare un’irritazione e scatenare sintomi a cascata che vanno dall’infiammazione all’infezione, fino al cancro. Oppure, possono rimanere presenti, senza dare effetti.
Potrebbero anche veicolare sostanze pericolose
I rischi per l’uomo derivanti dalle microplastiche (MP) possono essere di natura fisica, chimica o microbiologica. I rischi fisici sono dovuti alle ridotte dimensioni delle MP che possono attraversare le barriere biologiche – come la barriera intestinale, ematoencefalica, testicolare e persino la placenta – e causare danni diretti, in particolare all’apparato respiratorio e all’apparato digerente.
I rischi chimici derivano dalla presenza di contaminanti, come i plasticizzanti (ftalati, bisfenolo A) o i contaminanti persistenti (ritardanti di fiamma bromurati, idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili) presenti nelle microplastiche. Infatti, le MP possono essere veicolo di sostanze potenzialmente pericolose di natura organica oppure inorganica. Attualmente esistono pochi dati sulla presenza e concentrazione di metalli nelle MP e sui contaminanti ad esse associati. Molti di essi, essendo interferenti endocrini, possono provocare danni a carico del sistema endocrino, causare problemi alla sfera riproduttiva e al metabolismo sia nei figli di genitori che sono stati esposti alle microplastiche durante la gravidanza, sia in età adulta a seguito di esposizione nelle prime fasi di vita (neonatale, infanzia, pubertà).
Le MP possono trasportare, attaccati alla loro superficie, microrganismi in grado di causare malattie: batteri come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia sono stati rilevati in MP raccolte al largo delle coste del Belgio.
Le microplastiche nel tratto gastrointestinale
Esistono pochi dati sul destino delle MP nel tratto gastrointestinale. I dati disponibili riguardano esclusivamente assorbimento e distribuzione ma non sono ancora noti processi di trasformazione (metabolici) e di eliminazione. Solo MP più piccole, di dimensione inferiore a 150 micrometri sembra possano attraversare la barriera intestinale, sebbene l’assorbimento sia comunque considerato molto basso (inferiore o uguale allo 0,3%). Il passaggio ad altri organi sembra possa avvenire sono per una frazione limitata, di dimensioni inferiori a 1,5 micrometri.
Tuttavia, studi sperimentali hanno dimostrato che, una volta assorbite, le MP si accumulano in fegato, reni e intestino con la capacità di provocare stress ossidativo, problemi metabolici, processi infiammatori, nonché danni ai sistemi immunitario e neurologico. Infine, nella valutazione degli effetti negativi delle MP occorre tener conto della presenza delle sostanze chimiche in esse presenti o attaccate alla loro superficie, il cui rilascio nell’organismo rappresenta un potenziale rischio per la salute, e di eventuali organismi patogeni.
I cibi che contengono più plastica
le microplastiche, essendo troppo piccole per poter essere trattenute dai sistemi di filtrazione e depurazione delle acque reflue, vengono rilasciate nell’ambiente marino, contribuendo al suo inquinamento. La contaminazione ambientale riguarda anche le acque dolci, i sedimenti, il terreno e l’aria. Diversi studi suggeriscono che il loro inquinamento può essere anche maggiore rispetto a quello dei mari.
La popolazione, quindi, è esposta alle microplastiche attraverso l’ambiente (per esempio con l’inalazione di microplastiche presenti in aria) ma anche attraverso il consumo di cibi o all’utilizzo di tessuti o cosmetici, in essi contenuti. Il documento dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) sulle microplastiche (MP) presenti negli alimenti riporta la loro concentrazione riscontrata in:
Sulla base di questi dati, EFSA ha effettuato una stima dell’esposizione umana alle microplastiche considerando il consumo di una porzione da 225 grammi di cozze (poiché le cozze sono consumate senza la rimozione dei visceri) e usando la più alta concentrazione di microplastiche rilevata nei molluschi. In tal modo si è calcolata un’ingestione di 900 pezzi di MP.
Non solo pesce e frutti di mare
Le MP sono state riscontrate anche in altri alimenti:
Dati sperimentali sugli organismi marini hanno evidenziato che le MP possono essere trasferite a vari livelli: ad esempio, le farine di pesce vengono utilizzate in zootecnia per produrre mangimi destinati al pollame e ai suini, contribuendo alla diffusione delle MP anche in alimenti di origine non marina.
Anche le confezioni alimentari e l’uso di stoviglie in plastica (piatti, forchette, ecc.) possono rappresentare sorgenti di esposizione alle microplastiche. Le MP presenti nell’aria derivano dalla sospensione delle microplastiche presenti nelle acque o nei terreni, dall’abrasione dei materiali o dei tessuti sintetici: ad esempio, le MP rilasciate dagli pneumatici delle auto o delle moto nel traffico rappresentano la principale fonte di esposizione alle microplastiche negli ambienti esterni; le fibre di MP dei tessuti, invece, costituiscono la principale fonte di esposizione negli ambienti chiusi.
Anche le padelle antiaderenti se rovinate possono rilasciare fino a 2 milioni di microplastiche
Uno studio dimostra che le padelle antiaderenti in teflon, quando rovinate, potrebbero arrivare a rilasciare fino a 2 milioni di microplastiche dannose per la salute. Il lavoro è stato condotto dai ricercatori australiani del Global Center for Environmental Remediation e del Flinders Institute of NanoScale Science and Engineering.
