Tempo di lettura: 3 minutiLa dieta mediterranea è il simbolo universale di una sana alimentazione. Per questo nel 2010 è stata dichiarata patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO. Questo stile alimentare fa bene alla salute e abbassa il rischio di molte malattie. Non tutti i Paesi del mondo, però, hanno la possibilità di replicarla. Oltre ad abitudini e disponibilità di prodotti differenti, ci sono difficoltà oggettive, come il costo delle materie prime di importazione.
La Cattedra UNESCO di Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli ha cercato di adattare la tipica piramide alimentare della dieta mediterranea agli ingredienti disponibili in diverse parti del globo. L’obiettivo del progetto è creare una dieta “planeterranea”.
“Nonostante il ruolo chiave della dieta mediterranea per la prevenzione e la gestione delle malattie croniche non trasmissibili, non è facile traslare questo modello alimentare in altre popolazioni” scrivono gli autori dello studio “Planeterranea” in un articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in nutrition. “Appare perciò più credibile, e anche desiderabile, che ogni nazione riscopra le proprie tradizioni per sviluppare modelli alimentari più sani basati sui cibi locali e tradizionali. Ciò sarebbe in linea con le esortazioni dell’UNESCO a preservare l’identità culturale, la continuità nelle comunità locali e l’ambiente.”
La pandemia silenziosa delle patologie cardiovascolari
Gli scienziati da tempo mettono in guardia da una pandemia silenziosa, quella delle malattie croniche non trasmissibili (NCD, dall’inglese non communicable disease). Si tratta di patologie cardiovascolari, quelle respiratorie croniche, i tumori e il diabete. Nell’insieme sono responsabili del 70 per cento circa dei decessi e la loro incidenza è in aumento.
La prevenzione parte da comportamenti e abitudini nello stile di vita, come evitare di fumare e di consumare alcol, e fare attività fisica. Un altro fondamentale fattore di rischio modificabile è la dieta. A differenza di quanto accade per i fattori di rischio non modificabili, come l’età o il sesso, l’alimentazione può fare la differenza.
Come è strutturata la dieta mediterranea
Le prove scientifiche confermano che la dieta mediterranea è associata a un maggiore controllo del peso corporeo e a un rischio più basso di sviluppare malattie croniche. Tra queste rientrano le patologie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e alcuni tipi di tumori. Inoltre, sembra avere un ruolo protettivo contro patologie in cui sono coinvolte le risposte immunitarie, come l’ipersensibilità agli allergeni e l’asma.
La dieta mediterranea si basa sul:
- consumo di alimenti di origine vegetale (frutta, verdura, cereali integrali, legumi e frutta secca);
- assunzione di olio extravergine di oliva come principale fonte di grassi;
- consumo moderato di proteine animali e di grassi, le cui fonti preferenziali sono rispettivamente i latticini magri o il pesce (oltre all’olio extravergine di oliva);
- consumo limitato di dolci e cibi processati.
L’energia è ricavata dai carboidrati non raffinati (55-60 per cento), dai grassi (30-35 per cento) e dalle proteine (15 per cento circa). I carboidrati provengono da alimenti a basso indice glicemico (che alzano in misura modesta i livelli di glucosio nel sangue), come prodotti a base di cereali integrali e legumi. I grassi sono rappresentati soprattutto dagli acidi grassi monoinsaturi, in misura minore dagli acidi grassi saturi e solo in minima parte dagli acidi grassi polinsaturi. La dieta mediterranea assicura vitamine, minerali e altri elementi utili.
La dieta “planeterranea” e il caso del Nord America
I ricercatori dell’Università Federico II hanno intervistato persone provenienti da cinque diverse parti del mondo (Nord America, Sud America, Africa, Asia e Australia), per raccogliere informazioni sulle coltivazioni locali, le abitudini alimentari e le ricette tradizionali. Dopo aver realizzato ricerche specifiche, anche utilizzando PubMed, hanno elaborato cinque piramidi alimentari. Si basano sui prodotti facilmente reperibili in ogni macroarea, con proprietà nutrizionali simili a quelle della dieta mediterranea.
