Distrofia Duchenne. Italia, con 13 centri, prima in Ue per assistenza
La Duchenne è una malattia genetica rara che colpisce un bambino ogni 3.500. L’Italia ha, in media, almeno più del doppio dei centri di assistenza per la diagnosi e trattamento di questa patologia, rispetto a tutti gli altri Paesi dell’Ue. Interessa soprattutto i maschi, perché il gene “difettoso”, responsabile della Duchenne, si trova sul cromosoma X. Nelle femmine (che ne hanno due) il secondo cromosoma X può sopperire, almeno in parte, all’attività di quello che non funziona (nei maschi questa possibilità non esiste), tuttavia le donne possono esserne portatrici sane.
Ma qual è la causa? Nel cromosoma X risiede il gene della distrofina, una proteina essenziale dei muscoli. La mutazione genetica determina la completa assenza di distrofia nel tessuto muscolare, fondamentale per la stabilità strutturale dei muscoli scheletrici, diaframmatici e cardiaci.
I centri italiani per la diagnosi e trattamento della distrofia muscolare di Duchenne sono in tutto tredici. Neurologi, pediatri, psicologi, ma anche cardiologi, pneumologi e fisioterapisti collaborano tra di loro e formano i team multidisciplinari. Gli esperti del settore hanno fatto il punto della situazione in Italia in occasione della prima masterclass dedicata alla distrofia muscolare di Duchenne e Becker organizzata da Parent Project e Associazione Italiana di miologia (Aim) .
I 13 centri medici che svolgono un ruolo chiave nel trattamento della malattia rara “coprono quasi tutto l’intero territorio italiano – spiega Claudio Bruno, Responsabile Uosd Centro Traslazionale di miologia e patologie neurodegenerative, Istituto Giannina Gaslini di Genova – e coinvolgono nella diagnosi e successivo follow-up della patologia tutta una serie di figure professionali che lavorano in sinergia per riuscire ad individuare i casi di distrofia in modo precoce. Ciò è di fondamentale importanza per l’inizio delle nuove terapie emergenti”.
Sono 12 i Paesi che aderiscono allo ERN-NMD (European reference network for rare or low prevalence complex diseases – Neuromuscular disease): Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Spagna, Svezia, Regno Unito, Paesi Bassi e Italia. La media del numero dei centri di assistenza non è superiore a 4 per ciascun Paese. L’Italia, quindi, detiene il primato grazie soprattutto all’azione delle associazioni pazienti.
A giocare un ruolo chiave è la diagnosi precoce, per il miglioramento non solo della qualità, ma anche dell’aspettativa di vita dei pazienti: “Attualmente la diagnosi avviene in un arco di tempo compreso tra i 3 e i 5 anni: questo è sicuramente qualificabile come ritardo diagnostico – spiega Giuseppe Vita, Professore ordinario di neurologia dell’Università di Messina e direttore Uoc di neurologia e malattie neuromuscolari del Policlinico di Messina – La malattia può essere scovata sin dai primi mesi di vita, ma talvolta il pediatra tende a sottovalutare i piccoli problemi che i genitori possono riferire”. Sarebbe sufficiente “includere un dosaggio del Cpk (creatinfosfochinasi) in un esame di routine per capire se sia il caso o meno di iniziare un vero e proprio iter diagnostico del paziente che può portare poi alla diagnosi di una malattia neuromuscolare”, sottolinea. Il Cpk è un enzima endocellulare che si trova, in particolare, nei muscoli scheletrici, nel cuore, nel cervello, nei polmoni e nel siero. La rilevazione dei livelli di CPK nel sangue serve a valutare il danno muscolare. “Questi bambini sin dalla nascita hanno un Cpk elevato, anche 5 mila o 10 mila unità”, specifica Vita.
Che tipo di segnali i genitori non devono ignorare? Ci può già essere qualche “sfumatissimo segno di difficoltà motoria nei primi anni di vita, come una caduta che si ripete nel tempo, piccole difficoltà nei movimenti di tutti i giorni, movimenti fisiologici come il sollevarsi da terra o da accovacciati utilizzando le braccia per assumere la posizione eretta – spiega Gabriele Siciliano, Presidente Aim e professore ordinario di neurologia dell’Università di Pisa – Con il passare del tempo questi segni possono diventare più evidenti: difficoltà nel salire le scale, nel sollevare pesi con gli arti superiori, ma è soprattutto la fase iniziale che, ai fini della diagnosi, dev’essere individuata bene dallo specialista”.
“La distrofia di Duchenne molto spesso è inaspettata perché la mamma può essere portatrice sana del gene “difettoso” – spiega Filippo Buccella, direttore della ricerca e clinical network di Parent Project Onlus – C’è tanto da fare – continua – da un punto di vista di integrazione sociale, in termini di inserimento lavorativo dei pazienti, di scolarizzazione, di supporto psicologico anche per le famiglie e, soprattutto, noi lavoriamo anche nell’ambito della ricerca e c’è tanto da fare anche dal punto di vista della ricerca – sottolinea Buccella – Ci sono oggi forse più di 20 approcci di ricerca promettenti, alcuni sono già arrivati a destinazione”. “Si tratta semplicemente di continuare a lavorare in questa direzione – conclude.