Secondo la ricerca, basta solo anche una crepa superficiale su una padella rivestita di teflon per produrre il rilascio di circa 9100 particelle di plastica ma in caso l’utensile sia ben più rovinato, durante un processo di cottura, si può arrivare al rilascio di 2,3 milioni di microplastiche e nanoplastiche.
La regolamentazione
Le microplastiche preoccupano a livello globale. L’Ue ha già adottato una serie di misure per limitare i danni ambientali derivanti dai rifiuti di plastica. A gennaio 2020, ad esempio, è scattato il divieto di mettere in commercio prodotti cosmetici da risciacquo ad azione esfoliante o detergente contenenti microplastiche (lo stop era stato previsto dalla Legge di Bilancio 2018).
Lo stesso vale per i prodotti di plastica monouso, la cui vendita è stata vietata a partire dal 14 gennaio 2022 (Direttiva Ue “Sup”- Single Plastica Use) e per i quali esistono sul mercato già delle alternative compostabili o biodegradabili.
Lo scorso marzo, anche l’Unea (Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha approvato un documento che impegna gli stati membri a elaborare, entro il 2024, una strategia per la gestione del ciclo vitale della plastica: dalla produzione alle politiche di riduzione.
Salute neonatale: in Italia natimortalità sotto media Ue ma più cesarei
News PresaIn Italia nel 2019 il tasso di natimortalità e quello di mortalità neonatale sono inferiori alla media europea. Il tasso di natimortalità rappresenta il rapporto tra il numero di nati morti e il totale dei nati vivi e morti. La mortalità neonatale, invece, è il rapporto tra il numero di neonati morti entro i 28 giorni dalla nascita e il totale dei nati vivi. Il nostro paese, però, registra un numero di cesarei e di parti pretermine superiore a quello medio del continente. I dati emergono dal nuovo rapporto Euro Peristat, giunto alla sua quinta edizione e pubblicato oggi.
Il monitoraggio dei paesi europei
Il documento, coordinato dall’INSERM di Parigi e che vede il contributo per l’Italia di Iss, Istat, Ministero della Salute e Ospedale Bambino Gesù di Roma, ha monitorato dal 2015 al 2019 nove indicatori sulla salute materno-infantile in Europa. Tutti i paesi europei condividono standard di vita e sistemi sanitari avanzati, ecco perché la rilevazione di differenze tra gli indicatori che descrivono la salute perinatale può essere uno strumento per ottimizzare la salute di madri e neonati.
I dati principali sulla salute neonatale
La natimortalità nel 2019 era pari a 2,7 nati morti ogni 1000 nati a partire da 24 settimane di gravidanza in Italia, contro 3,2 della mediana europea (dall’1,8 dell’Estonia al 4,7/1000 di Cipro). Dal 2015 al 2019 il tasso nel nostro paese è sceso da 3,0 a 2,7 morti per 1000 nati e a livello europeo il decremento complessivo è stato contenuto ed è stimato pari a una riduzione di un punto percentuale annuo.
La mortalità neonatale in Italia nel 2019 era pari a 1,7 morti ogni 1000 nati vivi a partire da 22 settimane di gravidanza contro 2,1 della mediana europea. Il valore più basso era in Islanda (0,5/1000) e il più alto a Malta (4,3/1000). La diminuzione complessiva a livello europeo è stata inferiore rispetto a quella riportata nei rapporti precedenti.
La mortalità infantile in Italia nel 2019 era pari a 2,6 morti nel primo anno di vita ogni 1000 nati vivi, rispetto a 3,1 del 2015. Nel 2019 il range tra i Paesi europei era compreso tra 0,9/1000 in Estonia e 3,8/1000 in Croazia e Ungheria.
In Italia la percentuale più alta di madri oltre i 35 anni
L’età materna avanzata al parto presenta forti variazioni a livello europeo, sia tra paesi che nel corso del tempo. Insieme a Spagna e Irlanda, nel 2019 l’Italia era il paese con la percentuale più alta di madri oltre i 35 anni (34,4% rispetto al 33,4% del 2015) e oltre i 40 anni di età (8,8%). Al contrario, la proporzione di donne sotto i 20 anni di età al parto nel quinquennio in esame è diminuita in Europa, salvo che per Cipro, Malta e Slovenia. In Italia la percentuale è scesa dall’1,7% del 2015 all’1,4% nel 2019.
La parità descrive il numero e l’esito delle precedenti gravidanze. A livello europeo le donne alla prima gravidanza presentano un andamento complessivamente stabile o in leggera diminuzione con percentuali comprese tra il 31,2% dell’Irlanda del Nord e il 53,3% di Malta. In Italia la percentuale di donne che partoriscono per la prima volta un nato vivo o morto è passata dal 52.7% del 2015 al 50.7% nel 2019.
Le gravidanze multiple nel 2019 erano lo 1,63% del totale dei nati italiani, in analogia al valore mediano europeo pari allo 1,60%, con un range compreso tra lo 1,20% della Slovacchia e il 2,38% di Cipro. Nella maggioranza dei Paesi europei dal 2015 al 2019 il tasso di gravidanze gemellari è diminuito passando da 1,74% a 1,63%.
Nati prematuri e parti cesarei
Le nascite prima del termine nel 2019 riguardavano il 7,5% dei nati in Italia (lo 0,9% tra 22 e 31 settimane di gestazione e il 6,4% tra 32 e 37 settimane), con una diminuzione di un punto percentuale rispetto al 2015. Il tasso mediano europeo era 6,9% (5,3% in Finlandia e Lituania, 11,3% a Cipro). Nello stesso anno i neonati di peso inferiore ai 2500 grammi rilevati in Italia erano il 7,1% del totale, contro valori inferiori al 4,5% registrati nei paesi del nord Europa. Per entrambi gli indicatori dal 2015 al 2019 si è rilevato un decremento nella maggioranza dei paesi europei.