L’alimentazione delle popolazioni del Nord America, patria della “dieta occidentale”, si basa su cereali raffinati, carne rossa e processata, bevande zuccherate e “cibo spazzatura”. I risultati di uno studio, appena pubblicati sulla rivista Nature Food, sulla qualità dell’alimentazione in 185 nazioni, pongono gli Stati Uniti tra i Paesi dove si mangia in modo meno sano. In generale, la qualità della dieta è insoddisfacente a livello globale. Sono solo dieci le nazioni che raggiungono o superano i 50 punti, in una scala da 0 (meno sana) a 100 (più sana). L’Italia ne ottiene solo 46.
Per quanto riguarda il Nord America, i ricercatori hanno individuato quattro alimenti con caratteristiche nutrizionali ottime: l’olio di canola, le noci pecan, l’okra e i fagioli pinto. I ricercatori suggeriscono agli abitanti del Nord America di usare l’olio di canola come principale fonte di grassi, aumentare il consumo di vegetali e legumi e preferire prodotti locali, come l’okra e i fagioli pinto. Infine di consumare frutta secca, in particolare le noci pecan, come spuntino al posto di snack industriali malsani. Simili considerazioni sono state fatte per ciascuna delle macroaree: per esempio, agli abitanti del Sud America viene proposto l’avocado come fonte di grassi, un’alternativa a basso costo all’olio di oliva. In conclusione, combinare cibi diversi della tradizione di ogni paese porta vantaggi non solo per la salute delle persone ma anche per l’ambiente.
Tumore alla prostata, con una dieta ricca di vegetali il rischio si dimezza.
Alimentazione, Benessere, Stili di vitaSiamo ciò che mangiamo, e l’alimentazione può essere anche una valida alleata contro alcune forme di tumore. Quello alla prostata, ad esempio, lo si può prevenire aggiungendo alla propria dieta il giusto quantitativo di vegetali. Qualcuno potrebbe pensare che questa sia una forma di prevenzione blanda, che non incide più di tanto. Sbagliato. Con la giusta alimentazione, il rischio di progressione di una neoplasia alla prostata scende del 52% e del 53% di recidiva della neoplasia. A certificarlo è uno studio statunitense condotto su oltre 2mila persone, presentato all’American Society of Clinical Oncology Genitourinary Cancers Symposium (Asco Gu).
NUOVE PROSPETTIVE
Questo studio apre nuove possibili prospettive sulle raccomandazioni dietetiche dei pazienti, che in Italia sono più di 564mila (se si guarda agli uomini che vivono dopo una diagnosi di tumore della prostata). E il loro numero è in costante crescita. Si tratta dunque una patologia molto diffusa e fermarne il rischio di progressione deve essere una priorità. Servono però ulteriori indagini per verificare in modo più approfondito quale sia la dieta migliore che deve contemplare un equilibrio tra i vari macronutrienti. Ad esempio, chi sta affrontando una terapia ormonale rischia di andare incontro a una forte perdita della massa muscolare. Ha quindi bisogno di un’alimentazione proteica e non solo ricca di vegetali.
INNOVAZIONE
Innovazione, tecnologia e un costante miglioramento della pratica clinica quotidiana hanno permesso di arrivare a risultati importanti nella lotta ai tumori della prostata. I trattamenti sono più efficaci e consentono di aumentare le aspettative di vita anche per le forme più gravi e avanzate di tumore. Gli ultimi dati sottolineano che in Italia si ha una sopravvivenza a 5 anni di oltre l’80% per le quattro principali neoplasie urologiche: prostata, vescica, rene e testicolo. Da qui l’esigenza di affrontare anche altri aspetti come ad esempio l’alimentazione, oppure la conservazione delle capacità sessuali e riproduttive di un paziente.
Cannabis (CBD) contro il carcinoma prostatico. Lo studio
Ricerca innovazioneUn componente non-psicoattivo della Cannabis sarebbe in grado di colpire il metabolismo del carcinoma prostatico. Lo rivela un team di ricercatori dell’Istituto di chimica biomolecolare del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Icb). La scoperta apre la strada al possibile uso di cannabinoidi non psicotropi come coadiuvanti per il trattamento del cancro alla prostata. Lo studio è pubblicato su Pharmacological Research
Lo studio sul potenziale della Cannabis (CBD)
Dai risultati dello studio emerge come un componente non-psicoattivo della Cannabis (CBD) sia in grado di contrastare la fase in cui il carcinoma prostatico diventa refrattario alla terapia ormonale.
