Microplastiche: assumiamo una carta di credito a settimana
Le microplastiche non inquinano soltanto i mari creando enormi danni all’ecosistema. I minuscoli frammenti possono finire nel sangue e, di conseguenza, circolare nell’organismo umano. Di alcuni mesi fa è il ritrovamento di microplastiche nei polmoni di persone viventi e nel sangue umano. Ogni settimana un individuo ingerisce in media 5 grammi di microplastiche, l’equivalente di una carta di credito. I rischi per la salute sono già emersi dai primi studi.
Microplastiche nell’aria che si respira
Alcuni anni fa, quando le microplastiche hanno iniziato ad apparire nell’intestino di pesci e crostacei, i timori si sono concentrati sulla sicurezza dei prodotti ittici, in particolare, dei frutti di mare, poiché consumati interi (compresi stomaco). In realtà, la plastica si scompone continuamente nell’ambiente. Con il tempo si disgrega in fibre minuscole, particelle così piccole da fluttuare nell’aria ed entrare nelle vie respiratorie.
In altre parole, non è sufficiente non mangiare frutti di mare per non entrarne in contatto. Un team dell’Università di Plymouth nel Regno Unito lo ha dimostrato. Gli studiosi hanno deciso di mettere a confronto il pericolo derivante dal mangiare cozze selvatiche contaminate in Scozia con il respirare l’aria in una normale abitazione. I risultati dimostrano che, durante una cena a base di cozze, le persone assorbono più plastica inalando o ingerendo minuscole fibre plastiche invisibili che si librano nell’aria circostante – fibre provenienti da vestiti, tappeti e tappezzeria – rispetto a quella contenuta nelle cozze stesse.
Microplastiche nei polmoni
La scorsa primavera alcuni scienziati di Paesi Bassi e Regno Unito hanno ritrovato particelle di plastica in esseri umani viventi. Si tratta di due punti dove non erano mai state viste prima: in profondità nei polmoni di un paziente sottoposto a intervento chirurgico e nel sangue di donatori anonimi.
Questi due studi non esauriscono la questione dei danni, ma entrambi dimostravano come non si possa più ignorare l’entità della nube di polveri volatili, particelle così piccole da riuscire a penetrare in profondità nel corpo e addirittura nelle cellule, dove le microplastiche più grandi non arrivano.
Dick Vethaak, professore emerito di ecotossicologia presso la Vrije Universiteit di Amsterdam e co-autore dello studio sul sangue, ha spiegato che viamo in un mondo pieno di particelle – alludendo a polvere, pollini e particolato – che vengono respirate ogni giorno. Tuttavia, è importante capire in che quota la plastica contribuisce al carico di particelle e che cosa implica.
Microplastiche nel sangue
Lo studio olandese ha trovato frammenti di pet, polistirene e altri composti all’interno dell’organismo. La scoperta è dei ricercatori della Vrije Universiteit di Amsterdam guidati dall’ecotossicologa Heather Leslie e dalla chimica Marja Lamoree, nell’ambito del progetto “Immunoplast”. I risultati sono pubblicati sulla rivista internazionale Environment International. “Questo studio pionieristico di biomonitoraggio umano ha dimostrato che le particelle di plastica sono biodisponibili per essere assorbite nel flusso sanguigno umano”, spiegano i ricercatori.
In tre quarti dei 22 campioni esaminati il materiale risultato più abbondante è il Pet (Polietilene tereftalato) con cui sono fatte le bottiglie di platica. Ne è stata misurata una quantità di 1,6 microgrammi per millilitro di sangue. Non solo, oltre al Pet sono state trovate tracce del polistirene utilizzato negli imballaggi. Al terzo posto come concentrazioni risulta il polimetilmetacrilato, più conosciuto come plexiglas.