Il tasso mediano di cesarei nel 2019 in Europa era pari al 26% con una forte variabilità compresa tra il 16,4% della Norvegia e il 53,1% di Cipro e con tassi sistematicamente inferiori nei paesi del Nord Europa. In Italia la percentuale era pari al 33% di cui 12,3% programmati e 20,7% eseguiti in emergenza. Nonostante il tasso italiano sia tra i più alti in Europa, dal 2015 al 2019 la percentuale di cesarei è scesa dal 36,5% al 33,0%.
Il rapporto Euro Peristat per migliorare la salute neonatale
Il network Euro Peristat si avvale dei dati forniti dalla rete di referenti attiva in 27 Stati membri della Ue più Islanda, Norvegia, Svizzera e Regno Unito. Il nuovo rapporto descrive tre indicatori di mortalità (natimortalità, mortalità neonatale e infantile), due che descrivono il peso alla nascita e l’età gestazionale, tre sulle caratteristiche di popolazione (gravidanze multiple, età e parità materna) e la modalità del parto. La mortalità materna, che fa parte dei dieci indicatori core di Euro Peristat, non è stata inclusa in questo rapporto a causa dell’adozione di un nuovo sistema di rilevazione che, pur favorendo una migliore armonizzazione e una raccolta più rapida dei dati, non consente di rilevare eventi rari come le morti materne. Nel documento vengono pertanto presentati 9 dei 10 indicatori con cui Euro Peristat monitora la salute dei neonati e delle loro mamme in Europa. Grazie alla definizione di criteri d’inclusione standardizzati e a un controllo dei dati forniti dalla rete dei Paesi partecipanti, è stato possibile calcolare indicatori di alta qualità comparabili sia tra gli Stati partecipanti sia nel tempo. Per la prima volta sono stati, infatti, pubblicati dati che descrivono l’andamento degli indicatori durante un quinquennio di osservazione, dal 2015 al 2019.
Tumore al seno: un vaccino ha superato i primi test clinici
Prevenzione, Ricerca innovazioneIl vaccino a dna contro il tumore al seno è “molto sicuro” nel generare una forte risposta immunitaria antitumorale. Un lavoro sperimentale ha dato promettenti risultati preliminari e ora si passa alla fase 2 per testarne l’efficacia.
Nuova speranza nella lotta al tumore al seno
Si tratta di un vaccino sperimentale che ha appena superato i primi trial di fase 1 sull’essere umano. I risultati, però, lasciano ben sperare. Si è, infatti, dimostrato “molto sicuro” nel generare una forte risposta immunitaria antitumorale. Lo studio è stato appena pubblicato su Jama Oncology dai ricercatori della University of Washington School of Medicine. Secondo gli scienziati, il vaccino sperimentale può essere utilizzato per trattare diversi tipi di tumore al seno e può aprire la strada a uno studio clinico di fase 2 ancora più ampio per testarne l’efficacia.
Cosa si intende per studio di fase 1
Uno studio di fase 1 è un trial progettato per valutare la sicurezza di un farmaco. In questo lavoro, i ricercatori volevano scoprire se il vaccino sperimentale fosse in grado di prendere di mira una proteina chiamata recettore 2 del fattore di crescita epidermico umano, Her2, generando una risposta immunitaria a quest’ultima. Her2 si trova sulla superficie di molte cellule, in ben il 30% dei tumori al seno risulta sovra-prodotta fino a cento volte rispetto alla quantità normale. Da qui nasce il nome dei tumore “Her2-positivi” che spesso sono anche i più aggressivi e con più rischio di recidive.
Come agisce il vaccino per stimolare la risposta immunitaria
La sovrapproduzione di Her2, però, innesca anche una reazione immunitaria benefica. Le pazienti che sviluppano un tipo di risposta immunitaria chiamata immunità citotossica, infatti, hanno meno probabilità di sviluppare recidive dopo il trattamento. Inoltre, hanno una sopravvivenza più lunga. Per stimolare questa reazione immunitaria, i ricercatori hanno progettato un vaccino a dna che contiene le istruzioni per una parte dell’Her2 nota per provocare risposte immunitaria citotossiche più forti. A differenza dei vaccini proteici che contengono una parte o tutta la proteina che si vuole far prendere di mira dal sistema immunitario, i vaccini a dna contengono le istruzioni del dna per la proteina bersaglio. Dopo essere stato iniettato, il dna viene assorbito dalle cellule che iniziano a produrre la proteina codificata nelle istruzioni e successivamente la presentano al sistema immunitario per generare così una risposta immunitaria citotossica.
Come è stato realizzato lo studio
Lo studio ha coinvolto 66 donne con tumore al seno metastatico che avevano portato a termine un ciclo di terapia standard, raggiungendo una remissione completa. Le pazienti sono state suddivise in tre gruppi: al primo gruppo è stato iniettato un basso dosaggio del vaccino, al secondo una dose intermedia e al terzo un dosaggio elevato. Le partecipanti sono state poi monitorate con un follow-up medio di quasi 10 anni per osservare che il vaccino non innescasse una risposta autoimmune contro altri tessuti sani. “I risultati hanno mostrato che il vaccino era molto sicuro”, commentano gli autori. Gli effetti collaterali più comuni, osservati in circa la metà delle pazienti, erano molto simili a quelli dei vaccini anti Covid, con arrossamento e gonfiore al sito di iniezione, febbre, brividi e sintomi simil-influenzali.