La ricerca è stata coordinata da Alessia Ligresti (prima ricercatrice del Cnr-Icb) in collaborazione con Roberto Ronca (docente dell’Università degli studi di Brescia). Dimostra l’esistenza, in questa fase della malattia, di vulnerabilità metaboliche e oncogeniche che possono essere potenzialmente sfruttate terapeuticamente da trattamenti a base di fitocannabinoidi. In questo caso, il componente individuato è in grado di colpire la plasticità metabolica del carcinoma modulando la bioenergetica dei mitocondri, la “centrale elettrica” delle cellule.
“Le cellule tumorali, specialmente quelle in fase avanzata, sono in grado di modificare il loro metabolismo per supportare la maggiore richiesta di energia”, spiega Alessia Ligresti (Cnr-Icb). “Questa capacità, nota anche come riprogrammazione metabolica, gioca un ruolo chiave sia nell’oncogenesi del cancro alla prostata, cioè il processo che porta alla trasformazione delle cellule normali in cellule cancerose, sia nell’acquisizione della resistenza ai farmaci. Tuttavia, le dinamiche tra metabolismo e oncogenesi non sono completamente comprese”.
I cannabinoidi di origine vegetale sono stati usati per molti decenni come agenti palliativi per i malati di cancro, ma negli ultimi anni diversi composti simili e farmaci a base di cannabinoidi sono stati oggetto di intense ricerche per la loro potenziale attività antitumorale. “Il nostro studio dimostra come, nei modelli preclinici, il CBD (approvato dalla FDA e già prescritto per trattare le convulsioni associate a diverse forme di epilessia infantile), quando opportunamentecombinato con altri fitocannabinoidi non psicoattivi, sia particolarmente efficace nel ridurre la crescita del cancro alla prostata refrattario agli ormoni, prendendo di mira i mitocondri”, prosegue Ligresti. “Una delle proteine chiave che regolano la funzione mitocondriale, e che è responsabile sia del metabolismo cellulare che della via di segnalazione della morte/sopravvivenza cellulare, è VDAC1. Legandosi al VDAC1, il CBD determina un’accelerazione del metabolismo della cellula tumorale, innescando meccanismi di compensazione che attivano la cosiddetta morte programmata o apoptosi”.
Lo studio fa luce sull’importanza di utilizzare queste molecole in combinazioni ottimali per sfruttare appieno il loro potenziale terapeutico come agenti antitumorali. “La speranza è che questi risultati favoriscano studi futuri, compresi studi clinici, sul possibile uso di cannabinoidi non psicotropi come coadiuvanti per il trattamento del cancro alla prostata”, conclude la ricercatrice.
Alla ricerca, hanno partecipato anche l’Unità di malattie metaboliche complesse e mitocondri dell’Istituto di ricerca in biomedicina (Barcellona) e l’Unità di ricerca sui sistemi complessi e nonlineari dell’Università di Portsmouth (Regno Unito).
Da refrattari a vulnerabili, una speranza contro i tumori del colon.
Ricerca innovazioneTumori del colon.
Una nuova speranza per la cura del tumore del colon, che ancora oggi a livello mondiale è la seconda causa di morte tra le malattie oncologiche. La chiave per il successo delle terapie, in forme che invece risultano refrattarie ai trattamenti di immunoterapia, è nell’aver trovato un punto debole del tumore. Una breccia che può cambiare l’esito della battaglia.
MADE IN ITALY
Il risultato, ottenuto sui topi, è tutto italiano: lo studio, pubblicato sulla rivista Cancer Cell che gli ha anche dedicato la copertina, è infatti frutto della collaborazione tra Università di Torino e Istituto Fondazione di Oncologia Molecolare (Ifom) di Milano, con il contributo delle Università di Milano e di Palermo, l’Istituto per il Cancro di Candiolo, l’Istituto Nazionale Genetica Molecolare Ingm di Milano, l’Asst Grande Ospedale Niguarda di Milano e l’azienda Cogentech.
