Tempo di lettura: 3 minutiLa dieta mediterranea è il simbolo universale di una sana alimentazione. Per questo nel 2010 è stata dichiarata patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO. Questo stile alimentare fa bene alla salute e abbassa il rischio di molte malattie. Non tutti i Paesi del mondo, però, hanno la possibilità di replicarla. Oltre ad abitudini e disponibilità di prodotti differenti, ci sono difficoltà oggettive, come il costo delle materie prime di importazione.
La Cattedra UNESCO di Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli ha cercato di adattare la tipica piramide alimentare della dieta mediterranea agli ingredienti disponibili in diverse parti del globo. L’obiettivo del progetto è creare una dieta “planeterranea”.
“Nonostante il ruolo chiave della dieta mediterranea per la prevenzione e la gestione delle malattie croniche non trasmissibili, non è facile traslare questo modello alimentare in altre popolazioni” scrivono gli autori dello studio “Planeterranea” in un articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in nutrition. “Appare perciò più credibile, e anche desiderabile, che ogni nazione riscopra le proprie tradizioni per sviluppare modelli alimentari più sani basati sui cibi locali e tradizionali. Ciò sarebbe in linea con le esortazioni dell’UNESCO a preservare l’identità culturale, la continuità nelle comunità locali e l’ambiente.”
La pandemia silenziosa delle patologie cardiovascolari
Gli scienziati da tempo mettono in guardia da una pandemia silenziosa, quella delle malattie croniche non trasmissibili (NCD, dall’inglese non communicable disease). Si tratta di patologie cardiovascolari, quelle respiratorie croniche, i tumori e il diabete. Nell’insieme sono responsabili del 70 per cento circa dei decessi e la loro incidenza è in aumento.
La prevenzione parte da comportamenti e abitudini nello stile di vita, come evitare di fumare e di consumare alcol, e fare attività fisica. Un altro fondamentale fattore di rischio modificabile è la dieta. A differenza di quanto accade per i fattori di rischio non modificabili, come l’età o il sesso, l’alimentazione può fare la differenza.
Come è strutturata la dieta mediterranea
Le prove scientifiche confermano che la dieta mediterranea è associata a un maggiore controllo del peso corporeo e a un rischio più basso di sviluppare malattie croniche. Tra queste rientrano le patologie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e alcuni tipi di tumori. Inoltre, sembra avere un ruolo protettivo contro patologie in cui sono coinvolte le risposte immunitarie, come l’ipersensibilità agli allergeni e l’asma.
La dieta mediterranea si basa sul:
- consumo di alimenti di origine vegetale (frutta, verdura, cereali integrali, legumi e frutta secca);
- assunzione di olio extravergine di oliva come principale fonte di grassi;
- consumo moderato di proteine animali e di grassi, le cui fonti preferenziali sono rispettivamente i latticini magri o il pesce (oltre all’olio extravergine di oliva);
- consumo limitato di dolci e cibi processati.
L’energia è ricavata dai carboidrati non raffinati (55-60 per cento), dai grassi (30-35 per cento) e dalle proteine (15 per cento circa). I carboidrati provengono da alimenti a basso indice glicemico (che alzano in misura modesta i livelli di glucosio nel sangue), come prodotti a base di cereali integrali e legumi. I grassi sono rappresentati soprattutto dagli acidi grassi monoinsaturi, in misura minore dagli acidi grassi saturi e solo in minima parte dagli acidi grassi polinsaturi. La dieta mediterranea assicura vitamine, minerali e altri elementi utili.
La dieta “planeterranea” e il caso del Nord America
I ricercatori dell’Università Federico II hanno intervistato persone provenienti da cinque diverse parti del mondo (Nord America, Sud America, Africa, Asia e Australia), per raccogliere informazioni sulle coltivazioni locali, le abitudini alimentari e le ricette tradizionali. Dopo aver realizzato ricerche specifiche, anche utilizzando PubMed, hanno elaborato cinque piramidi alimentari. Si basano sui prodotti facilmente reperibili in ogni macroarea, con proprietà nutrizionali simili a quelle della dieta mediterranea.
L’alimentazione delle popolazioni del Nord America, patria della “dieta occidentale”, si basa su cereali raffinati, carne rossa e processata, bevande zuccherate e “cibo spazzatura”. I risultati di uno studio, appena pubblicati sulla rivista Nature Food, sulla qualità dell’alimentazione in 185 nazioni, pongono gli Stati Uniti tra i Paesi dove si mangia in modo meno sano. In generale, la qualità della dieta è insoddisfacente a livello globale. Sono solo dieci le nazioni che raggiungono o superano i 50 punti, in una scala da 0 (meno sana) a 100 (più sana). L’Italia ne ottiene solo 46.
Per quanto riguarda il Nord America, i ricercatori hanno individuato quattro alimenti con caratteristiche nutrizionali ottime: l’olio di canola, le noci pecan, l’okra e i fagioli pinto. I ricercatori suggeriscono agli abitanti del Nord America di usare l’olio di canola come principale fonte di grassi, aumentare il consumo di vegetali e legumi e preferire prodotti locali, come l’okra e i fagioli pinto. Infine di consumare frutta secca, in particolare le noci pecan, come spuntino al posto di snack industriali malsani. Simili considerazioni sono state fatte per ciascuna delle macroaree: per esempio, agli abitanti del Sud America viene proposto l’avocado come fonte di grassi, un’alternativa a basso costo all’olio di oliva. In conclusione, combinare cibi diversi della tradizione di ogni paese porta vantaggi non solo per la salute delle persone ma anche per l’ambiente.