I risultati del vaccino contro il tumore al seno
In conclusione, il vaccino ha generato la risposta immunitaria citotossica desiderata senza innescare gravi effetti collaterali (con una risposta più forte nei pazienti che hanno ricevuto la dose media). Ad oggi solo il 50% circa dei pazienti con carcinoma mammario Her2 avanzato riesce a sopravvivere per più di cinque anni. Anche se lo studio non nasce per analizzare l’efficacia del vaccino, i risultati sono sorprendenti e aprono a nuove strade. Le partecipanti allo studio sono seguite da dieci anni e l’80% di loro è ancora vivo, sottolineano i ricercatori.
Una nuova tecnica può analizzare le cellule in 3D
Ricerca innovazioneC’è fermento nella comunità scientifica per le nuove scoperte scientifiche che stanno portando a importanti passi in avanti nella lotta al cancro. Ultima in ordine di tempo, una tecnica che consente di fare una TAC ad ogni singola cellula. Ora sarà possibile distinguere le sane dalle malate e riducendo il margine di errore nell’interpretazione umana dei dati. Si tratta di una “tomografia olografica a flusso” e potrebbe determinare una svolta molto significativa nella diagnosi precoce dei tumori e nella sperimentazione di nuovi farmaci per uso terapeutico. Questa rivoluzionaria tecnica è frutto di uno studio internazionale guidato da ricercatori italiani dell’Istituto di scienze applicate e sistemi intelligenti “E. Caianiello” (Isasi) del Consiglio nazionale delle ricerche, dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II” e del CEINGE – Biotecnologie Avanzate.
IN 3 DIMESIONI
I risultati della ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica di alto impatto Nature Photonics (Springer Nature Group) hanno rivelato la possibilità di identificare, visualizzare e misurare in 3D il nucleo di singole cellule tumorali con l’utilizzo di tecniche avanzate di microscopia senza l’utilizzo di coloranti chimici aprendo così strade completamente nuove per gli studi di biologia cellulare. Questo si pensa potrà aprire la strada ad applicazioni, in futuro, nella clinica delle malattie dovute ad alterazioni molecolari.
BIOPSIA LIQUIDA
«L’applicazione più promettente è la biopsia liquida, l’indagine meno invasiva attualmente praticabile, che mira alla diagnosi precoce dei tumori e alla definizione di terapie oncologiche personalizzate», spiega Achille Iolascon, professore di Genetica Medica della Federico II e Principal Investigator CEINGE assieme a Mario Capasso. «La metodica di identificazione di singole cellule tumorali messa a punto in questo studio apre la possibilità di attivare nuove linee di ricerca per sviluppare tecniche in grado di monitorare ed estrarre le cellule tumorali che circolano nel sangue del paziente».
Giornata Mondiale diabete: 1 mln di persone non sanno di averlo
News PresaNel nostro Paese, il diabete interessa circa 4 milioni di persone e oltre 1 milione non sa di averlo. La Società Italiana di Diabetologia (SID)e l’Associazione Medici Diabetologici (AMD) lanciano il progetto “Il Diabete una malattia molto Comune”. L’obiettivo è fare luce sul tema dell’accesso equo e capillare alle cure sul territorio. Inoltre, promuovere una maggiore consapevolezza sull’importanza della prevenzione e della diagnosi precoce a livello nazionale, ma soprattutto territoriale. Ci sono, infatti, aree in cui si registrano i più alti tassi di prevalenza della malattia e delle sue complicanze, vale a dire le periferie dei grandi centri urbani e altre aree del Paese, in cui, generalmente, risiedono fasce di popolazione socio-economicamente più svantaggiate per istruzione o condizioni economiche.
Il progetto è stato presentato oggi presso la sede dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (ANCI) a Roma in occasione dell’evento AMD-SID “Diabete e accesso alle cure: se non ora quando?”. È realizzato per la Giornata Mondiale del Diabete, che si celebra oggi. Nasce dalla consapevolezza di quanto questa malattia sia una priorità sanitaria e dalla mobilitazione della nascente Federazione delle Società Diabetologiche Italiane (SID-AMD) che avrà l’obiettivo di parlare alle Istituzioni – nazionali e internazionali – con voce univoca e più forte.
La campagna AMD-SID mira ad ampliare le conoscenze sul diabete per gli operatori sanitari, per cittadini che convivono con la patologia e per le Istituzioni. Richiamare l’attenzione della politica su questa malattia, che detiene il triste primato di incremento dal 1990 ad oggi, è anche il motivo delle attività propositive messe finora in atto: dal patto di legislatura, indirizzato alla vigilia delle ultime elezioni legislative a tutte le forze politiche, alla lettera appena inviata al Ministro della Salute Schillaci e al Sottosegretario alla Salute Gemmato.
Il progetto annuale, il cui risultato sarà presentato in occasione della giornata del diabete 2023, parte dal tema proposto dall’IDF sull’accesso alle cure per arrivare alla necessità di estendere in Italia l’assistenza specialistica e le cure a tutte le persone con diabete. Ad oggi siamo fermi al 30%. Per ridurre questo divario è necessario rendere i cittadini consapevoli, sensibilizzarli alla prevenzione del diabete e a rivolgersi tempestivamente al proprio medico.