TUMORI FREDDI
L’immunoterapia è un’opzione terapeutica estremamente promettente per molte patologie tumorali, ma per il tumore al colon-retto il suo impiego è fortemente limitato: questo perché, nel 95% dei casi, i tumori risultano refrattari a questo trattamento e vengono infatti definiti “freddi”. La differenza è probabilmente dovuta a meccanismi di riparazione del Dna: «Nella maggior parte dei pazienti, questi meccanismi sono ancora funzionanti», spiega Alberto Bardelli, direttore di ricerca all’Ifom e docente all’Università di Torino, che ha coordinato lo studio. Solo nel 5% dei pazienti il tumore ha perso questo meccanismo e produce quindi proteine alterate che attivano il sistema immunitario. Cercando di convertire i tumori ‘freddi’ in tumori “cald”’, i ricercatori guidati da Vito Amodio, di Ifom, Università di Torino e Istituto di Candiolo, hanno scoperto che alcuni dei tumori più resistenti nascondono parti più vulnerabili. Utilizzando nei topi un farmaco già utilizzato nel trattamento di alcune leucemie, sono riusciti ad allargare le zone “calde” di questi tumori, che diventano quindi trattabili con l’immunoterapia. Gli autori dello studio stanno ora verificando se è possibile estendere agli esseri umani i risultati ottenuti negli animali da laboratorio.
Un cattivo riposo può portare all’arteriosclerosi.
Benessere, News Presa, Stili di vitaDormire bene non solo ci rende più sereni e produttivi, ma a quanto pare anche più sani. Addirittura, stando ad uno studio coordinato dal Vanderbilt University Medical Center di Nashville (Usa) e pubblicato sul Journal of the American Heart Association, un sonno irregolare favorirebbe lo sviluppo dell’aterosclerosi, una condizione che può dare luogo a ictus o infarto
OTTO ORE
Da tempo è noto il legame tra cattiva qualità del sonno e malattie cardiovascolari. Nello studio, i ricercatori hanno voluto approfondire questo rapporto, concentrandosi soprattutto sugli effetti dell’irregolarità del sonno, vale a dire l’alternarsi di diverse durate del riposo notturno durante la settimana. Se di norma si dovrebbe riposare otto ore nell’arco di una giornata, è evidente che solo pochi lo fanno.
LO STUDIO
Il team ha analizzato i dati di oltre 2mila persone tra i 45 e gli 84 anni per capire come le abitudini notturne si ripercuotessero sul rischio di sviluppare aterosclerosi (chiamata anche arteriosclerosi) cioè una perdita di elasticità delle pareti delle arterie a causa dell’accumulo di calcio, colesterolo, cellule infiammatorie e materiale fibrotico. Lo studio ha scoperto che le persone la cui durata del sonno subiva variazioni settimanali maggiori di due ore avevano un rischio fino al 40% più alto di avere calcificazioni alle arterie coronarie, del 12% in più di avere placche alle carotidi e quasi doppio (+91%) di avere occlusioni alle arterie degli arti inferiori.
Citicolina, il punto sulla molecola neuroprotettiva
Benessere, Medicina funzionale, News PresaIn Italia, secondo i dati stimati dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), sono circa 1 milione le persone, in terza età, affette da demenza. Sono invece circa 900mila quelle colpite da una condizione a rischio conosciuta come deficit cognitivo isolato, mentre i casi di ictus registrati sono 90mila l’anno. Arginare e poi recuperare la degenerazione neurologica e cognitiva è una sfida di impatto sociosanitario. La citicolina è una delle molecole più studiate nell’ambito della neuroprotezione. Per fare il punto torna l’appuntamento scientifico internazionale a cura dei prof Francesco Landi e Camillo Marra, con il contributo non condizionante di PIAM Farmaceutici.
L’incontro è dedicato ad aggiornare le conoscenze sulla molecola versatile – la citicolina – con potenzialità terapeutiche in campo neurologico, oftalmologico, geriatrico e neurodegenerativo.
Cos’è la citicolina
La citicolina è un naturale precursore dell’acetilcolina, un importante neurotrasmettitore che aiuta a regolare le trasmissioni tra i neuroni nel cervello, dedicandosi al processo del pensiero e aumentando le funzioni della memoria visuale, auditiva e spaziale. L’uso della citicolina è indicato nel trattamento di supporto delle sindromi parkinsoniane. La citicolina, inoltre, può essere utilizzata anche in caso di disturbi cerebrovascolari di origine degenerativa, traumatica o aterosclerotica, che possono portare all’insorgenza di alterazioni delle funzioni cognitive. Si tratta di una delle molecole più studiate nell’ambito della neuroprotezione, molecola dal meccanismo d’azione multifattoriale e con evidenze sperimentali e cliniche in numerose patologie croniche o traumatiche.