Da mediterranea a planeterranea, la dieta per vivere a lungo
Alimentazione, Benessere, Stili di vitaLa dieta mediterranea è il simbolo universale di una sana alimentazione. Per questo nel 2010 è stata dichiarata patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO. Questo stile alimentare fa bene alla salute e abbassa il rischio di molte malattie. Non tutti i Paesi del mondo, però, hanno la possibilità di replicarla. Oltre ad abitudini e disponibilità di prodotti differenti, ci sono difficoltà oggettive, come il costo delle materie prime di importazione.
La Cattedra UNESCO di Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli ha cercato di adattare la tipica piramide alimentare della dieta mediterranea agli ingredienti disponibili in diverse parti del globo. L’obiettivo del progetto è creare una dieta “planeterranea”.
“Nonostante il ruolo chiave della dieta mediterranea per la prevenzione e la gestione delle malattie croniche non trasmissibili, non è facile traslare questo modello alimentare in altre popolazioni” scrivono gli autori dello studio “Planeterranea” in un articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in nutrition. “Appare perciò più credibile, e anche desiderabile, che ogni nazione riscopra le proprie tradizioni per sviluppare modelli alimentari più sani basati sui cibi locali e tradizionali. Ciò sarebbe in linea con le esortazioni dell’UNESCO a preservare l’identità culturale, la continuità nelle comunità locali e l’ambiente.”
La pandemia silenziosa delle patologie cardiovascolari
Gli scienziati da tempo mettono in guardia da una pandemia silenziosa, quella delle malattie croniche non trasmissibili (NCD, dall’inglese non communicable disease). Si tratta di patologie cardiovascolari, quelle respiratorie croniche, i tumori e il diabete. Nell’insieme sono responsabili del 70 per cento circa dei decessi e la loro incidenza è in aumento.
La prevenzione parte da comportamenti e abitudini nello stile di vita, come evitare di fumare e di consumare alcol, e fare attività fisica. Un altro fondamentale fattore di rischio modificabile è la dieta. A differenza di quanto accade per i fattori di rischio non modificabili, come l’età o il sesso, l’alimentazione può fare la differenza.
Come è strutturata la dieta mediterranea
Le prove scientifiche confermano che la dieta mediterranea è associata a un maggiore controllo del peso corporeo e a un rischio più basso di sviluppare malattie croniche. Tra queste rientrano le patologie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e alcuni tipi di tumori. Inoltre, sembra avere un ruolo protettivo contro patologie in cui sono coinvolte le risposte immunitarie, come l’ipersensibilità agli allergeni e l’asma.
La dieta mediterranea si basa sul:
L’energia è ricavata dai carboidrati non raffinati (55-60 per cento), dai grassi (30-35 per cento) e dalle proteine (15 per cento circa). I carboidrati provengono da alimenti a basso indice glicemico (che alzano in misura modesta i livelli di glucosio nel sangue), come prodotti a base di cereali integrali e legumi. I grassi sono rappresentati soprattutto dagli acidi grassi monoinsaturi, in misura minore dagli acidi grassi saturi e solo in minima parte dagli acidi grassi polinsaturi. La dieta mediterranea assicura vitamine, minerali e altri elementi utili.
La dieta “planeterranea” e il caso del Nord America
I ricercatori dell’Università Federico II hanno intervistato persone provenienti da cinque diverse parti del mondo (Nord America, Sud America, Africa, Asia e Australia), per raccogliere informazioni sulle coltivazioni locali, le abitudini alimentari e le ricette tradizionali. Dopo aver realizzato ricerche specifiche, anche utilizzando PubMed, hanno elaborato cinque piramidi alimentari. Si basano sui prodotti facilmente reperibili in ogni macroarea, con proprietà nutrizionali simili a quelle della dieta mediterranea.
L’alimentazione delle popolazioni del Nord America, patria della “dieta occidentale”, si basa su cereali raffinati, carne rossa e processata, bevande zuccherate e “cibo spazzatura”. I risultati di uno studio, appena pubblicati sulla rivista Nature Food, sulla qualità dell’alimentazione in 185 nazioni, pongono gli Stati Uniti tra i Paesi dove si mangia in modo meno sano. In generale, la qualità della dieta è insoddisfacente a livello globale. Sono solo dieci le nazioni che raggiungono o superano i 50 punti, in una scala da 0 (meno sana) a 100 (più sana). L’Italia ne ottiene solo 46.
Per quanto riguarda il Nord America, i ricercatori hanno individuato quattro alimenti con caratteristiche nutrizionali ottime: l’olio di canola, le noci pecan, l’okra e i fagioli pinto. I ricercatori suggeriscono agli abitanti del Nord America di usare l’olio di canola come principale fonte di grassi, aumentare il consumo di vegetali e legumi e preferire prodotti locali, come l’okra e i fagioli pinto. Infine di consumare frutta secca, in particolare le noci pecan, come spuntino al posto di snack industriali malsani. Simili considerazioni sono state fatte per ciascuna delle macroaree: per esempio, agli abitanti del Sud America viene proposto l’avocado come fonte di grassi, un’alternativa a basso costo all’olio di oliva. In conclusione, combinare cibi diversi della tradizione di ogni paese porta vantaggi non solo per la salute delle persone ma anche per l’ambiente.
Morbo di Crohn e rettocolite ulcerosa, Francesco Selvaggi: diagnosi in grande aumento, la laparoscopica è la soluzione.