Il progetto si strutturerà per portare avanti campagne di prevenzione e screening itinerante AMD-SID sul territorio e nelle periferie, con il coinvolgimento delle farmacie; workshop in sedi istituzionali nelle diverse regioni e in Parlamento per sensibilizzare i decisori politici sui temi più importanti legati al diabete, quali ad esempio la prevenzione, il rischio cardiovascolare, l’obesità, la depressione e stress, l’attività fisica e la lotta alla sedentarietà, il diabete nel contesto sociale, l’assistenza, i costi delle cure.
“La giornata mondiale del diabete – osserva Angelo Avogaro, Presidente della Società Italiana di Diabetologia SID – vuole indicare non solo ai decisori, ma anche ai cittadini, la grande importanza della prevenzione nel ridurre l’incidenza della malattia diabetica e di come si può prevenire morbidità e mortalità legate a questa patologia. Si vuole inoltre ribadire l’importanza della prevenzione nel mantenere il cittadino in buona salute: è di questa che abbiamo bisogno per ridurre le cure e i costi relativi”.
“Il diabete, per alcuni aspetti, è una malattia legata a barriere socio-economiche che, inevitabilemente, hanno delle ripercussioni sullo stile di vita e sulla cura di sé” – commenta Graziano Di Cianni, Presidente dell’Associaizione Medici Diabetologi AMD. “Nelle periferie e nelle aree più disagiate, infatti, il diabete risulta essere più frequente. L’obiettivo di AMD e SID è arrivare proprio qui, sviluppando, in sinergia con gli attori coinvolti sul territorio, come direttori generali, farmacisti, psicologi e infermieri, e con le istituzioni locali, iniziative per la promozione di campagne di screening, informazione e sensibilizzazione attraverso cui far conoscere il diabete e, al contempo, offrire spunti in sede istituzionale per una migliore gestione della malattia”.
“Il diabete è una malattia cronica che ha gravi ripercussioni sulla qualità della vita di chi ne è affetto, portando spesso allo sviluppo di ulteriori complicanze e incidendo significativamente sull’economia del Paese: oggi sindaci e amministratori locali possono fare molto, attraverso una pianificazione dei territori più salutogenica e politiche pubbliche in grado di rafforzare servizi pubblici di prossimità e promuovere stili di vita sani. – aggiungono Enzo Bianco, Presidente Consiglio Nazionale ANCI eRoberto Pella, Vicepresidente vicario ANCI e Presidente Intergruppo parlamentare ‘Qualità di vita nelle città’. “Per questa ragione siamo lieti di ospitare, nella casa dei comuni italiani, la Giornata Mondiale del Diabete 2022 e di affiancare SID e AMD durante questa pregevole iniziativa, su tutto il territorio nazionale, dedicata alla sensibilizzaizone e alla prevenzione.”
Diabete e paura degli aghi: i consigli dell’esperta
News PresaUn recente studio ha analizzato i comportamenti di pazienti con malattie croniche, confermando un forte disagio verso gli aghi che colpisce fino al 43% i pazienti con diabete.
“I dati emersi dallo studio evidenziano quanto il paziente oltre a dover accettare la malattia cronica e le ripercussioni sullo stile di vita, deve anche convivere con la paura e il disagio conseguente alla terapia di cui non può fare a meno. La paura che i miei pazienti riportano – spiega Laura NOLLINO, Diabetologa c/o Unità Operativa Complessa di Malattie Endocrine del Ricambio della Nutrizione, Ospedale Cà Foncello di Treviso – non è associata al dolore provocato dall’ago, ma piuttosto alla paura stessa di sentire dolore e all’azione che rievoca il fatto di avere il diabete”.
Diabete e paura degli aghi
Nella review, oltre al diabete, sono state incluse altre malattie croniche che richiedono trattamenti salvavita quali ad esempio l’insufficienza renale cronica in dialisi. Lo studio sottolinea quanto la paura dell’ago sia un problema rilevante nelle malattie croniche e quanto sia indispensabile identificare i fattori che vi sono all’origine per lo sviluppo di trattamenti e soluzioni efficaci.
“Come per tutte le fobie, è utile rivolgersi ad un esperto psicoterapeuta soprattutto quando la paura è invalidante per il successo delle terapie farmacologiche. Parlare del problema serve a circoscriverlo, definirlo e razionalizzarlo. Spesso il paziente sa che la sua paura è immotivata, sproporzionata all’evento – spiega NOLLINO – ma non sa come gestirla. La terapia cognitivo comportamentale rappresenta un valido rimedio per le fobie perché attraverso alcune tecniche permette di vincere la paura”.
Come superare la paura
Si stima che circa il 10% delle persone sia agofobica con una sintomatologia che va dalla tachicardia, alle vertigini e nausea fino allo svenimento. C’è chi teme il dolore in seguito all’iniezione, chi ha paura della dimensione dell’ago o come conseguenza di un episodio negativo dopo una prima iniezione difficoltosa. Può manifestarsi per un prelievo di sangue, una vaccinazione o la somministrazione ripetuta di un farmaco, proprio come avviene nel caso di una malattia cronica come il diabete.
“E’ come se il gesto quotidiano dell’iniezione o del pungidito, risvegliasse nel paziente problematiche più sommerse e mai indagate, soprattutto per via della frequenza dell’uso degli aghi che si ripete almeno 8-10 volte al giorno e fino a 3mila volte all’ anno per una persona con diabete tipo 1. Una resistenza psicologica che può rappresentare uno dei fattori che concorrono alla riduzione dell’aderenza alla terapia e quindi alla buona riuscita del trattamento del diabete. Ci sono anche piccoli accorgimenti – continua NOLLINO – che aiutano a distrarre il paziente che si dimostra spaventato. Un esempio è quello di procedere alle rilevazioni della glicemia in modo rapido, scegliendo la profondità di puntura più confortevole in base al proprio spessore della pelle. In alcuni casi può essere utile pungere il polpastrello lateralmente o applicare lozioni emollienti che possono aiutare le zone fragili limitrofe. Per le iniezioni di insulina, invece, è altrettanto importante andare a colpo sicuro con aghi sottocutanei di lunghezza minima, cambiandoli a ogni iniezione per evitare microlesioni e cambiando sempre la zona del corpo dove inserire l’ago”.