Il punto sulla ricerca
I temi da affrontare riguardano l’impiego della citicolina nello stroke ischemico acuto con le nuove evidenze scientifiche del neurochirurgo spagnolo Julio Josè Secades Ruiz. Durante l’evento verrà presentato lo studio pilota sugli esseri umani colpiti da ictus ischemico e trattati con citicolina, da parte dello staff di ricerca cui fa parte Mauro Magoni degli Spedali Civili di Brescia. Tra i temi, anche le problematiche connesse alla gestione del paziente anziano con demenza vascolare: dai sintomi clinici ai disordini comportamentali analizzate dalla geriatra polacca Katarzyna Broczek. Inoltre, gli sviluppi nell’utilizzo della citicolina nel Parkinson con lo Studio Citipark presentato dal neurologo Massimo Marano del Policlinico BioCampus di Roma. Si discute anche del ruolo della citicolina nel deterioramento cognitivo e nelle Terapie di combinazione: prospettive future, condotto da Pietro Gareri, geriatra del centro disturbi cognitivi all’ASP di Catanzaro.
Perché il freddo può compromettere la salute della pelle.
PrevenzioneChiara o scura, più resistente o magari delicata, la nostra pelle può risentire di queste intense giornate di freddo. Benché oggi si ponga più attenzione agli stili di vita e alla prevenzione, solo pochi si prendono cura delle pelle in modo adeguato. Ma quali sono le malattie della pelle che possono essere causate o acuite dal freddo? I dermatologi spiegano che principalmente i rischi sono connessi a due patologie in particolare: la rosacea e la cheilite.
ROSACEA SINTOMI E CURA
La rosacea è una malattia infiammatoria cronica e non contagiosa che interessa prevalentemente la pelle del viso. Ma qual è l’identikit del paziente tipo? Le più colpite sono le donne, spesso anche in concomitanza con la menopausa. Molto esposte sono le persone con una pelle chiara tra i 30 e i 60 anni. I sintomi principali sono il rossore, l’eruzione cutanea e, in fase più avanzata, ispessimento della pelle. La rosacea è una malattia che può causare grandi problemi sociali, perché si localizza soprattutto sul viso. Così, benché in genere è possibile controllarla e gestirla con diversi approcci terapeutici, la sua presenza e l’impatto sull’aspetto fisico possono avere talvolta anche importanti risvolti psicologici. Un freddo particolarmente intenso può creare grandi problemi alle aree più esposte, come il viso, le labbra o le mani. Purtroppo, ad oggi non è possibile curare la malattia in modo definitivo, ma può intervenire efficacemente e tenerla sotto controllo. Il trattamento spesso viene affidato a un dermatologo (medico specialista per quanto riguarda le malattie della pelle) e si basa sull’impiego di farmaci e creme. Tre utili consigli sono: detergere delicatamente la pelle al mattino e alla sera con un sapone delicato e non abrasivo, privo di profumo o alcool. Sciacquare il viso con acqua tiepida e lasciare asciugare completamente la pelle prima di applicare farmaci o trucco. Applicare creme idratanti in caso di dolore.
CHEILITE COSA FARE
Strettamente legata al freddo è poi la cheilite, infiammazione delle labbra caratterizzata da secchezza, screpolature o fissurazioni che in particolar modo si localizzano agli angoli della bocca. Una patologa abbastanza semplice da curare ma che può causare difficoltà nel mangiare, ridere e masticare. Anche per questa patologia è essenziale intervenire in modo precoce ed appropriato, ragione per la quale è sempre bene rivolgersi ad uno specialista. Una diagnosi e un trattamento precoci serviranno ad evitare che la patologia possa evolvere. Il perno del trattamento, ovvero ciò che effettivamente lo rende efficace, è la possibilità di capire quale sia l’origine del disturbo. Le cure della cheilite variano, quindi, a seconda della causa che l’ha scatenata.
Bronchioliti, i pediatri dicono no a cortisone e antibiotici.