Benessere, Medicina funzionale, News PresaUna cattiva alimentazione, l’inquinamento, ma anche fattori di predisposizione genetica. Sono gli ingredienti principali di un mix che sempre più spesso porta all’insorgenza del morbo di Crohn o alla rettocolite ulcerosa, malattie infiammatorie dell’intestino. «Ormai, le diagnosi di queste patologie hanno una frequenza prima impensabile», rivela Francesco Selvaggi (ordinario di Chirurgia e primario del reparto di Chirurgia colorettale alla Vanvitelli di Napoli). «In diversi casi il trattamento con anticorpi monoclonali porta a risultati duraturi. Tuttavia, se la risposta farmacologica è insufficiente diventa necessario intervenire chirurgicamente».
Proprio il reparto diretto dal professor Selvaggi è tra i centri di riferimento regionali per la chirurgia mini-invasiva (chirurgia laparoscopica) di queste patologie, con ben 120 interventi realizzati nel solo 2022. Una chirurgia che ha una lunga tradizione ed è supportata da studi scientifici che ne dimostrano la fattibilità tecnica e l’equivalenza con la chirurgia aperta.
VANTAGGI
«Grazie alla laparoscopia – prosegue Selvaggi – possiamo garantire un miglior risultato estetico e una minore ospedalizzazione nei casi meno complessi». A sostenere l’impiego della chirurgia laparoscopica per il morbo di Crohn e la colite ulcerosa, in alternativa alla terapia medica, sono anche le ultime linee guida europee dell’ECCO, alla definizione delle quali ha contribuito lo stesso professor Selvaggi.
Francesco Selvaggi
«Oggi il 15-30% dei pazienti con colite ulcerosa viene sottoposto ad intervento chirurgico nel caso di urgenze, insufficiente risposta alla terapia medica, effetti collaterali o insorgenza di un tumore. Questa indicazione, pur comportando la rimozione del colon, è risolutiva della malattia ed è possibile effettuarla con un solo intervento o in più fasi, a seconda delle condizioni generali del paziente. Studi di comparazione di prestigiose strutture universitarie-ospedaliere negli Stati Uniti dimostrano la fattibilità di questo intervento in chirurgia laparoscopica. E i nostri dati ci portano a confermare pienamente questa possibilità». Ma, come si interviene? «La tecnica prevede la rimozione del colon-retto e la ricostruzione di un nuovo retto “pouch” (marsupio, ndr) che sostituirà l’organo rimosso. Una tecnica che offre enormi vantaggi, soprattutto nelle donne, visto che limita le aderenze e il rischio di infertilità.
INTERVENTI IBRIDI
Ma è sempre possibile applicare questa tecnica alla colite ulcerosa? «In una piccola percentuale di pazienti bisognerà ricorrere alla chirurgia aperta, comunque con ottimi risultati funzionali. La malattia di Crohn invece, nella sua forma classica, può essere affrontata con la chirurgia mini-invasiva. È importante che il paziente abbia bassi indici di massa corporea, giovane età e che si possa procedere con un intervento non particolarmente demolito per intervenire con questa tecnica. La bontà della metodica applicata a questi pazienti paragonata alla terapia con biologici è stata oggetto di uno studio importante. Uno studio che mostra i vantaggi di intervenire chirurgicamente in pazienti che rispondono poco e male alla terapia, specie se di giovane età». Nei casi più complessi, conclude il professor Selvaggi, si può intervenire con una chirurgia “ibrida”, cioè in parte laparoscopica e in parte “a cielo aperto”. Anche in questi casi si ottengono incisioni limitate e nascoste e una ripresa più rapida post-operatoria.
Bruxismo, disturbo più diffuso di quanto si pensi. I sintomi
PrevenzioneIl bruxismo è una condizione più comune di quanto si pensi. Ne soffrono in media due persone su dieci, spesso inconsapevolmente. Si tratta della tendenza a digrignare e/o a serrare i denti in modo ripetitivo, durante il giorno e/o la notte. Questa abitudine involontaria è diventata più frequente negli ultimi anni.
La pandemia, infatti, ha avuto un impatto sulla salute dentale, non solo perché molte visite sono state rimandate, ma anche per lo stress e l’ansia che le persone hanno sperimentato nel corso dell’emergenza. Il bruxismo, difatti, è una manifestazione di stress e ansia che spesso si manifesta di notte e può causare problemi come usura dei denti, dolore alla mandibola e mal di testa. Tali condizioni possono essere esacerbate dal tabagismo, dal consumo eccessivo di alcool e dall’uso di droghe ricreative.
Se trascurato per troppo tempo, il bruxismo può portar a disturbo di lungo termine della mandibola. Può causare, inoltre, rottura o usura dei denti, mal di testa, malattie delle gengive e altri problemi.
Le conseguenze del bruxismo
Il serramento o digrignamento involontario dei denti può riguardare adulti e bambini. Può essere un sintomo di stress, ansia o altri problemi emotivi. Il bruxismo porta a contrarre la muscolatura del volto, spesso in modo incontrollato e di frequente ci si accorge a causa dei dolori al viso, alle orecchie e/o alla testa. L’incapacità di rilassare la mascella e ridurre la tensione produce una serie di conseguenze per i denti, ma non solo. Quando avviene di notte è molto difficile accorgersi, ma al mattino ci si sente affaticati e indolenziti. Inoltre, possono sorgere anche dolori cervicali, mal di testa, dolore alle spalle, perdita del ritmo del sonno e difficoltà di concentrazione.