Gestire il diabete senza aghi
La tecnologia, sempre più “intelligente”, può sostituire il sistema manuale degli aghi sia per la misurazione della glicemia sia per l’infusione di insulina. Il sistema più avanzato di monitoraggio è quello che misura in continuo i valori della glicemia ogni 5 minuti e che può annunciare con anticipo – senza stress per il paziente – quando è necessario intervenire sulla terapia (Dexcom G6).
A sostituire invece le iniezioni con le penne di insulina, sono stati progettati pratici e affidabili microinfusori patch (Omnipod) per la somministrazione di insulina, contribuendo a una gestione consapevole della malattia.
“Si è notevolmente evoluta la tecnologia per la gestione del diabete, basti pensare al POD che dura 3 giorni e che eroga per via sottocutanea l’insulina o al device per il monitoraggio in continuo della glicemia (CGM) che segnala la percentuale di tempo trascorso all’interno dell’intervallo glicemico. Avere queste informazioni in tempo reale, anche attraverso smartphone e smartwatch – conclude NOLLINO – significa avere la costante consapevolezza sui propri livelli glicemici e sapere come intervenire in anticipo e nel rispetto della privacy. Il nostro impegno è anche quello di contribuire a migliorare la qualità di vita dei nostri pazienti e microinfusori e sensori possono fare la differenza”.
Lo stretto legame fra nutrizione e salute. Presentata NEC
AlimentazioneUno spazio dedicato agli addetti ai lavori che raccoglie le informazioni scientifiche sul tema della nutrizione. Il tema centrale di NEC – Nutrimentum et Curae – è l’alimentazione, come strumento di cura e benessere psicofisico. La rivista medica è stata presentata oggi, 11 novembre, a Roma ed è diretta da Antonio Gasbarrini, Professore Ordinario di Medicina Interna dell’Università Cattolica, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS di Roma. Sarà diffusa online, indexata su PubMed e recensita dai principali motori di ricerca, seguendo le regole della comunicazione scientifica indipendente valutata tra pari.
L’approccio one health
“Il nostro Paese – spiega il prof. Gasbarrini – è un’eccellenza internazionale per gli straordinari prodotti agricoli e per la grande qualità della nostra cultura culinaria nel sano stile di vita, ‘Nutrimentum et Curae’ della persona”. Il confronto interdisciplinare e il miglioramento delle conoscenze su tutti gli aspetti legati all’alimentazione, al benessere e all’ambiente a 360 gradi sono ispirati alla filosofia di base “one-health”. “Un concetto unico e allargato di salute – precisa il prof. Gasbarrini – dove ricerca e attenzione sono rivolti non solo a cosa e come si nutre l’essere umano, ma anche a ciò che mangiano gli animali, l’ecosistema in cui viviamo, le modalità di coltivazione dei prodotti agricoli, l’inquinamento che impatta sui prodotti della terra e del mare”.
Lo stretto legame tra nutrizione e salute
Lo stretto legame fra alimentazione e salute è stato ribadito dal prof. Francesco Franceschi, Professore Ordinario di Medicina Interna dell’Università Cattolica, Assistant Editor di Nutrimentum et Curae. “La malnutrizione è ancora largamente diffusa nella popolazione occidentale, nonostante l’abbondanza di cibo, sia in termini di over-nutrition che under-nutrition. Mangiamo troppo, o mangiamo male: nel mondo infantile ed adolescenziale prevale, e aumenta, l’obesità; nei nostri anziani invece è assai diffusa la sarcopenia. Patologie che nascono dallo squilibrio fra quello che mangiamo e il nutrimento che servirebbe effettivamente al nostro organismo. Con Nutrimentum et Curae daremo risposte al bisogno di informare e creare consapevolezza anche sui danni alla salute e sulle malattie che possono trarre origine da una dieta sbagliata”. La rivista ha un comitato editoriale che, accanto ai medici, annovera botanici, agrari, veterinari, bioeticisti, psicologi, economisti. NEC parla direttamente anche al mondo della ricerca nell’alimentare. Gli articoli scientifici, prodotti e pubblicati in inglese, sono tradotti anche in italiano per essere fruibili da tutti. Grazie alla tecnologia, “disporrà, in parallelo alla piattaforma editoriale, di un sistema di protezione e tracciabilità dei dati scientifici basato su NFT, realizzato ad hoc”, come evidenzia Paola Lanati, presidente del Cda dello sviluppatore Rocket Social Studio.
La ricerca sulle farine
L’idea che ha dato spunto al progetto nasce da una ricerca, eseguita alcuni anni fa dal gruppo guidato dal prof. Gasbarrini. Nella macropopolazione degli ipersensibili al glutine è stata studiata la reazione ai cosiddetti “grani antichi”, varietà Senatore Cappelli. Dopo la sperimentazione clinica, è emerso come fossero davvero meglio tollerati rispetto alle farine tradizionali 00. Questa esperienza è stata testimoniata in conferenza stampa da Mauro Tonello, già presidente della Coldiretti e amministratore delegato di Sis, l’azienda dalla quale, all’epoca, prese origine la richiesta di valutare se la varietà Cappelli fosse effettivamente migliore delle altre. Grazie proprio al metodo scientifico, applicato dall’equipe medica e di ricerca del prof. Gasbarrini, sono stati raggiunti risultati che hanno determinato concreto beneficio. Da qui è partita anche l’iniziativa: un mezzo con cui la comunità scientifica potrà fare bene anche al mondo agroalimentare italiano. Oggi i prodotti made in Italy sono molto apprezzati ed utilizzati in tutto il mondo.
