In “Misure Straordinarie” il cinema portò in scena per la prima volta il vissuto di un genitore di un bimbo affetto da una patologia poco conosciuta: la glicogenosi. Per far conoscere questa malattia in Italia, nel 1996, un gruppo di genitori ha creato l’Associazione Italiana Glicogenosi. Da vent’anni AIG si batte per il diritto all’istruzione, alla ricerca e all’assistenza: ne ha parlato la presidente Angela Tritto, madre di un ragazzo affetto da glicogenesi che ha dovuto aspettare due anni prima di ricevere una diagnosi corretta. «Questa malattia viene spesso scambiata con altre simili perché la sua rarità coglie il medico impreparato. Inoltre le case farmaceutiche hanno meno interesse ad investire nella ricerca, poiché interessa un numero ristretto di persone – racconta. Le glicogenosi derivano dalla mancanza di un enzima necessario a metabolizzare gli zuccheri che tendono ad accumularsi nei vari organi. A seconda di dove manca l’enzima, ad esempio a livello epatico o muscolare, si può accumulare lo zucchero portando alla malattia. Non esistono terapie, tranne per una glicogenosi di tipo muscolare, (malattia di pompe) per la quale è stato creato un enzima sostitutivo». Per le forme epatiche al momento l’unica risorsa è una dieta specifica. I pazienti assumono ogni tre ore, anche di notte, amido di mais crudo, oppure adottano un sondino naso-gastrico attraverso il quale viene somministrato uno zucchero, per non incorrere in ipoglicemia. I centri di cura in Italia non sono tantissimi. Oggi i pazienti hanno una vita più lunga, ma si trovano disorientati, perché i reparti di cura sono principalmente pediatrici. La patologia, inoltre, ha bisogno di essere seguita a livello multidisciplinare, perché coinvolge molti aspetti della salute. «Abbiamo difficoltà – dice Tritto – a far valere i diritti dei bambini. I problemi emergono già nell’inserimento scolastico, perché la scuola non può gestire il paziente. Ci sono casi in cui la madre è costretta a stare a scuola con il figlio. Oltre ai diritti negati del bambino, quindi, ci sono quelli della madre, spesso costretta a lasciare il lavoro».
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