Infatti, spesso al bruxismo sono collegati altri indicatori, spiega il Prof. Roberto Weinstein, Direttore Scientifico dell’Odontoiatria Humanitas. Tra cui: disturbi del sonno, malocclusione dentale, malformazioni della mandibola, abuso di alcolici o fumo, mal di denti o otiti.
“È essenziale sottoporsi a una visita odontoiatrica per il bruxismo, poiché può causare gravi danni ai denti e alla loro funzione – spiega l’esperto. Se la condizione viene identificata, il paziente può essere indirizzato verso il trattamento più appropriato ed eventuali esercizi per rilassare i muscoli facciali.
Quando non viene trattato il bruxismo può causare: erosione dei denti, contratture muscolari, dolori articolari persistenti, mal di testa e male alle orecchie. Il bruxismo può essere asintomatico o causare diversi fastidi. In quest’ultimo caso, è essenziale che il paziente si procuri dal dentista uno speciale bite per proteggere i denti e l’articolazione temporo-mandibolare dalla continua pressione”.
Tumore del colon e il ruolo protettivo degli estrogeni. Lo studio
Prevenzione, Ricerca innovazioneIl cancro del colon-retto (CRC) è la seconda causa di morte per cancro nel mondo. Dagli studi epidemiologici emerge che gli uomini hanno un rischio maggiore. Invece, le donne colpite da CRC tra 18 e 44 anni di età hanno in genere una prognosi migliore sia rispetto agli uomini che alle donne in post-menopausa. Questo dato suggerisce quindi un effetto protettivo degli estrogeni.
In generale, gli estrogeni svolgono un ruolo importante nella patogenesi di molti tipi di tumori a volte protettivo, a volte patogenetico a seconda del recettore specifico per gli estrogeni espresso dalle cellule tumorali.
Tumore del colon, il ruolo degli interferenti endocrini
Nell’ambiente in cui viviamo siamo esposti a sostanze chimicamente simili agli estrogeni associate all’insorgenza di vari tumori. Ad esempio, il bisfenolo A (BPA), sostanza chimica utilizzata nella produzione di prodotti plastici, come materiali a contatto con alimenti, vernici, carta termica, ecc., è stato riconosciuto come un interferente endocrino in grado di legare i recettori degli estrogeni.
Diversi studi condotti anche in Italia hanno dimostrato che la popolazione è esposta a BPA e alcuni dati collegano l’esposizione al BPA con l’insorgenza di tumori. Tuttavia, gli studi che esplorano la possibile associazione tra esposizione umana al BPA e CRC sono ancora scarsi.
Per questo, il gruppo di ricercatori del Centro di Riferimento per la Medicina di Genere dell’Istituto Superiore di Sanità ha proposto un grande progetto pilota. Coinvolge per gli aspetti clinici il Presidio Ospedaliero Santissima Annunziata dell’Università di Chieti e rientra nell’ambito del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR). Il progetto dal titolo “Gender differences in the onset and progression of colon cancer: role of endogenous and exogenous estrogens” è stato approvato, finanziato e partirà in questi giorni.
Il nuovo studio italiano
“L’obiettivo principale del progetto – dichiara la responsabile Paola Matarrese – è comprendere quale sia il ruolo degli estrogeni o di sostanze estrogeno-simili, come il BPA, nell’insorgenza e nella progressione del CRC. La nostra attenzione sarà focalizzata sulle possibili differenze di sesso e/o genere e sui meccanismi molecolari attraverso i quali inquinanti ambientali come il BPA possono indurre il tumore o creare condizioni favorevoli al suo sviluppo”.
Queste analisi saranno condotte con l’obiettivo di evidenziare eventuali differenze tra uomini e donne e con l’intento di monitorare lo stato di malattia e la risposta alla terapia in modo sesso-specifico.
“Questo studio, condotto su una popolazione di persone colpite da CRC, – conclude Elena Ortona co-responsabile del Progetto e Direttrice del Centro di riferimento per la Medicina di Genere dell’ISS – fornirà importanti dati sul ruolo degli estrogeni e sugli eventuali effetti differenziali legati al genere, consentendo di valutare l’impatto dell’esposizione ambientale al BPA sulla salute umana”.
Un laboratorio hi-tech per studiare il ruolo delle proteine in alcune malattie degenerative dei tessuti nervosi
Ricerca innovazioneAlcune proteine hanno un ruolo nel determinare malattie degenerative dei tessuti nervosi. Ecco perché, studiare queste proteine può portare a nuove terapie capaci di cambiare la vita di milioni di perone in tutto il mondo. Proprio in Italia sta per entrare in funzione un nuovo laboratorio di ricerca dotato di un’apparecchiatura all’avanguardia per la spettrometria di massa, un laboratorio dedicato alla “proteomica”
TECNOLOGIA
Grazie al sostegno della Fondazione Roma, l’IRCCS Bietti è stato equipaggiato con uno strumento all’avanguardia per lo studio della proteomica, ovvero un Orbitrap Exploris 240. L’apparecchiatura ha in dotazione un ulteriore sistema di rilevazione delle molecole, che prende il nome di Field asymmetric waveform ion mobility spectrometry (FAIMS) e che rappresenta una tecnologia altamente innovativa sviluppata per migliorare la precisione delle osservazioni, nonché per agevolare lo studio della composizione ultramicroscopica e la conformazione tridimensionale delle particelle in analisi.