Il raffreddore non viene per il freddo. Le vere cause
News PresaIl raffreddore è un’infezione virale. In sostanza dipende dalla presenza di un virus e non dall’aver preso freddo. Un legame con quest’ultimo tuttavia esiste. Con le basse temperature, infatti, diminuisce l’attività del sistema immunitario e i virus trovano più facile accesso.
Le cause del raffreddore
Il raffreddore può essere causato da oltre 200 differenti virus, ma i più comuni sono i rhinovirus. La trasmissione è facile: basta stare a contatto con una persona raffreddata. Si tratta di una patologia virale a carico delle prime vie respiratorie che interessa in particolare naso e gola. L’infezione viene trasmessa prevalentemente per via aerea – spiega il dottor Giovanni Colombo, otorinolaringoiatra di Humanitas e responsabile di otorinolaringoiatria di Humanitas San Pio X –il virus si diffonde attraverso minuscole gocce di secreto nasale o saliva emesse attraverso tosse, starnuti o parlando. Molti virus del raffreddore resistono fino a 18 ore fuori da un organismo, quindi un ambiente può restare infetto per lungo tempo; invece, in media, una persona raffreddata è più contagiosa nei primi tre giorni in cui sviluppa la sintomatologia.
Chi è più a rischio contagio
I bambini di età inferiore ai sei anni, soprattutto se frequentano asili nido e scuole dell’infanzia, sono più a rischio di contrarre il raffreddore. Questo vale anche per le persone con un sistema immunitario fragile, per esempio per via di una malattia cronica o di un deficit del sistema immunitario anche lieve. Rischiano di contrarre più facilmente il raffreddore anche le persone che fumano.
Sintomi del raffreddore
In genere i sintomi del raffreddore si manifestano dopo pochi giorni dal contagio. I più comuni sono: naso chiuso, mal di gola, tosse, starnuti, presenza di muco, voce rauca, sensazione di malessere e stanchezza. In alcuni casi, ai sintomi si possono aggiungere febbre, mal di testa e dolori muscolari, riduzione o perdita dell’olfatto e del gusto. In alcuni casi anche irritazioni a occhi e orecchie.
In generale, spiega l’esperto, i sintomi sono più forti nei primi due o tre giorni, per poi affievolirsi e risolversi nell’arco di 7-10 giorni. La tosse può persistere per due o tre settimane. Nei bambini sotto i cinque anni, i sintomi possono rimanere fino a 14 giorni.
Raffreddore o influenza?
Influenza e raffreddore hanno sintomi simili, ma sono causate da agenti virali differenti. Nel caso dell’influenza tra i sintomi possono manifestarsi anche forti dolori muscolari ed astenia. “Il raffreddore, di solito, si risolve da solo senza particolari strascichi –spiega l’esperto. A volte, però, l’infezione può diffondersi alle basse vie aeree, alle orecchie o ai seni paranasali e causare complicazioni”. Possono insorgere: sinusiti per sovrainfezione batterica (con la presenza di secrezioni giallo-verdi); otite media, frequente nei bambini sotto i cinque anni (con mal d’orecchio e febbre alta sopra 38 °C); infezioni delle basse vie aeree come bronchiti o polmoniti con tosse persistente e mancanza di respiro.
Luoghi chiusi più a rischio
La qualità dell’aria che si respira fa la differenza. Quando fa freddo, si tende a stare molto tempo al chiuso, magari in ambienti condivisi con altre persone. Questo aumenta il rischio di contrarre malattie respiratorie. “L’aria fredda che entra dall’esterno è meno dannosa per la salute delle vie respiratorie di quella viziata che si trova all’interno – sottolinea l’esperto di Humanitas. Adenovirus e Rhinovirus, che per riprodursi hanno bisogno di temperature inferiori a quella interna dell’organismo umano (tra i 36 e i 37 °C), si diffondono attraverso l’aria e possono resistere al di fuori del corpo umano fino a 18 ore. Per prevenire il contagio è importante lavare spesso le mani e usare la mascherina in luoghi affollati. Per quanto riguarda la cura, conclude l’esperto, il riposo e l’isolamento sono i migliori rimedi per aiutare il corpo a guarire, evitando che il virus colpisca altre persone.
Crowdfunding per garantire ad ogni donna cure senza barriere
News PresaAttraverso una campagna di crowdfunding la Fondazione Foemina insieme all’associazione Habilia e all’AOU Careggi stanno cercando di acquistare strumentazioni sanitarie utili a migliorare l’accoglienza delle donne con disabilità motoria che si recano per visite, analisi, accertamenti e cure ostetrico-ginecologiche presso il Dipartimento Materno-Infantile dell’Azienda Ospedaliero Universitaria di Careggi. La campagna di raccolta fondi si chiama, non a caso, Per ogni donna – Cure senza barriere e ormai dal 28 ottobre è possibile donare sulla piattaforma Eppela a www.eppela.com/perognidonna, con la consapevolezza che acquistare lettini elettrici e sollevatori significa dare alle donne con disabilità motoria la possibilità di poter fare una visita o un accertamento come ogni altra donna.