Solo in futuro e grazie a nuovi dati sarà possibile stabilire in quale entità l’esposizione alle microplastiche costituisca una minaccia per la salute. Tra i tanti quesiti, gli scienziati cercano di capire come vengono trasportate le particelle di plastica presenti nel plasma. Se le particelle di plastica presenti nel flusso sanguigno sono effettivamente trasportate dalle cellule immunitarie, tra le domande che gli scienziati si pongono è se queste esposizioni possano potenzialmente influenzare la regolazione immunitaria o la predisposizione a malattie a base immunologica.
Danni, difficili da quantificare
Le microplastiche oggi si trovano ovunque: nel sale, nella birra, nella frutta e verdura fresca e nell’acqua potabile. Le particelle volatili possono raggiungere l’altra parte della terra in poco tempo. I numeri stimati sul volume di microplastiche presenti nell’oceano si sono moltiplicati nel tempo e ogni anno tonnellate di rifiuti plastici finiscono in mare e si disgregano.
Nell’ultimo conteggio, risalente all’anno scorso, gli scienziati giapponesi dell’Università di Kyushu hanno stimato la presenza di 24.400 miliardi di frammenti di microplastiche negli strati più superficiali degli oceani, l’equivalente di circa 30 miliardi di bottiglie da mezzo litro – un numero da capogiro. Stabilire la portata dei danni delle microplastiche a livello umano è difficile. La plastica è composta da una complessa combinazione di sostanze chimiche, tra cui gli additivi che conferiscono resistenza e flessibilità. Sia la plastica che gli additivi chimici possono essere tossici.
Additivi, tra gli indiziati
Non solo le microplastiche, anche gli additivi possono riversarsi nelle acque, fino all’88%, come dimostra uno studio. La percentuale dipende da diversi fattori, tra cui la luce del sole e la durata di tempo. Lo stesso studio ha riscontrato 8.681 sostanze chimiche e additivi associati a un unico prodotto in plastica.
Trattandosi di un insieme così complesso, capire quali combinazioni chimiche possano essere più dannose di altre è molto difficile. “Sì può individuare una correlazione, ma è difficile trovare un rapporto di causa-effetto, considerando il gran numero di sostanze chimiche a cui siamo esposti quotidianamente”, spiega Denise Hardesty, scienziata che da 15 anni studia i rifiuti plastici presso la Commonwealth Scientific and Industrial Research Organization in Australia.
Un mare di plastica
367 milioni di tonnellate di plastica sono state prodotte solo nel 2020, una quantità destinata a triplicarsi entro il 2050. Secondo gli scienziati sarà molto difficile fare marcia indietro in caso di necessità. Janice Brahney, esperta di biochimica presso la Utah State University, nel 2020 stimava che entro il 2025 nell’ambiente si accumuleranno 11 miliardi di tonnellate di plastica (Brahney ha calcolato che ogni anno nei soli Stati Uniti occidentali vengono portate dal vento e ricadono dal cielo oltre 1.000 tonnellate di minuscole particelle).
I dati della sua ricerca, pubblicati su Science, hanno avuto molta risonanza mediatica, tanto che l’American Chemical Council (ACC), un’associazione di categoria, è intervenuta criticando quei numeri. Secondo l’ACC la quantità di microplastiche presenti nell’ambiente rappresenta solo una minima parte, il restante è composto da materiali naturali come minerali, sporco e sabbia, parti di insetti, pollini e altro ancora. Nel frattempo, l’associazione ha dichiarato di aver lanciato un programma di ricerca per contribuire a rispondere alle domande sulle microplastiche – anche domestiche – e aiutare a creare una rete globale tra università, istituti di ricerca e industria.
La plastica nell’uomo. La questione del danno
Misurare i possibili effetti nocivi della plastica sull’uomo è ancora più difficile che negli animali. Gli scienziati nel frattempo vanno avanti e solo il tempo potrà fare chiarezza sull’impatto delle microplastiche.
Le ricerche stanno analizzando le tossine rinvenute nelle materie plastiche e le malattie polmonari – dall’asma alla broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), fino al cancro – che uccidono milioni di persone ogni anno e sono state collegate all’esposizione ad altre sostanze inquinanti. La BPCO, causata da un’infiammazione cronica, è la quarta principale causa di morte negli Stati Uniti, come riporta l’American Lung Association nel suo ultimo report.