PROTEOMICA
«La proteomica è una branca della ricerca che è focalizzata sull’identificare in maniera sistematica le proteine e la loro struttura più fine in relazione alla loro quantità, qualità e interazione con altre molecole – spiegano il dottor Francesco Oddone, responsabile dell’Unità di Ricerca Glaucoma presso l’IRCCS Fondazione Bietti e il dottor Diego Sbardella, biochimico e biologo responsabile delle ricerche di proteomica nel nuovo laboratorio. «La spettrometria di massa consente di identificare, con una sensibilità non paragonabile a qualsiasi altro approccio di laboratorio (parliamo di ordini del miliardesimo di grammo), l’insieme delle molecole presenti all’interno di un campione oggetto di analisi. Pertanto, un saggio di proteomica è in grado di fornire informazioni qualitative (la composizione del campione appunto) e, dietro adozione di alcuni opportuni accorgimenti tecnici, quantitative (per ogni molecola, quanta ne è effettivamente presente, in senso assoluto ed in relazione alle altre) sulla composizione del campione stesso».
FONDAMENTI DELLA VITA
Le proteine sono molecole importanti, i “mattoni” fondamentali della vita: la complessità chimica della loro composizione nonché la capacità di riarrangiare la struttura tridimensionale, in particolare in seguito a modificazioni chimiche della loro composizione (ad es. fosforilazione, ubiquitinazione) e di interagire con le altre molecole chimiche e biologiche (lipidi, carboidrati), adattandosi alle necessità della cellula,permettono loro di svolgere una quantità enorme di funzioni all’interno dell’organismo: dal movimento dei muscoli, alla trasmissione degli impulsi nervosi, all’ingresso dei segnali diretti al nucleo alla capacità di eliminare una minaccia biologica (virus, batteri). Non sorprende, quindi, che la mancanza di alcune proteine, o l’alterazione dei meccanismi che soprassiedono al mantenimento dell’equilibrio tra diversi tipi di proteine, possano essere causa di gravi disfunzioni e patologie.
GLAUCOMA
«È il caso, per esempio, delle malattie neurodegenerative, delle quali il glaucoma fa parte. Il legame di queste malattie con proteine di interesse patologico, quale la proteina tau è sempre meglio compreso» – spiegano il dottor Francesco Oddone e il dottor Diego Sbardella. «Sempre nel campo del glaucoma, importanti applicazioni della spettrometria di massa saranno rivolte allo studio delle alterazioni molecolari responsabili del danno del trabecolato sclero-corneale ovvero della via di deflusso dell’umore acqueo la cui alterazione è causa dell’aumento della pressione oculare che è alla base della maggior parte dei glaucomi». L’impiego della proteomica potrà senz’altro contribuire a raggiungere questo obiettivo analizzando fluidi e campioni biologici. Il taglio della ricerca in un IRCCS deve essere infatti di natura traslazionale: l’orizzonte è applicare i risultati alla diagnostica o alle terapie delle malattie cronico degenerative dell’occhio quali glaucoma, degenerazione maculare senile, retinopatia diabetica, malattie rare e geneticamente determinate. La strategia scientifica che verrà sviluppata nel laboratorio di proteomica consentirà di ottenere informazioni su larga scala per tutte le patologie oculari che saranno oggetto di analis .
Epilessia, il dolore della malattia e dello stigma
Benessere, Medicina funzionale, News PresaL’epilessia è una malattia che ancora oggi coinvolge più di 50 milioni di persone in tutto il mondo. È una delle prime cinque cause di disabilità neurologica ed è responsabile di 125mila decessi all’anno. Oggi si celebra la Giornata Internazionale dell’Epilessia, voluta per accendere un faro su questa patologia e, quest’anno, per combattere lo stigma che colpisce chi ne soffre.
PIÙ DIRITTI
Per questa ragione lo scorso anno l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha approvato un piano dedicato (Intersectoral Global Action Plan on Epilepsy and other Neurological Disorders) che mira a ridurre lo stigma, migliorare l’accesso alle cure e migliorare la qualità della vita delle persone con disturbi neurologici, dei loro caregiver e delle loro famiglie. Il piano si pone inoltre l’obiettivo che l’80% dei Paesi abbia sviluppato o aggiornato la propria legislazione per promuovere e proteggere i diritti delle persone con epilessia entro il 2031.
COME SI MANIFESTA
Questa malattia del sistema nervoso centrale (disturbo neurologico) compromette l’attività delle cellule nervose nel cervello provocando convulsioni, momenti di comportamento inusuale e qualche volta anche perdita di coscienza. Gli esperti sottolineano l’importanza di prestare attenzione ad eventuali campanelli d’allarme. I sintomi della manifestazione di una crisi epilettica possono cambiare profondamente da persona a persona: durante la crisi certe persone si incantano a fissare un punto per alcuni secondi, invece altre possono arrivare a contrarre ripetutamente braccia e gambe. Anche le crisi leggere devono essere trattate, poiché possono diventare rischiose durante attività come la guida o il nuoto. La cura, a base di medicinali o interventi chirurgici, è capace di tenere sotto controllo la condizione nell’80% delle situazione. Oggi, in tutto il mondo sono in programma eventi di informazione e sensibilizzazione, come la tradizionale illuminazione dei monumenti di viola, il colore della lotta all’epilessia.
