Epidemia in Congo, l’infettivologo: giusta l’attenzione, ma nessun allarme
Il patogeno misterioso che sta colpendo in Congo ha creato un certo allarme mediatico. Un’attenzione, forse, legata al fatto che la pandemia da Covid è ancora molto viva nella mente di tutti. Ne abbiamo parlato con Alessandro Perrella, direttore della I Unità Operativa Complessa di Malattie infettive emergenti ad alta contagiosità dell’Azienda Ospedaliera dei Colli di Napoli.
Dottor Perrella, cosa sappiamo di ciò che sta accadendo in Congo?
Il tema al momento è ciò che non sappiamo. Non possiamo ancora dire se si tratta di un virus, potrebbe anche essere un diverso tipo di patogeno. Tra le ipotesi c’è anche quella di un mycoplasma.
Vale a dire?
Il mycoplasma pneumoniae è un comune patogeno intracellulare che causa polmonite.
Come si contrae?
Sono patogeni aero-diffusibili. Ma questa è solo una delle ipotesi in campo, occorrerà isolare l’agente patogeno. Purtroppo, o per fortuna se guardiamo alla possibilità di una diffusione, parliamo di un’area molto isolata, difficile da raggiungere.
È stato appurato se questo patogeno si diffonde per via aerea?
Non è stato definito in modo certo, ma verosimilmente lo è. I sintomi sono quelli classici di un’influenza e verosimilmente questo patogeno non si diffonde per contatto.
Si è detto che i casi riguardano ragazzi molto giovani, le risulta?
Sì, queste sono le informazioni che abbiamo. La maggior parte dei casi ha interessato bambini, il 70% circa di questi al di sotto dei 15 anni
I sintomi?
Sono sintomi molto simili a quelli dell’influenza: febbre, emicrania, dolori osteo-articolari, rinorrea, ma c’è anche un’anemizzazione. Aspetto che, a dire il vero, potrebbe non essere sorprendente.
Cosa intende?
Per i pazienti in età pediatrica non è raro che si possa produrre un’anemizzazione. Quindi, in definitiva, i sintomi non ci aiutano a comprendere con cosa ci troviamo ad avere a che fare.
Crede che i timori siano giustificati?
È giusto che ci sia attenzione, ma non penso debba esserci nessun allarme. In realtà, il fatto che sia molto diffuso tra i bambini mi porta a pensare che si tratti di un patogeno che approfitta di un sistema immunitario non ancora ben sviluppato. Inoltre, parliamo di un’area rurale, Questo può far pensare anche che i pazienti possano non avere un giusto apporto calorico nutrizionale, e quindi potrebbero essere pazienti più esposti. La cosa importante è evitare una diffusione del contagio, aspetto sul quale si sta lavorando molto bene.
Possiamo dire che questa attenzione dei media è più che altro legata al ricordo, ancora vivo, del Covid?
Probabilmente, il Covid ha lasciato cicatrici profonde anche sotto il profilo psicologico. Ma è interessante notare che non è aumentata la volontà dei cittadini di fare prevenzione, è solo aumentata la paura di tornare in una condizione di lockdown con tutti i problemi socioeconomici che ne conseguono. Le persone continuano a disinteressarsi dei vaccini o di comportamenti corretti, come lavarsi le mani di frequente.
Quali sono le azioni che si possono mettere in campo per arginare il problema?
Quello che si sta facendo a mio modo di vedere è giusto. I paesi Europei devono solo dare il supporto scientifico che dovesse essere richiesto, ma non dobbiamo fare allarmismo. L’OMS sta lavorando benissimo. Il clamore mediatico è comprensibile, benché eccessivo.
Resta un fatto, però, che sempre più spesso si sente parlare di virus e malattie infettive.
Con una globalizzazione così spinta come la nostra, alcune malattie fanno paura. Concettualmente il rischio c’è, ma in questo caso specifico non possiamo ignorare che parliamo di aree rurali, che il Congo ha già messo in atto un cordone sanitario attorno a queste aree. Abbiamo poco più di 400 contagi con circa 30 morti, una mortalità significativa che però non è tale da creare allarme.
A proposito di allarme, il Covid deve spaventare ancora o a questo punto è solo un’influenza?
Il Covid è una patologia infettiva delle vie respiratorie che ha ancora la capacità di suscitare una fortissima risposta del sistema immunitario e di lasciare piccole sequele. Nei soggetti fragili e con predisposizione genetica questo può portare ad una maggiore gravità di malattia. Ma quello che non sappiamo, e che stiamo scoprendo, è quello che il Covid lascia in termini di eredità.
Parla del long Covid?
Parlo del fatto che il Covid riesce a stimolare in un certo modo il sistema immunitario. Una subdola iperattivazione che può comportare la slatentizzazione di malattie autoimmuni. Dal mio punto di vista, c’è tutta un’altra partita del Covid che verrà fuori nei prossimi anni.
Tra le cause di questi allarmi sempre più frequenti, c’è chi punta il dito sul cambiamento climatico. È un fattore che incide su virus e rischi per la salute?
Sì, questo è certo. Basta guardare all’epidemia di Dengue, di West Nile, con vettori (zanzare, ndr) che non dovrebbero sopravvivere alle nostre latitudini e che invece oggi si adattano benissimo.
Se dovesse individuare un tema centrale sul quale ragionare per i prossimi anni?
Se dovessi preoccuparmi di qualcosa, penso che mi preoccuperei più che altro dei retrovirus integrati nel nostro DNA, che sono espressione di centinaia di migliaia di anni di incontro con i virus.
In che modo possono attentare alla nostra salute?
Una parte dell’immunologia studia quei frammenti che restano nel nostro DNA, retrovirus che si integrano nel genoma. Oggi stiamo scoprendo che in taluni casi e condizioni ambientali possono essere un problema.
Ci fa un esempio pratico?
Pensiamo ad un paziente oncologico: se nel DNA sono presenti frammenti di questi retrovirus che producono alcune proteine specifiche si può creare, ad esempio, un maggiore rischio di infezione a seguito di intervento o se il paziente viene intubato. Può esserci, insomma, un rischio aumentato di contrarre malattie infettive. Questo è un capitolo importante sul quale è interessante acquisire nuove conoscenze.
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