A partire dalla Rivoluzione industriale vengono inalate una vasta gamma di particelle estranee ogni giorno. L’organismo umano cerca di espellerle da solo. Le particelle più grandi, nelle vie aeree superiori in genere vengono espulse con i colpi di tosse, e più in basso, lungo l’apparato respiratorio, le particelle vengono avvolte dal muco che le porta verso l’alto nelle vie aeree superiori, per essere espulse. Le particelle restanti vengono circondate dalle cellule immunitarie per essere isolate. Nel corso del tempo, queste particelle possono provocare un’irritazione e scatenare sintomi a cascata che vanno dall’infiammazione all’infezione, fino al cancro. Oppure, possono rimanere presenti, senza dare effetti.
Potrebbero anche veicolare sostanze pericolose
I rischi per l’uomo derivanti dalle microplastiche (MP) possono essere di natura fisica, chimica o microbiologica. I rischi fisici sono dovuti alle ridotte dimensioni delle MP che possono attraversare le barriere biologiche – come la barriera intestinale, ematoencefalica, testicolare e persino la placenta – e causare danni diretti, in particolare all’apparato respiratorio e all’apparato digerente.
I rischi chimici derivano dalla presenza di contaminanti, come i plasticizzanti (ftalati, bisfenolo A) o i contaminanti persistenti (ritardanti di fiamma bromurati, idrocarburi policiclici aromatici, policlorobifenili) presenti nelle microplastiche. Infatti, le MP possono essere veicolo di sostanze potenzialmente pericolose di natura organica oppure inorganica. Attualmente esistono pochi dati sulla presenza e concentrazione di metalli nelle MP e sui contaminanti ad esse associati. Molti di essi, essendo interferenti endocrini, possono provocare danni a carico del sistema endocrino, causare problemi alla sfera riproduttiva e al metabolismo sia nei figli di genitori che sono stati esposti alle microplastiche durante la gravidanza, sia in età adulta a seguito di esposizione nelle prime fasi di vita (neonatale, infanzia, pubertà).
Le MP possono trasportare, attaccati alla loro superficie, microrganismi in grado di causare malattie: batteri come Escherichia coli, Bacillus cereus e Stenotrophomonas maltophilia sono stati rilevati in MP raccolte al largo delle coste del Belgio.
Le microplastiche nel tratto gastrointestinale
Esistono pochi dati sul destino delle MP nel tratto gastrointestinale. I dati disponibili riguardano esclusivamente assorbimento e distribuzione ma non sono ancora noti processi di trasformazione (metabolici) e di eliminazione. Solo MP più piccole, di dimensione inferiore a 150 micrometri sembra possano attraversare la barriera intestinale, sebbene l’assorbimento sia comunque considerato molto basso (inferiore o uguale allo 0,3%). Il passaggio ad altri organi sembra possa avvenire sono per una frazione limitata, di dimensioni inferiori a 1,5 micrometri.
Tuttavia, studi sperimentali hanno dimostrato che, una volta assorbite, le MP si accumulano in fegato, reni e intestino con la capacità di provocare stress ossidativo, problemi metabolici, processi infiammatori, nonché danni ai sistemi immunitario e neurologico. Infine, nella valutazione degli effetti negativi delle MP occorre tener conto della presenza delle sostanze chimiche in esse presenti o attaccate alla loro superficie, il cui rilascio nell’organismo rappresenta un potenziale rischio per la salute, e di eventuali organismi patogeni.
I cibi che contengono più plastica
le microplastiche, essendo troppo piccole per poter essere trattenute dai sistemi di filtrazione e depurazione delle acque reflue, vengono rilasciate nell’ambiente marino, contribuendo al suo inquinamento. La contaminazione ambientale riguarda anche le acque dolci, i sedimenti, il terreno e l’aria. Diversi studi suggeriscono che il loro inquinamento può essere anche maggiore rispetto a quello dei mari.