Eco ansia: se l’equilibrio mentale dipende dal riscaldamento globale
Benessere, One health, PsicologiaL’eco ansia o ansia climatica è la paura o l’ansia cronica legata al destino ambientale del pianeta a causa di gravi eventi climatici. Nelle persone più giovani e in quelle più sensibili ai temi del riscaldamento globale, cambiamenti climatici, aumento dell’incidenza di disastri naturali, deforestazione, innalzamento del livello del mare, ed eventi meteorologici estremi, l’ansia climatica può provocare sintomi di distress. Il tema è stato affrontato dal professor Giampaolo Perna, professore ordinario di Humanitas University e Responsabile del Centro di Medicina Personalizzata sui Disturbi d’Ansia e di Panico di Humanitas San Pio X.
Come riconoscere l’eco ansia
L’ansia e la paura per i cambiamenti climatici possono impattare sull’equilibrio emotivo e psicologico. Ci sono alcuni fattori che sembrano esporre maggiormente ai sintomi dell’eco-ansia. Sono, per esempio: giovane età, ampia esposizione mediatica, impegno attivo nei confronti della crisi ambientale e lavorare nell’ambito della sostenibilità ambientale. Ogni persona, spiega lo specialista sulle pagine di Humanitas, ha un modo personale di esprimere ansia e paura, ma in generale si riconoscono sintomi comuni.
Subentra nervosismo e ansia legati all’impatto dei propri comportamenti sull’ambiente, alla propria responsabilità nell’aiutare ad affrontare i problemi ambientali, a notizie che riguardano il clima e i cambiamenti climatici. Avvengono crisi di ansia quando si affrontano tematiche sull’ambiente, difficoltà a non pensare ai problemi associati al cambiamento climatico, nonché il non riuscire a fermare o controllare le preoccupazioni per l’ambiente.
Inoltre, sì può arrivare a prendere decisioni radicali sulla propria vita, come ad esempio il non avere figli perché potrebbe non essere etico o sostenibile per le risorse disponibili del pianeta. Emerge una difficoltà a vivere serenamente le situazioni sociali con la famiglia e gli amici, difficoltà a concentrarsi nel lavoro e/o nello studio, difficoltà a dormire. Inoltre subentra la solastalgia, uno stato caratterizzato da emozioni di nostalgia, senso di perdita, ansia, disturbi del sonno, stress, dolore, depressione, pensieri suicidi e aggressività. La solastalgia in genere si può provare quando la propria casa o l’ambiente vicino vengono distrutti da eventi naturali improvvisi.
Gli effetti sul benessere mentale
I disastri naturali possono essere dovuti o meno a eventi climatici estremi causati dal riscaldamento globale. In entrambi i casi, hanno conseguenze sulla salute mentale sia delle persone coinvolte direttamente, sia di chi è esposto alle notizie e soffre già di disturbi di ansia o depressione. Il disagio può durare nel tempo e manifestarsi con sintomi di ansia e anche di stress post-traumatico.
Alcune ricerche della Union of Concerned Scientists (2010) stimano che tra il 25 e il 50% delle persone che hanno subito le conseguenze di disastri meteorologici persistano effetti sulla salute mentale. Secondo l’American Psychological Association (APA), inoltre, i sopravvissuti a disastri naturali manifestano un aumento notevole di depressione, disturbo da stress post-traumatico, ansia e suicidio.
Il surriscaldamento globale e l’equilibrio mentale
Il surriscaldamento globale ha un impatto anche sulla salute e sul benessere mentale. L’aumento delle temperature, infatti, è strettamente correlato a un numero maggiore di attacchi di ansia e di panico, in particolare nelle persone che già ne soffrono, magari in estate. Sono sintomi che – spiega lo specialista – nelle persone che hanno problemi economici, oppure hanno meno sicurezza finanziaria a causa dell’aumento delle temperature, aumentano, fino a sviluppare sensazioni di disperazione. Ciò può riguardare, per esempio, agricoltori, allevatori, pescatori che dipendono dalla terra e dal mare.
Una sana eco-ansia aiuta a non rimanere indifferenti nei confronti delle condizioni del nostro pianeta – sottolinea l’esperto.
Tuttavia, quando i sintomi di ansia associati ai temi ambientali arrivano a paralizzare la vita o diventare un’ossessione che assorbe totalmente tempo ed energie, è fondamentale parlarne in famiglia o con gli amici e ridurre l’esposizione ai media durante la giornata. Soprattutto è importante, nei casi in cui non si riesce a tenere a bada i sintomi, rivolgersi a uno psichiatra/psicologo, per superare il disagio e ritrovare il benessere.
Anticorpi primitivi, cosa sono e qual è il grande potenziale
Ricerca innovazioneSi chiamano molecole dell’immunità innata e sono degli “anticorpi primitivi”. Il loro grande potenziale nella diagnosi e il trattamento di infezioni, patologie autoimmuni e neurodegenerative è stato messo in luce da un team italiano. I risultati dello studio sono stati pubblicati sul New England Journal of Medicine.
Chi sono gli autori della review
La review sulle molecole dell’immunità innata rappresenta una pagina di storia della medicina. L’ha realizzata Alberto Mantovani, direttore scientifico di Humanitas e professore emerito di Humanitas University, e Cecilia Garlanda, responsabile del laboratorio di Immunopatologia Sperimentale di Humanitas e professoressa di Humanitas University. Il team negli ultimi decenni ha guidato scoperte come quella della pentrassina 3 (PTX3).