UNO SFORZO IN PIU’
Grazie a Social Crowdfunders sesta edizione, un’iniziativa di sostegno alla raccolta fondi del terzo settore realizzata con il contributo di Fondazione CR Firenze, all’interno di Siamosolidali, in collaborazione con Feel Crowd, verrà raddoppiata la cifra raccolta se si riuscirà a raggiungere la metà dell’obiettivo prefissato sulla piattaforma, ovvero 10.000€. «In Italia persistono barriere strutturali, formative e organizzative in questo ambito e, ad oggi, non esiste una rete consultoriale che si prenda carico in modo adeguato dei bisogni della donna con disabilità – spiega la dottoressa Angelamaria Becorpi, del Dipartimento Materno Infantile AOU Careggi. – Il nostro è uno dei pochi esempi sul territorio italiano di impegno per l’attivazione di percorsi assistenziali per donne con disabilità motoria, intellettiva e sensoriale (PASS, Ambulatorio Rosa Point, ASDI). Qui sono presenti attrezzature che permettono alla donna di essere visitata, di essere sottoposta a esami quali ecografia e Pap test per una adeguata assistenza ginecologica di base e l’accesso allo screening per patologie oncologiche. Ma tutto questo non è ancora sufficiente. Se si deve pensare alla possibilità di fare ulteriori accertamenti si presentano spesso difficoltà a causa della mancanza di attrezzature nei servizi e nei reparti in cui la donna dovrebbe recarsi per visite o esami più approfonditi e ultra specialistici».
TESTIMONIAL
Il progetto, che ha già riscontrato un ampio consenso, ha anche una testimonial d’eccezione, già madrina di Fondazione Foemina: l’attrice Vittoria Puccini ha, infatti, risposto subito alla richiesta di supporto, mettendosi a disposizione per diffondere la campagna e sensibilizzare sul tema del diritto di accesso alle cure per tutti. Ha dichiarato: «Come donna e come cittadina penso che abbiamo il dovere di batterci per i diritti di tutte noi e di portare alla luce una problematica ancora troppo invisibile, impegnandoci per supportare progetti come quello della Fondazione Foemina, implementando strutture, mezzi e personale dedicato nei presidi sanitari del nostro territorio. Per garantire a tutte lo stesso diritto di essere donne». È anche possibile seguire le attività della Fondazione Foemina sul sito www.fondazionefoemina.it e sui canali Facebook e Instagram di @fondazionefoemina.
Pancreas, quali sono i casi ad alto rischio
News PresaI controlli regolari possono essere fondamentali quando si parla di cancro. Questo vale ancora di più per un tumore difficile da trattare come quello del pancreas. A confermarlo sono i risultati del programma “Cancer of Pancreas Screening-5” (CAPS-5), da poco pubblicati sulla rivista Journal of Clinical Oncology. “Il tumore del pancreas è una malattia ancora letale in molti casi e spesso viene diagnosticata in fase già avanzata, quando le terapie sono poco efficaci” spiegano gli autori, coordinati da Michael Goggins del Johns Hopkins Medical Institutions di Baltimora, negli Stati Uniti. La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi per questo tipo di tumore è particolarmente bassa. Si attesta in Italia intorno all’11 per cento per gli uomini e al 12 per cento per le donne.
Lo studio
Lo studio prospettico CAPS-5 ha coinvolto 1.461 persone ad alto rischio di sviluppare un tumore del pancreas. I partecipanti hanno seguito un programma di sorveglianza specifico. I soggetti ad alto rischio, nei programmi CAPS, sono considerati gli individui portatori di specifiche alterazioni genetiche tipiche di sindromi ereditarie (per esempio, varianti nei geni BRCA, PALB2, ATM, o diagnosi di sindrome di Lynch) e con una storia familiare di malattia. Sono ritenuti ad alto rischio anche quelli che hanno raggiunto i limiti di età stabiliti per poter entrare nel programma di controllo. Lo scopo principale dello studio CAPS-5 era comprendere se l’attività di sorveglianza influenza lo stadio in cui viene diagnosticato un eventuale adenocarcinoma duttale del pancreas (PDAC). Lo spiegano Goggins e colleghi, che hanno inoltre confrontato i nuovi dati con quelli ottenuti nelle precedenti versioni degli studi CAPS, iniziati nel 1998.
I risultati
I risultati indicano che il programma di controlli funziona piuttosto bene. “Nello studio CAPS5 sono stati diagnosticati 10 PDAC: 7 in stadio iniziale (stadio I), due in stadio III e solo uno in fase avanzata (stadio IV)” scrivono gli autori, precisando che quest’ultimo riguardava un paziente che era uscito dal programma di sorveglianza. Allargando lo sguardo ai precedenti studi CAPS, il risultato non cambia, anzi rafforza l’idea dell’importanza dei controlli per le persone ad alto rischio. Il 58 per cento dei tumori identificati nel gruppo che si sottoponeva ai controlli era in stadio I e solo il 5 per cento in stadio IV, mentre i tumori diagnosticati al di fuori del programma di sorveglianza erano in stadio IV nell’86 per cento dei casi.
Sopravvivenza dopo la diagnosi di tumore al pancreas
La sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi, per i pazienti che hanno aderito al programma di sorveglianza, è arrivata al 73 per cento. “A questo punto servono ulteriori studi per definire meglio quali strumenti di sorveglianza sia opportuno utilizzare sul lungo periodo e per valutare il ruolo di nuovi biomarcatori in fase di studio” concludono i ricercatori.