La popolazione, quindi, è esposta alle microplastiche attraverso l’ambiente (per esempio con l’inalazione di microplastiche presenti in aria) ma anche attraverso il consumo di cibi o all’utilizzo di tessuti o cosmetici, in essi contenuti. Il documento dell’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA) sulle microplastiche (MP) presenti negli alimenti riporta la loro concentrazione riscontrata in:
- pesce, la concentrazione varia da 1 a 7 MP per pesce ed è misurata nello stomaco e nell’intestino che rappresentano il sito principale di accumulo delle MP
- gamberi, 0,75 MP per grammo
- bivalvi, tra 0,2 e 4 MP per grammo
Sulla base di questi dati, EFSA ha effettuato una stima dell’esposizione umana alle microplastiche considerando il consumo di una porzione da 225 grammi di cozze (poiché le cozze sono consumate senza la rimozione dei visceri) e usando la più alta concentrazione di microplastiche rilevata nei molluschi. In tal modo si è calcolata un’ingestione di 900 pezzi di MP.
Non solo pesce e frutti di mare
Le MP sono state riscontrate anche in altri alimenti:
- sale, con concentrazioni comprese fra 0,007 e 0,68 MP per grammo
- birra, in cui fibre, frammenti e granuli di MP ammontano a 0,025, 0,033 e 0,017 per millilitro
- miele, 0,166 fibre per grammo
- acqua in bottiglia, 94,37 MP per litro
- acqua del rubinetto, 4,23 MP per litro
Dati sperimentali sugli organismi marini hanno evidenziato che le MP possono essere trasferite a vari livelli: ad esempio, le farine di pesce vengono utilizzate in zootecnia per produrre mangimi destinati al pollame e ai suini, contribuendo alla diffusione delle MP anche in alimenti di origine non marina.
Anche le confezioni alimentari e l’uso di stoviglie in plastica (piatti, forchette, ecc.) possono rappresentare sorgenti di esposizione alle microplastiche. Le MP presenti nell’aria derivano dalla sospensione delle microplastiche presenti nelle acque o nei terreni, dall’abrasione dei materiali o dei tessuti sintetici: ad esempio, le MP rilasciate dagli pneumatici delle auto o delle moto nel traffico rappresentano la principale fonte di esposizione alle microplastiche negli ambienti esterni; le fibre di MP dei tessuti, invece, costituiscono la principale fonte di esposizione negli ambienti chiusi.
Anche le padelle antiaderenti se rovinate possono rilasciare fino a 2 milioni di microplastiche
Uno studio dimostra che le padelle antiaderenti in teflon, quando rovinate, potrebbero arrivare a rilasciare fino a 2 milioni di microplastiche dannose per la salute. Il lavoro è stato condotto dai ricercatori australiani del Global Center for Environmental Remediation e del Flinders Institute of NanoScale Science and Engineering.
Secondo la ricerca, basta solo anche una crepa superficiale su una padella rivestita di teflon per produrre il rilascio di circa 9100 particelle di plastica ma in caso l’utensile sia ben più rovinato, durante un processo di cottura, si può arrivare al rilascio di 2,3 milioni di microplastiche e nanoplastiche.
La regolamentazione
Le microplastiche preoccupano a livello globale. L’Ue ha già adottato una serie di misure per limitare i danni ambientali derivanti dai rifiuti di plastica. A gennaio 2020, ad esempio, è scattato il divieto di mettere in commercio prodotti cosmetici da risciacquo ad azione esfoliante o detergente contenenti microplastiche (lo stop era stato previsto dalla Legge di Bilancio 2018).
Lo stesso vale per i prodotti di plastica monouso, la cui vendita è stata vietata a partire dal 14 gennaio 2022 (Direttiva Ue “Sup”- Single Plastica Use) e per i quali esistono sul mercato già delle alternative compostabili o biodegradabili.
Lo scorso marzo, anche l’Unea (Assemblea delle Nazioni Unite per l’ambiente) ha approvato un documento che impegna gli stati membri a elaborare, entro il 2024, una strategia per la gestione del ciclo vitale della plastica: dalla produzione alle politiche di riduzione.