Le molecole dell’immunità innata. Perché sono così importati
Le prime molecole dell’immunità innata furono isolate quasi un secolo fa. Oggi sono usate in clinica come indicatori diagnostici e prognostici di infiammazione. Il loro livello nel sangue, ad esempio, permette di misurare lo stato infiammatorio e di prevedere l’evoluzione della malattia. Negli ultimi decenni la ricerca è andata molto avanti. Oggi sappiamo che queste molecole, una volta attivate dall’incontro con un patogeno, hanno un ruolo di primo piano. Infatti, combattono l’infezione, riconoscendo l’intruso, segnalandolo e ostacolandone l’azione come degli “anticorpi primitivi”. In particolare, coordinano anche la rigenerazione dei tessuti, perché la guerra che l’organismo scatena contro virus, funghi o batteri, come ogni conflitto, lascia dietro di sé molti danni.
«Abbiamo ritenuto importante mettere a fattor comune tutte le conoscenze sulle molecole della nostra prima linea di difesa a beneficio dei medici e delle future generazioni di clinici, che si trovano ad utilizzarle per diagnosi e terapie, a volte senza aver piena percezione del loro potenziale – spiega il prof. Alberto Mantovani sulle pagine di Humanitas -. Le molecole dell’immunità innata sono infatti protagoniste di alcuni importanti azioni di difesa quando l’organismo è sotto attacco infiammatorio, come avviene nella sepsi o in caso di grandi traumi, ma anche di malattie neurodegenerative o autoimmuni. Usando un’immagine tratta dal contesto bellico, potremmo dire che questa classe di molecole “sottrae materiale al nemico” per indirizzare gli sforzi dell’organismo verso la produzione di mezzi di difesa pesanti e la ricostruzione di quanto è “sotto le macerie” dell’infiammazione. Azioni che lasciano traccia e, se ben misurate, possono guidare l’azione dei medici».
La riscoperta degli “anticorpi primitivi”
Le molecole solubili dell’immunità innata – la prima linea di difesa del nostro organismo – sono un gruppo di molecole dall’azione complessa e diversificata. Non sempre sono facili da studiare per la loro natura solubile. Operano fuori e indipendentemente dalle cellule che le hanno prodotte, muovendosi nell’organismo innanzitutto attraverso il sistema sanguigno.
Molte delle molecole solubili dell’immunità innata si trovano normalmente nei tessuti, dove fanno una sorveglianza passiva. Rimangono in attesa che si manifesti una situazione di emergenza, cioè quando l’organismo riconosce la presenza di un patogeno e/o di un danno ai tessuti. Quando ciò avviene, una cascata di messaggi chimici e cellulari permettono al segnale d’allarme di propagarsi dal tessuto dove è stata riconosciuta l’anomalia in tutto l’organismo. Tutto ciò attiva un vero e proprio stato di allerta sistemico: la “Risposta di Fase Acuta”.
Il potenziale terapeutico di questi anticorpi “antichi”
«Le molecole dell’immunità innata sono uno strumento di diagnosi clinica ormai consolidato: il loro livello nel sangue, come anche COVID-19 ha dimostrato, permette di misurare lo stato infiammatorio e ha grande valore sia diagnostico sia prognostico per molte malattie infettive, infiammatorie o autoimmuni – prosegue la Prof.ssa Cecilia Garlanda -. I dati delle ricerche di questi anni ci dicono però che queste molecole possono fare molto di più: non solo come marcatori prognostici di precisione, ma come target terapeutici ancora in larga parte poco esplorati».
«Se è vero che l’azione dell’immunità innata è meno specifica di quella messa in campo dall’immunità adattiva – la seconda linea di difesa dell’organismo, costruita su misura per la minaccia da affrontare e di cui fanno parte gli anticorpi – oggi sappiamo che le molecole solubili dell’immunità innata agiscono come dei veri e propri “anticorpi primitivi”», concludono i due scienziati. Non a caso diversi studi clinici preliminari stanno testando l’efficacia di queste molecole come potenziali terapie di supporto per malattie infettive, infiammatorie, autoimmuni e neurodegenerative.
Un fascio di luce per individuare cellule tumorali nel sangue
Benessere, One health, Ricerca innovazioneUn fascio di luce per scovare eventuali cellule tumorali in circolo nel sangue consentirà di rivoluzionare la diagnosi precoce delle malattie oncologiche. Quella che sino a qualche anno fa sembrava solo una chimera, oggi prende forma grazie ad una scoperta che porta la bandiera del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Giovani e brillanti ricercatori hanno infatti combinato nuove tecnologie di imaging che, analizzando la luce che attraversa le cellule e il loro metabolismo, permettono l’identificazione delle cellule tumorali circolanti nel sangue. Queste cellule, verosimilmente responsabili della diffusione delle metastasi, derivano da tumori solidi e circolano nel sangue periferico ma, essendo presenti in quantità minime, sono difficili da individuare ed eliminare con i farmaci attualmente disponibili.
GLUCOSIO
Le cellule tumorali hanno la capacità di assimilare grandi quantità di glucosio, fino a dieci volte più velocemente di quanto facciano le cellule normali. Per questo i ricercatori hanno utilizzato un sistema che consente loro di studiare l’assorbimento delle molecole di glucosio da parte delle cellule tumorali e osservare il loro metabolismo. Si tratta di un sistema di radiazione laser con il quale vengono illuminate le molecole, che permette di identificarle in maniera univoca, senza utilizzare particolari marcature. In questo modo è stato dimostrato che la capacità delle cellule tumorali di assorbire il glucosio più velocemente determina l’accumulo di lipidi in forma di goccioline, diversamente da quanto accade, per esempio, con i leucociti, le cellule sane del sangue. Questo fornisce un parametro affidabile per distinguere le cellule tumorali da quelle del sangue.
