Quando il tema è quello delle malattie rare c’è sempre da abbattere uno scoglio in più. Non basta concentrarsi sui sintomi e discutere delle possibili cure, prima ancora bisogna superare il muro della solitudine. Si deve arrivare ad una diagnosi. E questo è certamente il caso di quanti lottano contro la Porpora trombotica trombocitopenica, che colpisce circa 1 persona su 700mila – 1milione e nella maggior parte dei casi si tratta di donne (il rapporto è 1 a 3). Tra le maggiori esperte in questo campo c’è Flora Peyvandi, ordinario di Medicina interna all’Università degli Studi di Milano e direttore del reparto di Medicina Generale – Emostasi e Trombosi del Policlinico di Milano, Centro Angelo Bianchi Bonomi. È lei a spiegare che si tratta di «una grave malattia acuta del sangue, che porta alla formazione patologica di aggregati di piastrine (trombi) che, ostruendo i vasi sanguigni, provocano una pericolosa diminuzione dell’apporto di ossigeno a diversi organi». È una malattia autoimmune che nella maggior parte dei casi si manifesta tra i 30 e i 40 anni, in una fase della vita solitamente molto delicata, perché quella in cui si inizia a mettere su famiglia o a realizzare le proprie ambizioni. Per comprendere cosa significa essere malato di Porpora trombotica trombocitopenica si deve familiarizzare con qualche termine un po’ complesso. Andiamo con ordine.
ANTICORPI
«Semplificando – dice Peyvandi – si ha una produzione di anticorpi che attaccano un enzima chiamato ADAMTS-13. Il problema è che questo enzima ha il compito di tagliare la molecola chiamata fattore di von Willebrand, e così si mantiene il sangue fluido. Se ADAMTS13 non riesce a fare questo lavoro, il fattore di von Willebrand non tagliato si lega molto più efficacemente alle piastrine creando dei microtrombi in circolo e inizia a creare danni. I pazienti iniziano a sviluppare una piastrinopenia, con i segni di sanguinamenti cutanei come petecchie o lividi, ma si può arrivare addirittura a vere e proprie emorragie cerebrali con stato comatoso. Altro problema serio è rappresentato dai coaguli che, come detto, possono creare gravi danni, anche a lungo termine, agli organi con importanti conseguenze».
TERAPIE
«Gli approcci – chiarisce l’esperta – sono due. Esiste una procedura che si chiama plasma exchange, letteralmente “scambio di plasma”, tramite la quale possiamo “depurare” il sangue del paziente tramite l’accesso ad una vena centrale. Ma è un processo molto faticoso per chi lo subisce e anche rischioso. Altro approccio è l’immunosoppressione, che però ha bisogno di almeno sette giorni per essere efficace». Il fattore tempo è sempre cruciale. Un’arma in più è un nuovo farmaco, non ancora in commercio in Italia, che si chiama caplacizumab. «Una molecola che in sostanza si inserisce tra fattore di von Willebrand e piastrine e – conclude Peyvandi – ne evita il legame. Non cura la malattia, ma ci offre il tempo necessario ad intervenire tramite plasma exchange o immunosoppressione». La speranza di molti è che il farmaco arrivi presto anche in Italia. Al di là di questa possibilità, molto c’è ancora da fare sullo sviluppo di centri specializzati ai quali i pazienti possano fare riferimento. Quello di Milano è un’eccellenza regionale, ma la situazione in alcune regioni d’Italia si muove ancora tra luci e ombre. Sarà anche fondamentale, come spesso accade per le malattie rare, riuscire ad abbreviare i tempi della diagnosi. Difficile, vista la genericità dei sintomi e il numero ridotto di pazienti. In questo senso si sta cercando di mettere a punto test più rapidi e semplici per il dosaggio di ADAMTS-13, strumenti che sarebbero estremamente utili.
Raffaele Nespoli