Bambini, PediatriaMai come negli ultimi mesi i genitori di bimbi piccoli hanno dovuto affrontare severe bronchioliti. Ora la Società Italiana di Pediatria (SIP), la Società di Neonatologia (SIN), la Società per le Malattie Respiratorie Infantili (SIMRI) e altre 13 società scientifiche pediatriche hanno definito nuove line guida per contrastare il virus respiratorio sinciziale (VRS) responsabile di più del 60% delle infezioni nei bambini nel primo anno di vita. In queste direttive si dice chiaramente “no a cortisone, antibiotici e broncodilatatori per curare la bronchiolite” e si punta molto sull’informazione ai genitori.
COVID E NON SOLO
A rendere necessario questo aggiornamento è stato il trend degli ultimi 2 anni, che in Italia e nel mondo ha visto pesanti epidemie che hanno messo in difficoltà i sistemi sanitari per saturazione dei posti letto nei reparti e nelle terapie intensive. «È importante – sottolinea Annamaria Staiano, presidente SIP – fornire ai pediatri un aggiornamento sulle migliori pratiche per la gestione della bronchiolite». Tra queste l’uso preventivo di anticorpi monoclonali. Purtroppo – spiega Eugenio Baraldi, direttore del Dipartimento di Salute della Donna e del Bambino dell’Azienda-Ospedale Università di Padova – si utilizzano spesso farmaci come il cortisone, gli antibiotici i broncodilatatori per i quali non vi sono evidenze e che possono causare effetti collaterali».
COME COMPORTARSI
Fondamentale il ruolo dei genitori. Ecco quindi i consigli: indossare la mascherina e non baciare i piccoli se si è raffreddati; lavare le mani prima di toccare il bambino; tenerlo lontano da chiunque abbia il raffreddore; non fumare in casa; nel caso di prematuri, malattie cardiache o polmonari chiedere al pediatra se vi sono le indicazioni all’utilizzo degli anticorpi monoclonali per la prevenzione delle infezioni da VRS.
Noora, dal Kurdistan a Napoli per ritrovare il sorriso
News Presa«Quando abbiamo ricevuto la richiesta di occuparci di questo caso – spiega Strianese – ci siamo subito attivati per offrire la nostra piena disponibilità. Noora necessitava della rimozione di una massa che coinvolgeva gli annessi oculari, possibile e preoccupante aggravamento di un precedente tumore». A parlare è Diego Strianese, responsabile dell’Unità Operativa Semplice di Patologia degli annessi oculari/oculoplastica dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Federico II di Napoli. È proprio da Napoli che arriva la storia di Noora, giovane donna arrivata in Italia grazie ad una catena di solidarietà partita da Dohuk, territorio del Kurdistan nel Nord dell’Iraq. Per lei è stato realizzato un delicato intervento di chirurgia oftalmologica. «Una tipologia di intervento – prosegue Strianese – eseguita da pochissimi centri in Italia e in Europa. Il centro di malattie degli annessi oculari dell’A.O.U. Federico II è da circa 30 anni un punto di riferimento nazionale per questo tipo di patologie oculari, una competenza che si rinnova con determinazione ed entusiasmo di generazione in generazione. Difatti, anche grazie all’apporto delle dottoresse Adriana Iuliano, Vittoria Lanni e Mariapaola Laezza, e dei validi specialisti in formazione è stato possibile curare con successo Noora.
SOLIDARIETÀ
La giovane donna era affetta da un tumore che viene definito “linfoproliferativo”, che le aveva colpito gli annessi oculari, vale a dire quelle strutture che proteggono il bulbo oculare, e l’orbita. È stata operata dall’equipe del professor Diego Strianese, la cui struttura è afferente all’Unità Operativa Complessa di Oftalmologia diretta dal professor Ciro Costagliola. Ad attivare la catena di solidarietà che ha consentito alla giovane donna di essere operata presso il centro d’eccellenza dell’A.O.U. Federico II di Napoli è stata l’associazione “Iniziative di Solidarietà OdV SIENA”, presieduta da Iole Pinto, coadiuvata dal fondamentale sostegno della Regione Campania e del Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale. E quella di Noora è una storia, di grandi sofferenze e paure, ma anche di solidarietà e impegno internazionale. La ragazza, oggi 27enne, nel 1991 aveva vissuto il dramma dell’esodo del suo popolo dall’Iraq verso Turchia e Iran. Una fuga dalle bombe chimiche e dalle stragi delle milizie di Saddam Hussein. Aveva allora quasi dieci anni, e proprio in quegli anni si trovò a fronteggiare i suoi problemi oncologici, anche in qual caso impossibili da curare nel suo paese. Nora fu trasferita in Italia, grazie ai progetti umanitari del Ministero degli Esteri in corso in quegli anni in Iraq e, quindi, operata e curata. Nei mesi scorsi, una nuova diagnosi di tumore. Di qui l’esigenza di rintracciare una struttura con le competenze e le tecnologie necessarie a salvarla.