NUOVE PROSPETTIVE
Per individuare le goccioline lipidiche con tempistiche simili a quelle di uno screening rapido, abbiamo combinato la microscopia Raman con l’imaging olografico in polarizzazione (PSDHI). Questa tecnica di imaging permette di identificare la morfologia delle cellule e mappare le proprietà birifrangenti delle goccioline lipidiche. I ricercatori sono così riusciti a distinguere le queste cellule dai leucociti in pochi secondi, con un’affidabilità vicina al 100%. Questo approccio pone le basi per lo sviluppo di un nuovo metodo di isolamento delle cellule tumorali, semplice e universalmente applicabile. La raccolta e la coltura in vitro di queste cellule, inoltre, consente di esaminare le loro caratteristiche genetiche e biochimiche e valutare la sensibilità a farmaci specifici. La cosa straordinaria è che il rilevamento e la quantificazione delle cellule tumorali attraverso questo sistema combinato, realizzato grazie al sostegno di Fondazione Airc per la ricerca sul cancro e della Regione Campania, dopo la validazione in successivi studi preclinici e clinici, potrà essere utilizzato per lo screening, la diagnosi, la selezione della terapia e il monitoraggio della progressione delle patologie tumorali e delle eventuali recidive.
Schillaci a Sanremo: Il 50% degli italiani non fa prevenzione.
Benessere, One health, PrevenzioneSchillaci a Sanremo
Un italiano su due rinuncia agli screening per diagnosticare precocemente tumori della mammella, del colon e dell’utero. Il dato, ma soprattutto un forte appello alla prevenzione, arriva dal ministro della Salute Schillaci. Intervenendo al talk show dedicato alla prevenzione dei tumori organizzato a Casa Sanremo, il ministro ha sottolineato «che uno degli effetti della pandemia sia stato proprio quello sui malati oncologici. Sono saltate tante visite, tanti screening. Sono saltati, credo, oltre 2 milioni di screening. Oggi i numeri per fortuna sono in ripresa ma non dobbiamo abbassare la guardia». Il ministro ha anche sottolineato come nel nostro paese, ancora oggi, ci sia una grande disparità su base regionale. «Purtroppo, c’è anche una disparità importante di risposta tra regioni e regioni. Ci dobbiamo impegnare e il messaggio deve essere chiaro: lo screening va fatto e lo screening aiuta a evitare malattia e purtroppo le conseguenze più brutte di questa malattia».
I CONTROLLI
Ma qual è il momento giusto per sottoporsi ad un controllo per queste tre forme di tumore? Come ha ricordato il ministro Schillaci, nel nostro paese i Lea comprendono screening per tumori al collo dell’utero, al colon e alla mammella. Per il colon, in assenza di familiarità o sintomi, l’età giusta per sottoporsi ad una colonscopia è di 50 anni. L’esame si può eseguire in sedazione e dura circa 30 minuti. Inoltre, un esame specifico per la diagnosi precoce del tumore del colon è la ricerca di sangue occulto nelle feci, un esame semplice e rapido da effettuare.
SENO
Per quanto riguarda il tumore del seno, lo screening si rivolge alle donne di età compresa tra i 50 e i 69 anni e si esegue con una mammografia ogni 2 anni. In alcune Regioni si sta sperimentando l’efficacia in una fascia di età più ampia, quella compresa tra i 45 e i 74 anni. I programmi organizzati di screening prevedono che l’esame venga eseguito visualizzando la mammella sia dall’alto verso il basso che lateralmente. Una maggiore accuratezza nella diagnosi viene ottenuta dalla valutazione della mammografia effettuata separatamente da 2 medici radiologi. In caso di un sospetto, al primo esame seguono ulteriori accertamenti diagnostici che, all’interno dei programmi organizzati di screening, consistono in una seconda mammografia, in un’ecografia e in una visita clinica. A questi esami può far seguito una biopsia per valutare le caratteristiche delle eventuali cellule tumorali.
UTERO
Infine, i test per lo screening del tumore del collo dell’utero sono il Pap-test e il test per Papilloma virus (HPV-DNA test). Il test impiegato finora è il Pap-test, offerto ogni 3 anni alle donne di età compresa tra i 25 e i 64 anni. Poichè recenti evidenze scientifiche hanno dimostrato che sopra i 30 anni è più costo-efficace il test per il Papilloma virus (HPV-DNA test) effettuato ogni 5 anni, tutte le Regioni si stanno impegnando per adottare il modello basato sul test HPV-DNA. Il nuovo test di screening si basa sulla ricerca dell’infezione dell’HPV ad alto rischio. Il prelievo è simile a quello del Pap-test (prelievo di una piccola quantità di cellule del collo dell’utero, eseguito strofinando sulle sue pareti una spatolina e un tampone). L’esame deve essere effettuato non prima dei 30 anni ed essere ripetuto con intervalli non inferiori ai 5 anni in caso di negatività. Se il test HPV risulta positivo la donna dovrà sottoporsi a un Pap-test che quindi diventa un esame di completamento (chiamato anche test di triage), perché seleziona le donne che hanno modificazioni cellulari e che devono fare la colposcopia. Se invece la citologia non presenta alterazioni importanti la donna ripeterà il test HPV dopo un anno. Dai 25 a 30 anni l’esame di riferimento rimane il Pap test da eseguirsi ogni tre anni. Questa scelta è dovuta al fatto che in giovane età la probabilità di avere una infezione da HPV è molto alta senza che questa assuma una importanza clinica.