GIOCO DI SQUADRA
«La famiglia – racconta la presidente Pinto – ci ha chiesto nuovamente aiuto per Noora. Abbiamo quindi intrapreso una ricerca su possibili strutture sanitarie in Italia che potessero curarla, e proprio da Siena, dove ha sede la nostra associazione, ci è stata indicata l’oftalmologia della Federico II di Napoli, riconosciuta come eccellenza a livello internazionale per la cura di questo tipo di patologie». Per trovare una soluzione alla storia di Noora è stato fondamentale l’impegno di tutti. «Sento di ringraziare il direttore generale Giuseppe Longo, fondamentale nell’affrontare e risolvere le complesse procedure che caratterizzano il trasferimento di pazienti a livello internazionale, la dottoressa Paola Magri dello staff di Direzione generale e il professor Luigi Califano, direttore del dipartimento», conclude il professor Costagliola. Nei prossimi giorni Noora sarà sottoposta ad una visita di controllo e poi potrà fare ritorno a casa insieme a sua madre che l’ha accompagnata nel suo lungo viaggio.
Carcinoma adrenocorticale: studio traccia i contorni delle recidive
Ricerca innovazionePortare a una maggiore comprensione dei pazienti con recidive da carcinoma adrenocorticale. Lo studio retrospettivo coordinato da Massimo Terzolo e sostenuto da AIRC, ha raggiunto il suo obiettivo. I risultati delle indagini sono stati pubblicati sulla rivista European journal of Endocrinology.
“A volte la ricerca sui tumori richiede di fermarsi – si legge sul sito della Fondazione Airc– guardare un poco indietro nel tempo e fare un bilancio tra i risultati delle terapie in uso e i loro effetti”. Le indagini di questo tipo si chiamano studi retrospettivi. Consentono di aggiornare le terapie o trovare fattori predisponenti e predittivi di una certa malattia, proprio in base agli esiti di pazienti dopo un certo numero di anni. Possono anche aiutare a comprendere come gestire le recidive, cioè la ricomparsa di cellule tumorali dopo un trattamento.
Lo studio sul carcinoma adrenocorticale
In particolare, un raro cancro del sistema endocrino, il carcinoma adrenocorticale, si ripresenta nel 30-80 per cento dei pazienti, ma è poco studiato dalla comunità scientifica. Da qui nasce l’analisi retrospettiva, partita dalla selezione di 106 persone con carcinoma adrenocorticale in cura presso l’Ospedale San Luigi di Orbassano. Per essere idonei allo studio, i pazienti dovevano aver sviluppato una recidiva dopo la rimozione chirurgica del tumore, in un periodo compreso tra il 2001 e il 2019. Dopo un lungo studio, suddiviso per gruppi, a marzo 2020 sono stati raccolti i risultati. Le principali scoperte sono state:
Da mediterranea a planeterranea, la dieta per vivere a lungo
Alimentazione, Benessere, Stili di vitaLa dieta mediterranea è il simbolo universale di una sana alimentazione. Per questo nel 2010 è stata dichiarata patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’UNESCO. Questo stile alimentare fa bene alla salute e abbassa il rischio di molte malattie. Non tutti i Paesi del mondo, però, hanno la possibilità di replicarla. Oltre ad abitudini e disponibilità di prodotti differenti, ci sono difficoltà oggettive, come il costo delle materie prime di importazione.
La Cattedra UNESCO di Educazione alla salute e allo sviluppo sostenibile dell’Università Federico II di Napoli ha cercato di adattare la tipica piramide alimentare della dieta mediterranea agli ingredienti disponibili in diverse parti del globo. L’obiettivo del progetto è creare una dieta “planeterranea”.
“Nonostante il ruolo chiave della dieta mediterranea per la prevenzione e la gestione delle malattie croniche non trasmissibili, non è facile traslare questo modello alimentare in altre popolazioni” scrivono gli autori dello studio “Planeterranea” in un articolo pubblicato sulla rivista Frontiers in nutrition. “Appare perciò più credibile, e anche desiderabile, che ogni nazione riscopra le proprie tradizioni per sviluppare modelli alimentari più sani basati sui cibi locali e tradizionali. Ciò sarebbe in linea con le esortazioni dell’UNESCO a preservare l’identità culturale, la continuità nelle comunità locali e l’ambiente.”
La pandemia silenziosa delle patologie cardiovascolari
Gli scienziati da tempo mettono in guardia da una pandemia silenziosa, quella delle malattie croniche non trasmissibili (NCD, dall’inglese non communicable disease). Si tratta di patologie cardiovascolari, quelle respiratorie croniche, i tumori e il diabete. Nell’insieme sono responsabili del 70 per cento circa dei decessi e la loro incidenza è in aumento.
La prevenzione parte da comportamenti e abitudini nello stile di vita, come evitare di fumare e di consumare alcol, e fare attività fisica. Un altro fondamentale fattore di rischio modificabile è la dieta. A differenza di quanto accade per i fattori di rischio non modificabili, come l’età o il sesso, l’alimentazione può fare la differenza.
Come è strutturata la dieta mediterranea
Le prove scientifiche confermano che la dieta mediterranea è associata a un maggiore controllo del peso corporeo e a un rischio più basso di sviluppare malattie croniche. Tra queste rientrano le patologie cardiovascolari, il diabete di tipo 2 e alcuni tipi di tumori. Inoltre, sembra avere un ruolo protettivo contro patologie in cui sono coinvolte le risposte immunitarie, come l’ipersensibilità agli allergeni e l’asma.
La dieta mediterranea si basa sul:
L’energia è ricavata dai carboidrati non raffinati (55-60 per cento), dai grassi (30-35 per cento) e dalle proteine (15 per cento circa). I carboidrati provengono da alimenti a basso indice glicemico (che alzano in misura modesta i livelli di glucosio nel sangue), come prodotti a base di cereali integrali e legumi. I grassi sono rappresentati soprattutto dagli acidi grassi monoinsaturi, in misura minore dagli acidi grassi saturi e solo in minima parte dagli acidi grassi polinsaturi. La dieta mediterranea assicura vitamine, minerali e altri elementi utili.
La dieta “planeterranea” e il caso del Nord America
I ricercatori dell’Università Federico II hanno intervistato persone provenienti da cinque diverse parti del mondo (Nord America, Sud America, Africa, Asia e Australia), per raccogliere informazioni sulle coltivazioni locali, le abitudini alimentari e le ricette tradizionali. Dopo aver realizzato ricerche specifiche, anche utilizzando PubMed, hanno elaborato cinque piramidi alimentari. Si basano sui prodotti facilmente reperibili in ogni macroarea, con proprietà nutrizionali simili a quelle della dieta mediterranea.
L’alimentazione delle popolazioni del Nord America, patria della “dieta occidentale”, si basa su cereali raffinati, carne rossa e processata, bevande zuccherate e “cibo spazzatura”. I risultati di uno studio, appena pubblicati sulla rivista Nature Food, sulla qualità dell’alimentazione in 185 nazioni, pongono gli Stati Uniti tra i Paesi dove si mangia in modo meno sano. In generale, la qualità della dieta è insoddisfacente a livello globale. Sono solo dieci le nazioni che raggiungono o superano i 50 punti, in una scala da 0 (meno sana) a 100 (più sana). L’Italia ne ottiene solo 46.
Per quanto riguarda il Nord America, i ricercatori hanno individuato quattro alimenti con caratteristiche nutrizionali ottime: l’olio di canola, le noci pecan, l’okra e i fagioli pinto. I ricercatori suggeriscono agli abitanti del Nord America di usare l’olio di canola come principale fonte di grassi, aumentare il consumo di vegetali e legumi e preferire prodotti locali, come l’okra e i fagioli pinto. Infine di consumare frutta secca, in particolare le noci pecan, come spuntino al posto di snack industriali malsani. Simili considerazioni sono state fatte per ciascuna delle macroaree: per esempio, agli abitanti del Sud America viene proposto l’avocado come fonte di grassi, un’alternativa a basso costo all’olio di oliva. In conclusione, combinare cibi diversi della tradizione di ogni paese porta vantaggi non solo per la salute delle persone ma anche per l’ambiente.